"Non c'è pace senza giustizia". In Guatemala Ríos Montt condannato per genocidio

Si è concluso il 10 maggio, con la condanna a 80 anni di carcere per genocidio, un processo chiave per la storia del piccolo Paese centroamericano: quello contro Efraín Ríos Montt, l'ex generale considerato mandante del massacro di 1.771 maya Ixiles (nell'immagine in un fotomontaggio). La curatrice di un blog specializzato, Orizzonte Guatemala, ha raccolto per Popoli il commento del vescovo Alvaro Ramazzini, da anni impegnato nella difesa dei diritti delle popolazioni indigene.


«In Guatemala è stato compiuto sistematicamente un genocidio ai danni della popolazione maya Ixil», ha dichiarato la giudice Jazmin Barrios. Si è concluso così, dopo due mesi, il processo contro due ex generali, l’ex capo di Stato de facto, Efraín Ríos Montt, e l’ex capo dell’intelligence militare, Josè Mauricio Rodriguez Sànchez, accusati di genocidio e di delitti contro l’umanità.
La sentenza, pronunciata il 10 maggio, dopo una ventina di udienze e un centinaio di testimonianze, ha riconosciuto colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità l’86enne Efraín Ríos Montt. Per essere stato ritenuto responsabile del massacro di 1.771 indigeni delle comunità maya Ixiles l’ex generale è stato condannato a 80 anni di carcere, di cui 50 per il delitto di genocidio.
Una decisione storica per il Guatemala, di cui abbiamo parlato con monsignor Alvaro Ramazzini, vescovo di Huehuetenango, e attivo da anni nella promozione e difesa dei diritti dei popoli indigeni. «Il processo - spiega Ramazzini - ha fatto capire quanto la polarizzazione sociale sia forte nel Paese. Nella società guatemalteca ci sono profonde divisioni: mentre in tribunale alcuni indigeni maya Ixiles hanno testimoniato raccontando le violenze subite e chiedendo giustizia per i loro parenti uccisi, contemporaneamente venivano organizzate manifestazioni a favore di Rios Montt alle quali partecipavano gruppi di Ixiles».
Il vescovo denuncia come la violenza mediatica si sia scagliata anche contro la Chiesa cattolica. «In una pubblicazione intitolata La farsa del genocidio, che circolava nelle scorse settimane in Guatemala, la Fondazione contro il Terrorismo sosteneva che il processo contro Rios Montt è una cospirazione marxista dalla Chiesa cattolica». Notevole anche la preoccupazione per la criminalizzazione e le persecuzioni dei leader comunitari: «Risale a solo poche settimane fa il sequestro e l’assassinio di Daniel Pedro Mateo, leader comunitario della comunità di Santa Eulalia, nella mia diocesi».
Lo scorso 26 aprile ricorreva poi il 15° anniversario dell’assassinio di monsignor Juan Gerardi, vescovo ausiliare di Città del Guatemala, ucciso per il suo instancabile lavoro di ricerca della verità sugli anni della guerra civile. In questa occasione la Conferenza episcopale ha pubblicato un messaggio nel quale ha dato una lettura della situazione del Paese (La paz estè con ustedes). Riprendendo quel testo, Ramazzini presenta le sfide che ancora rimangono aperte: «Sono passati 17 anni dalla firma degli accordi di pace. È vero che questi accordi hanno posto fine al conflitto armato. Ma constatiamo che nei loro aspetti principali sono rimasti lettera morta, frustrando così le speranze del popolo guatemalteco. Dobbiamo riconoscere che le cause strutturali che hanno dato origine al conflitto armato non sono state superate, si rafforza un modello economico che concentra la ricchezza nelle mani di pochi. In questi anni abbiamo visto politiche che non offrono soluzioni alla situazione di povertà, emigrazione forzata, razzismo ed esclusione. Continuiamo a constatare la costante mancanza di rispetto della dignità umana, di crescente e pericolosa polarizzazione sociale, di calunnie e voci ricorrenti che creano confusione».
Ramazzini sottolinea il senso del prezioso lavoro di recupero della memoria storica di cui Gerardi è stato l’anima: «La Chiesa cattolica pensava che fosse importante conoscere le ragioni e le cause della guerra che per 36 anni ha sconvolto la società guatemalteca, con migliaia di morti, desaparecidos, sfollati interni e in Messico. Volevamo capire, per evitare che succedesse ancora una tragedia simile. Siamo convinti che una guerra causa ferite molto profonde sia a livello personale che nel tessuto sociale».
E il vescovo sottolinea anche l’impegno per il futuro: «Gerardi voleva che il progetto del recupero della memoria storica potesse continuare. Voleva fare in modo che i colpevoli potessero chiedere perdono alle vittime, e le vittime potessero perdonare. Molti non hanno inteso il lavoro capillare di raccolta di testimonianze e di ricerca della verità, e pensano che la Chiesa abbia voluto fare rivivere sentimenti di vendetta e di odio. La Chiesa cerca la riconciliazione attraverso la verità».
Pur in una situazione di violenza diffusa, di mancato compimento degli accordi di pace, che posero fine alla guerra interna, con le annose problematiche legate alla terra, in assenza di una riforma agraria, con una politica economica neoliberista che apre le porte agli investimenti delle multinazionali straniere senza curarsi della volontà delle popolazioni indigene e del rispetto della natura, nonostante tutto ciò, mons. Ramazzini vede alcuni segni di speranza, in particolare nella forte presa di coscienza delle popolazioni indigene, che si stanno organizzando per la salvaguardia dei loro diritti, nell’impegno degli operatori pastorali e sociali, che sul territorio collaborano anche con le attività della Chiesa per migliorare le condizioni di vita della popolazione, e nella grande solidarietà e nell’amicizia che sente sia nei suoi confronti sia del suo Paese.
Mons. Gerardi sosteneva che fino a quando non si conoscerà la verità le ferite del passato rimarranno aperte. Quasi facendogli eco, la giudice Barrios durante la lettura della sentenza di condanna a Rios Montt ha aggiunto: «Perché esista pace in Guatemala deve esistere prima giustizia».
Con il riconoscimento del genocidio, si può aprire una pagina nuova nella storia del piccolo Paese centroamericano.
Daniela Sangalli
curtatrice del blog Orizzonte Guatemala

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