I produttori di pace. Le storie di alcune “bandiere” del commercio equo e solidale mondiale

Chi resiste in Messico, chi è sotto processo per ribellione nelle Filippine, chi patisce muri come quello frutto della “guerra di bassa intensità” condotta dallo Stato di Israele contro la Palestina e chi crea alternative alla guerra colombiana
tratto da Altreconomia n. 173
 
Franss Van der Hoff ha 75 anni e ha contribuito alla nascita del movimento del commercio equo e solidale quando ne aveva meno di trenta. Missionario olandese, lavora in Messico dagli anni Sessanta con UCIRI, una cooperativa che produce caffè nella regione dell’Istmo di Tehuantepec, nello Stato di Oaxaca. Nel 1988, con Nico Roozen, ha lanciato “Max Havelaar”, la prima certificazione fair trade.
Nel corso del 2015, racconta sorridendo, hanno cercato di rapirlo un paio di volte. Il suo Paese d’adozione -spiega- è una democrazia fallita, dove la violenza dilaga. Per garantirsi  sicurezza e incolumità serve organizzare carovane, con auto di scorta, per raggiungere la Selva, le zone montagnose dove si produce il caffè d’altura. In America Latina, ma anche in Asia, e in Medio Oriente, il movimento del fair trade (al pari di quello della cooperazione internazionale) “vive” le guerre, ogni condizione di violenza e di tensione geopolitica, e ne rappresenta un osservatore privilegiato: chi realizza migliori condizioni di vita per una fetta della popolazione impiegata in agricoltura, nel settore della trasformazione delle materie prime o nell’artigianato, opera per trasformare quelle condizioni di disuguaglianza che spesso sono alla base dei conflitti.
Anche Ruth Salditos, come Van der Hoff, sorride quando spiega di essere a processo, nelle Filippine, accusata di ribellione: “I’m a rebel -dice-, ti senti sicuro seduto accanto a me per questa intervista?”. Poi si fa seria: “Qual è la mia unica colpa? Aver fondato PFTC”, cioè Panay Fair Trade Centre, l’organizzazione che produce e trasforma lo zucchero Mascobado, commercializzato in Italia da Altromercato. “Chi governa il Paese ha paura: PFTC, grazie alla collaborazione con i nostri partner in Europa e in Asia, sta crescendo, migliorando le condizioni di vita di chi lavora in agricoltura, e così attraverso il nostro esempio stiamo evidenziano un problema nella società filippina, che però da solo il fair trade non può risolvere. Le Filippine devono dare risposte alla povertà, alla corruzione, dovrebbero realizzare una riforma agraria genuina. Il Paese deve affrontare questi problemi, perché i suoi cittadini possano vivere meglio”. Secondo Ruth Salditos, che è anche presidente della confederazione degli esportatori filippini (Philexport) della Regione di Iloilo, “il presidente Benigno Aquino III è sempre più impopolare”, mentre il Paese non fa niente per cambiare le condizioni di chi opera nel settore agricolo: “I livelli di accesso al mercato non vengono modificati, e per la maggioranza dei contadini c’è lo spettro del dumping da parte dei Paesi del Nord. Senza alcun intervento, i filippini saranno sempre più poveri”, mentre i mercati si riempiono di merci importate.

Ruth Salditos è fuori dal carcere, in attesa di giudizio su cauzione. Nel corso del 2014 Romeo Capalla e Dionisio Garete, altri due esponenti di PFTC, sono stati invece assassinati. “Perché ci uccidono? Perché stiamo esponendo un problema. Perché portiamo avanti processi di empowerment, di presa di coscienza. Credo però che gli omicidi di Romeo e Dionisio rappresentino un danno per il governo. Perché ci ha portato a scendere in piazza. E lì restiamo. Perché tutti, nelle Filippine e non solo, devono sapere che cosa è successo. A quindici mesi dall’omicidio di Romeo, stiamo ancora attendendo i report dello special investigation team, della squadra che si dovrebbe occupare dell’inchiesta. Non c’è nessun avanzamento, e appare chiaro, lo era già durante la missione condotta dalla World Fair Trade Organization nell’estate del 2014 (vedi il reportage di Rudi Dalvai, presidente WFTO, su Ae 164), che non c’è alcuna intenzione di far luce sull’accaduto” spiega Ruth Salditos.

L’impunità è la regola, in uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i difensori dei diritti umani e dell’ambiente, secondo i report di Global Witness. “Romeo Capalla è fratello di un arcivescovo, di una personalità riconosciuta. Se hanno ucciso lui, hanno voluto darci un messaggio: possiamo colpire chiunque. Io, invece, non sono nessuno. Ho solo fondato, insieme ad altri, PFTC. Dovrei fermarmi?” conclude Ruth Salditos. La risposta, implicita, è che non ha alcune intenzione di farlo.

Le difficoltà logistiche, acuite dalla “guerra di bassa intensità” condotta dallo Stato di Israele contro la Palestina, non paiono frenare nemmeno Susan Sahori, co-fondatrice e direttrice esecutiva di Bethlehem Fair Trade Artisans. “Sono palestinese di Betlemme -inizia a raccontare-: nel 2009, ho dato vita insieme ad altri a BFTA (www.bethlehemfairtrade.org), per sostenere le donne artigiane che lavorano l’olivo e altri prodotti; per cambiare una situazione in cui i poveri, nel nostro Paese, sono sempre più poveri. Nel 2012 siamo entrati a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio equo, e questo ci ha aperto un sacco di opportunità, nel network del fair trade, nuove opportunità di export, come le ceramiche dipinte a mano da uomini e donne di Hebron, vendute in Europa” (in Italia le importano la cooperativa LiberoMondo di Roreto di Cherasco, Cuneo, e l’associazione Benkadì di Staranzano, Gorizia).

Il pagamento anticipato della metà del valore dell’ordine, permette di garantire “agli artigiani che iniziano a lavorare le risorse per acquistare le materie prime, e ad investire nello sviluppo di nuovi prodotti, ma anche in corsi di computer, di inglese: il fair trade rappresenta una grande opportunità per la Palestina” racconta Susan Sahori. WFTO, poi, fa anche altro: “Riconosce la Palestina, come Stato -spiega Sahori-. All’interno dell’Organizzazione c’è una regione del Medio Oriente, che riunisce 4 organizzazioni palestinesi, una del Libano, una giordana e una egiziana”. Nel corso del 2015, racconta Sahori, “realizzeremo un forum, invitando i ministri delle Finanze e dello Sviluppo economico, perché conoscano le potenzialità del fair trade”. Intanto, Bethlehem Fair Trade Artisans lavora per il coinvolgimento dei sindaci delle città palestinesi. Hani Abdalmasih, sindaco di Beit Sahour, fa parte del direttivo, ad esempio. 
“Il 60 per cento dei cittadini di Betlemme vivono di turismo e di export dei prodotti artigiani. Ciò che sta accadendo nell’intera Regione ha portato all’assenza di turisti. Oggi non c’è più nessuno davanti alla Chiesa della natività, nessuno a cui vendere. Per quanto riguarda invece l’export, oggi ogni scambio può avvenire solo attraverso Israele. Il muro ha frenato le relazioni commerciali tra lo Stato ebraico e la Palestina. I piccoli produttori, marginalizzati da questo sistema, non hanno più modo di accedere al mercato dei souvenir shop israeliani, che prima erano riforniti principalmente da artigiani palestinesi” racconta Susan Sahori, specificando che non c’è differenza per chi lavora nel commercio equo.
“Anch’io se voglio mandare un container per l’Italia, devo far sì che passi per Haifa, attraverso un agente israeliano. Ciò significa che devo impaccare a Betlemme, portare il container a Hebron, dove c’è un ‘meeting channel’, e due camion s’incontrano, avanzando entrambi a marcia indietro, e scambiandosi il carico. Questo servizio è, ovviamente, a pagamento. Solo per arrivare al porto, così, dobbiamo affrontare  un costo significativo. E questo è un ostacolo, che incide sul prezzo finale dei prodotti che trovate nelle vostre botteghe del commercio equo”.

A Milano, in occasione della conferenza biennale della World Fair Trade Organization e a Milano Fair City, c’era anche Gonzalo Tavera Cruz. Arriva dalla Colombia, un Paese che vive una guerra civile lunga cinquant’anni, ed è il coordinatore di Asoprolan, un’associazione di produttori di cacao del dipartimento di Santander. “Quando siamo nati, le famiglie associate erano 39. Oggi sono 300. Il nostro è un progetto di sviluppo alternativo. L’alternativa offerta alle famiglie è quella di passare dalla illegalità alla legalità, dalla coltivazione di coca e amapola (il papavero da oppio, ndr) al caffè, al cacao, all’apicoltura, o all’orticoltura e frutticoltura, a seconda delle vocazione della terra” spiega Tavera Cruz.  

“L’unico cammino possibile per poter pacificare un conflitto è un progetto alternativo. Quando una regione vive una situazione di violenza, le istituzioni non devono arrivare con armi, ma con progetti produttivi, per calmarla. Con insegnamenti e risorse. Chi vive un territorio in conflitto non è capace di vedere oltre. La guerra è uno spazio chiuso: bisogna poter vedere che ci sono altre possibilità, ‘fuori’ dal conflitto” continua a raccontare. Nello specifico, molte comunità del dipartimento di Santander si trovano a “quattro o cinque ore di cammino da strade di collegamento, e non avrebbero, da sole, vie d’accesso a un mercato per il cacao, o per gli avocado. I narcotrafficanti, invece, co-finanziano la produzione, dalla semina alla trasformazione”. Esistono piani di sradicamento delle coltivazioni, a cui numerose comunità aderiscono volontariamente. “C’è anche la erradicaciòn forzada, ma la maggioranza delle comunità sceglie quella volontaria. Nonostante questo, in Colombia restano seminati 48mila ettari di coca” racconta Ana Lucía Uribe, che lavora per l’agenzia Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC). Per la funzionaria delle Nazioni Unite, quello di Asoprolan -che oggi esporta il proprio cacao in Italia, attraverso il circuito del fair trade in partnership con Altraqualità- è un esempio.

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