QUELLE VOCI DALLA PRIMA LINEA

QUELLE VOCI DALLA PRIMA LINEA

GIORGIO BOATTI
La Provincia Pavese, domenica 15 marzo 2020

É un tempo, quello che stiamo vivendo, fuori dal tempo ordinario. Dunque si possono - si devono - scrivere parole, ed esplicitare pensieri, che ordinari non sono. Perché, di solito, non si dicono. Rimossi da ogni discorso pubblico. Spariti. Parole e pensieri sul morire, per esempio. E del morire di questi tempi. Chi ha molto vissuto sa che, in definitiva, si muore sempre da soli. Ma la solitudine di chi se ne va, in questi giorni, è ancora più sola. Lo sa bene chi lavora nei reparti più esposti dei nostri ospedali. All'immensa fatica quotidiana deve aggiungere anche lo strazio di avere sotto gli occhi quello che viene risparmiato a chi sta fuori dalle "prime linee". Dai reparti ospedalieri, da tante Rsa. Queste le parole con cui uno dei nostri infermieri, amico veritiero, ne parla: "É arrivato il momento di raccontare di chi è in un letto, di chi ha 75-80 anni ma anche meno, e scoppia a piangere perché ha paura di morire. Di chi non ne può più di ossigeno. Di maschere. Di Cpap (acronimo di Continuous Positive Airway Pressure, ovvero la ventilazione meccanica a pressione positiva continua). Non ne può più di non respirare. Di non riuscire a farlo da solo. Non ne può più di camere con le porte sempre chiuse. Di nessun parente che può venire a far visita. Di infermieri e medici che entrano in camera ma sono talmente bardati che gli vedi solo gli occhi. Contatti protetti da doppi guanti. Letti rifatti velocemente. Poche parole scambiate. Ricerca di contatto. Tendendo la mano...".Sono diverse, e non solo in rete, le testimonianze - di medici, infermieri, personale ospedaliero, pazienti, parenti - che piovono su questi giorni. Dovrebbero servirci ad una riflessione profonda. Non solo per fare entrare parole e pensieri rimossi nel nostro riflettere: sul senso del tutto, compreso i definitivi commiati. Dovrebbero, anche, indurci a costruttivi propositi di cambiamento. Su di noi e sul mondo di cui siamo parte. Affinché, se sotto i colpi di questa prova, qualcosa dovrà cambiare, cambi in meglio. Ce lo impone proprio quanto stiamo vivendo. Gli atti di generosità, di civiltà, di capacità di vicinanza vera, gli uni verso gli altri, pur nel rispetto dei sacrosanti provvedimenti di "social distancing". Le cronache ne fanno emergere tanti, di questi gesti.
Il fund raising lanciato a favore dei nostri ospedali. Le donazioni dei nostri ristoratori verso chi è più impegnato sul fronte sanitario ed assistenziale. L'impegno largo e magnifico di tanti nostri concittadini - dai "primi cittadini" di ogni Comune, presenti 24 ore al giorno per adempiere ai loro compiti, ai cittadini "normali" operanti nel volontariato. Senza scordare tutti gli altri che, almeno sui nostri territori, stanno dando prova esemplare non solo di ciò che è dovuto. Ma, anche, di ciò che è voluto. In concreti gesti di solidarietà verso chi è più fragile. Stiamo vivendo tutti un'esperienza tragica e dunque indimenticabile. Quando avremo superato questa terribile stagione uno dei primi compiti sarà fissarne la memoria. A cominciare da quello che si sta facendo nell'occhio del ciclone: i nostri ospedali. Bisognerà dar voce e raccogliere tanti momenti, esperienze, insegnamenti. Farli confluire in una polifonia di voci. Dovranno comporre la ricostruzione corale di uno dei capitoli più difficili, e memorabili, mai capitati dentro la vita plurisecolare del Policlinico San Matteo di Pavia. E degli altri nostri ospedali. Non si dovrà lasciare che il tempo disperda quanto vi sta accadendo. Sarà il modo più efficace per dare durevolezza a quel legame intenso, riconoscente, rigeneratore di vincoli comunitari fondativi, che, più che mai, ora sentiamo. Verso tutti coloro che - con infinita cura, e rischio e sacrificio personale - stanno assistendo i nostri malati. E ci stanno rincuorando. Sconfiggendo le nostre paure.

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