Involontaria: avventure umane e umanitarie

Autore: Susanna Fioretti
Editore: Einaudi
Anno: 2011

Pescatori in un arcipelago dello Yemen colpito dallo tsunami, donne analfabete che tentano di lasciarsi alle spalle i burqa nell'Afghanistan post talebano, famiglie sopravvissute a un devastante terremoto in India, bambini minacciati dalla carestia nel deserto della Mauritania, piccole storie fra le capanne di un villaggio del Mozambico, guerriglia in Sud Sudan e, sullo sfondo, il Mediterraneo. Susanna Fioretti racconta missioni umanitarie intrecciate a vicende personali, facendo emergere tra le righe le differenze tra il "nostro" mondo e quello islamico. C'è passione e una vena d'ironia nel modo in cui descrive il lavoro che, per oltre dieci anni, l'ha tenuta lontana da amici e parenti, soprattutto dai figli le cui mail entrano ed escono dalle pagine del libro, insieme a ricordi di un'agiata vita romana e avventure ecologico-sentimentali in un'isola greca alla Durrell. Spesso le rinfacciano: "tutti bravi a occuparsi dei bambini indiani ma ai nostri vecchi chi ci pensa", e lei stessa s'interroga sulla sua scelta, le sconfitte subite, i limiti della burocrazia umanitaria. Perché "cooperando" si diventa responsabili di vite molto fragili, eppure dotate di una forza esemplare. È nello scambio che sta uno dei sensi dell'azione umanitaria, in cui a volte si prende più di quanto si dà.


Il libro evoca la differenza fra chi opera in questo settore gratuitamente e chi lo fa a pagamento. Quella volontaria è una componente essenziale, perché dotata di forte motivazione, principi positivi, capacità di sacrificio e molto altro, anche se, a volte, mancante di preparazione adeguata, capacità organizzativa o continuità.
Ho lavorato come infermiera volontaria in Italia, in ospedali, campi nomadi e centri di accoglienza; poi, per circa dodici anni,come delegato della Croce Rossa ed esperto del Ministero Affari Esteri, in progetti umanitari fra Mauritania, India, Yemen, Mozambico, Afghanistan e Sud Sudan. Chi fa missioni nei 'Paesi in via di sviluppo' si sente spesso rivolgere domande e commenti del tipo: “beata te, che cosa ci trovi, ma non hai paura, chissà se funziona questa storia degli aiuti, quanto va davvero a chi ha bisogno, non hai nostalgia, con la famiglia come fai, bella la vita laggiù, è più facile lavorare nel Terzo mondo che in questo schifo di città, resta a casa tua che è meglio, magari potessi venire con te, chi vuole aiutare la gente non ha bisogno di andare tanto lontano, tutti bravi a occuparsi dei bambini indiani ma ai nostri vecchi chi ci pensa, sei grande, mi sa che hai dei problemi, sei matta…” Ho cercato di rispondere scrivendo un libro, di recente edito da Einaudi: 'Involontaria', titolo che evoca la differenza fra chi opera in questo settore gratuitamente (questo si intende in genere con volontario) e chi lo fa a pagamento. Quella volontaria è, a mio avviso, una componente
essenziale, perché abitualmente dotata di forte motivazione, principi positivi, capacità di sacrificio e molto altro, anche se, a volte, mancante di preparazione adeguata, capacità organizzativa o continuità. Volontari e non sono due facce della stessa medaglia. Non uguali, hanno però elementi comuni come, ad esempio, l'assumersi spesso la responsabilità di vite umane. Dopo molti racconti di missioni e avventure fra isole e deserti, ‘Involontaria’ propone qualche riflessione derivata dalla mia limitata esperienza. Sono riflessioni dirette a chi ha fatto della cooperazione umanitaria la sua professione, ma spero che alcune possano essere utili anche ai volontari, in particolare a quelli che operano all'estero. "Analizzando risultati ed errori, per primi i
miei, mi chiedo sempre più spesso quanto la cooperazione umanitaria funzioni, e se non si stia trasformando in un settore qualunque, con il proprio nutrimento fra le priorità. All’inizio immaginavo avesse a che fare con l’altruismo, man mano ho incontrato molti che dicono sia così e pochi che agiscono di conseguenza, in maggioranza sconfitti. Per quali motivi si diventa un «cooperante»? Io non ho dimenticato di aver cominciato la prima missione per fuggire da certi miei problemi, ma non avrei continuato se non avessi trovato uno scopo
meno personale e creduto di poter offrire qualcosa, oltre a prendere. Non mi sembra infatti un lavoro qualunque: chi lo fa finisce per avere nelle sue mani, in un modo o nell’altro, esseri umani. Se ne dovrebbe
sentire tutto il peso, eppure ai cooperanti che si occupano di vite del «Terzo mondo» non è richiesto un giuramento, nemmeno una dichiarazione d’intenti: noi non abbiamo un codice deontologico come le categorie
professionali che hanno a che fare con vite europee e raramente paghiamo le conseguenze dei nostri errori. Ho provato a proporre una riflessione con una lettera aperta, troppo lunga. Non è stata pubblicata e la riporto qui, abbreviata: Accade di distribuire aiuti che finiscono al mercato, svenduti da chi aveva bisogno di tutt’altro; di organizzare corsi che non danno possibilità di guadagno; di costruire strutture prive di mezzi per funzionare. Si tengono tanti incontri su strategie comuni ma, in caso di crisi umanitaria, la fretta può spingere le organizzazioni a elaborare proposte senza coordinarsi tra loro né sapere chi fa già cosa e dove; tanto che a volte si dà doppio supporto ad alcuni, niente ad altri. Si arriva anche al paradosso di non riuscire a spendere i fondi, rimandandoli indietro da Paesi dove la gente ne ha un disperato bisogno, ma non può averli se non rientra negli obiettivi dei donatori […] Ritardi e rigidità derivano in parte dall’esigenza di controllo, ma un vero controllo non esiste se le verifiche dei progetti vengono effettuate da chi li gestisce; quando ispettore e
ispezionato coincidono, si tende infatti a nascondere gli sbagli per auto-dichiararsi bravi, si producono rapporti che vantano successi non sempre reali. Questi rapporti valutano in genere un progetto al momento
in cui si conclude per il donatore e viene consegnato ai beneficiari. Ignorando che succede in seguito, capita di replicare attività valide sulla carta, inefficaci in pratica. Ad esempio, un pozzo di profondità può essere «realizzato con successo», ma lasciare presto a secco un villaggio perché non si è previsto come coprire i costi di manutenzione e i beneficiari, rimasti soli, non sanno tassarsi per le spese o accordarsi sui turni […] Alcuni organismi danno incarichi di responsabilità e alti compensi basandosi solo sulla laurea. Forse ritengono che l’esperienza pratica non conti o si possa acquisire a spese dei progetti, talvolta affidati a chi in patria non trova impiego, non ha mai seguito un cantiere o tenuto una lezione […] Nel calderone cooperativo ci sono iniziative eccellenti, ottimi frutti nati da competenza e serietà; ma anche progetti fantasma, come una strada che, percorrendola, ho scoperto esistere solo sulle mappe […] Non posso tirare somme significative da esperienze del mio livello. Ne scrivo per chiedere, a chi dall’alto vede il quadro intero, di avviare un dibattito onesto sul ruolo svolto dall’Italia. Quanto denaro pubblico, gestito direttamente, affidato a Ong, agenzie delle
Nazioni Unite o governi locali, è investito in attività di cooperazione all’estero? Gli attori pubblici non possono unire le forze e risparmiare? A che risultati hanno portato tanti investimenti? In quante Nazioni, regioni, città o villaggi sono state sconfitte  la povertà, la malnutrizione, qualche malattia? Forse un bilancio del genere non si può fare, ma allora come si valutano gli effetti di decenni di attività, di miliardi di euro elargiti? Un ente nazionale, analizzato il proprio rendimento, interruppe le attività finché, ristrutturatosi, si sentì in grado di garantire efficienza. Al nostro modo di fare cooperazione non serve una messa a punto? L’Italia, che in questo momento sembra aver bisogno di tutte le risorse disponibili e tuttavia continua a donarne, per remote, innegabili necessità, è certa che arriveranno a destinazione, che serviranno a chi devono servire, che non si può far meglio per «loro» e per «noi»? Credo che il treno degli aiuti, in marcia da qualche decennio,
abbia bisogno di una revisione. Ha trasportato per il mondo tante macchine di varie marche, utilitarie e limousine: alcune sostituiscono i pezzi avariati, raggiungono il traguardo; altre sprecano olio per gli ingranaggi,
mettono alla guida autisti senza patente, si prestano a contrabbandare economia e politica, corrono per governi corrotti. Ma non si può dare tutta la colpa alle macchine. Finché si è a bordo si condividono le responsabilità, bisogna riuscire a migliorare o scendere."

Tratto dal libro ‘Involontaria’ di Susanna Fioretti (c) 2011, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

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