Sepúlveda mette i lettori ko

Lo scrittore cileno, ospite della nona edizione di El dia negro, spiega agli studenti, con la metafora della boxe, la differenza che passa tra un racconto e un romanzo e la propria nativa vocazione a stare dalla parte dei perdenti e a proteggere i sogni


Speciali, Milano
Pubblicato: 16 maggio 2012
di Alessio Schiesari

«Il rapporto tra il lettore e il libro è come un incontro di pugilato: un romanzo può anche vincere ai punti, ma un racconto no. Deve vincere per ko, altrimenti vuol dire che non ha colpito». Luis Sepúlveda parte dalla metafora dello sport che ama di più per spiegare agli studenti dell’Università Cattolica di Milano perché ha appena dato alle stampa Tutti i racconti, un’antologia che comprende anche degli inediti. L’occasione per incontrare lo scrittore cileno è la rassegna letteraria El día negro, organizzata da Dante Liano, docente di lingue ispano-americane.

È il professor Liano a fornire a Sepúlveda gli spunti per conversare con i tanti studenti accorsi all’incontro. Si comincia, appunto, dai racconti: «Tutti i grandi scrittori latinoamericani ne hanno scritti. È una forma letteraria molto sudamericana» spiega lo scrittore. La ragione? «Il racconto è spontaneo e breve, come la lingua spagnola. Soprattutto quella del Sud America, che attinge dalla tradizione orale indoamericana. Seduti intorno al fuoco non si può raccontare un romanzo, ma una storia breve sì. Il racconto è il metro per capire la capacità di narrare storie». E Sepúlveda in questo è un maestro. Si vede da come risponde alle domande del professore e dei ragazzi, con passione latina. Sembra soffrire quando deve aspettare la fine della domanda. Vorrebbe rispondere subito e parte sempre da lontano, narrando nuove storie.
Per esempio quella di Klaus Stortebeker, il capo dei corsari tedeschi. Su questo argomento Sepúlveda ha annunciato che sta scrivendo un nuovo romanzo e la prima stesura è già terminata. Un’anticipazione importante e un regalo dello scrittore cileno agli studenti della Cattolica. Quando Stortebeker venne catturato e condannato a morte dal Bürgermeister di Amburgo propose che la testa gli fosse mozzata mentre camminava. A ogni passo che fosse riuscito a muovere da decapitato, chiese che fosse salvata la vita di un suo compagno. Il Bürgermeister accettò e il corsaro riuscì a muovere undici passi, salvando altrettanti pirati. L’amore di Sepúlveda per i corsari nasce da due cose. Anzitutto il loro codice di comportamento, che recita: «Io uomo libero del mare mi impegno a dare a ciascuno secondo il suo lavoro e le sue necessità», le stesse parole scritte tre secoli dopo da Karl Marx. E poi, dalla bandiera corsara, un triangolo rosso su bandiera nera, come quella degli anarchici.
Da questa bandiera comincia un altro racconto, quella del nonno paterno dello scrittore: «Un formidabile anarchico andaluso. Quando ero piccolo mi fece sedere su una sedia di paglia e mi disse che aveva un regalo per me. Cominciò a leggermi il Don Chisciotte. Da quel libro, da quel folle desiderio di giustizia che spinge un uomo a scagliarsi contro i mulini, ho scoperto il mio amore per i perdenti. I personaggi più illustri, dal conte di Montecristo a Garibaldi, sono tutti degli sconfitti». Garibaldi non è l’unico italiano ad aver ispirato Sepulveda. «Il Decameron fu una grande scoperta. Lì c’è tutto lo spirito del racconto». E poi il neorealismo italiano, «con la sua capacità di raccontare ogni storia, anche la più complessa, con sinteticità. Non sarei mai diventato uno scrittore senza l’influenza di Ennio Flaiano e Tonino Guerra. Lui era il più grande, mi aiutò anche a scrivere la sceneggiatura di Nowhere. Quando, grazie alle sue correzioni, riuscii a terminarla, mi disse che ero diventato uno dei suoi. Per me fu una grande gioia» racconta Sepúlveda.
C’è spazio anche per i ricordi più dolorosi, come Villa Grimaldi, il lager dove venne rinchiusa sua moglie Carmen Yáñez. Finita la dittatura, un giovane poliziotto la avvicinò e si scusò per le torture. Carmen obiettò che il ragazzo era troppo giovane per avere delle responsabilità, ma il poliziotto insistette: «Faccio parte di un’istituzione che non ha chiesto scusa, per questo lo faccio a titolo personale». Un modo per ribadire che, nella società cilena, certe ferite sono ancora aperte. C’è spazio anche per un altro racconto, quello della sua terra. Sepúlveda ama il Cile ma non lo chiama patria, «perché la patria è dove c’è il sangue. Nel mio caso, la patria è la lingua spagnola e la condivido con 600 milioni di persone». Quando parla di Cile, Sepúlveda parte dalla conquista spagnola della sua terra quando ancora era abitata dai Mapuche. Durante la conquista, Alonso de Ercilla, il poeta che scrisse il poema La Araucana, seguiva l’esercito iberico. Sepúlveda immagina un dialogo tra un Mapuche ed Ercilla. «Cosa stai facendo?» chiese l’indio. «Sto scrivendo un poema». Il Mapuche, incuriosito, rilanciò: «A cosa serva la letteratura?». Attraverso la voce di Ercilla, Sepúlveda dà la sua risposta: «La letteratura serve a mantenere i sogni intatti».

Alessio Schiesari



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