Ora faccio l'infermiere, in passato mi sentivo infermiere

Ruggero Rizzini, quindici anni tra le corsie, confessa scetticismi e delusioni legate alla professione

di Daniela Scherrer

Quarantun anni, infermiere professionale dal 1993 (“per scelta”, sottolinea), Ruggero Rizzini ha alle spalle quindici anni vissuti tra le corsie d’ospedale e tantissime esperienze accumulate in reparti diversi: Oncoematologia Pediatrica, Malattie Infettive, Medicina, Chirurgia Gastroenterologica e Mammaria al San Matteo, quindi anche qualche parentesi al Mondino e alla Maugeri.
Ora è tornato alla Clinica delle Malattie Infettive del Policlinico, dove attualmente presta servizio.
Ruggero, come mai tutti questi cambiamenti nel curriculum lavorativo?
E’ stata una mia scelta, perchè credo che per un infermiere non sia proficuo restare nello stesso ambito per tutta la vita lavorativa. Personalmente ho sempre considerato la mia professione legata a filo doppio alla possibilità di fare il maggior numero di esperienze possibili, affinchè si possa arrivare un giorno ad avere quella esperienza necessaria per poter quantomeno gestire nell’emergenza quasi tutte le situazioni.
Dopo sei anni alla Chirurgia Gastroenterologica e Mammaria sei tornato a Malattie Infettive. Perchè?
Ho voluto ritornare in una Clinica dove c’è il cosiddetto operatore unico, che significa la presenza contemporanea in reparto di due infermieri professionali. Per quanto mi riguarda ritengo infatti fallimentare l’esperienza vissuta al fianco dell’operatore di supporto e non sono d’accordo con la scelta di introdurre questo soprattutto in certi reparti delicati. In passato mi sono trovato a gestire da solo, sotto il profilo infermieristico, ventotto malati, potendo contare solo sul supporto di un operatore che mi dava una mano ma senza responsabilità precise.
Quindi è vero che voi infermieri siete troppo pochi per garantire un’assistenza di qualità?
Sono due le considerazioni che vorrei proporre. In primo luogo indubbiamente nei reparti mancano infermieri e siamo costretti a turni spesso veramente usuranti. Secondariamente, però, aggiungo anche che il personale a volte è mal distribuito. Ad esempio fatico a capire come mai gli ambulatori possono contare sulla presenza tutto sommato equa di infermieri professionali, mentre nei reparti questo non avviene. Forse perchè l’attività ambulatoriale alla struttura sanitaria rende di più rispetto a quella nei reparti? Certamente peraltro non investire a sufficienza sul personale infermieristico per un ospedale significa automaticamente non essere in grado di garantire un’assistenza di qualità.
Tu sei un infermiere turnista. Come funziona il sistema?
Il turno ideale, secondo me, è quello che io sto ad esempio effettuando a Malattie Infettive, ossia una notte ogni cinque giorni. Il ritmo è questo: pomeriggio dalle 13 alle 21, poi mattina e notte (7-13 e 21-7), quindi riposo per quella giornata e per la successiva. E dopo ricominci. Significa una notte ogni cinque giorni. Da altre parti invece l’infermiere fa la notte ogni quattro giorni. E comunque spesso i turni saltano e sei chiamato a coprire orari non tuoi, che costringono a un sovraccarico forte.
E’ vero che di notte l’infermiere fa poco e può anche dormire?
Chiaramente il ritmo è ridotto rispetto a quello del giorno. Innanzitutto sei chiamato a preparare il lavoro per il collega che subentra la mattina successiva e poi l’attività è soprattutto quella del soddisfacimento delle richieste dei pazienti che suonano il campanello. I ricoveri notturni fanno parte dell’eccezionalità. Però alla lunga la notte diventa usurante, anche perchè non è vero che puoi dormire tranquillamente. Io faccio l’infermiere da quindici anni e difficilmente ho visto colleghi dormire la notte. Al massimo puoi riposare un po’ e chiudere gli occhi mezz’oretta.
E’ cambiato il tuo modo di vivere la professione oggi rispetto a quindici anni fa?
Molto. Quando ero più giovane mi sentivo infermiere, oggi faccio l’infermiere. Non è la stessa cosa. Continuo a svolgere questa professione perchè comunque mi piace, ma non ho più così tanti stimoli e lo stesso interesse. Sono fortunato perchè al di fuori dell’ambito sanitario ho trovato una grossa valvola di sfogo, che è l’appartenenza all’Associazione AINS. Fare volontariato mi consente di recuperare serenità, ha migliorato la mia qualità di vita.
Perchè oggi sei più scettico riguardo alla tua professione?
A livello sociale credo che quelle di insegnante, medico e infermiere siano le professioni più utili in tutto il mondo, se ben svolte. Ma devo essere sincero: non credo che il lavoro dell’infermiere, così impostato, sia davvero utile. L’infermiere oggi si tira il collo tutto il giorno tra lavori di manovalanza e burocrazia, senza potersi dedicare a quella educazione sanitaria che sarebbe invece compito prioritario. Invece non riusciamo nemmeno più a trovare il tempo per parlare con il medico, con lo stesso paziente e con i parenti.
Infermiere e sofferenza, addirittura morte. Un incontro quotidiano, vissuto strettamente. Quanto incide questo a livello interiore?
Moltissimo. Anche sotto questo profilo mi rendo conto di essere cambiato con il passare degli anni. Oggi più di allora mi pesa il clima di sofferenza, di dolore che si respira tra le corsie. Ho 41 anni e mi rivedo nei malati che stanno male e che lentamente si spengono. Poi c’è anche la difficoltà nell’affrontare la disperazione dei familiari.
Non venite preparati anche psicologicamente all’incontro col malato e con i parenti?

No e questa secondo me è una lacuna. Non c’è alcuna preparazione nè alcun sostegno psicologico dato all’infermiere, chiamato ogni giorno a incontrare nei reparti dolore e morte. Almeno una volta al mese sarebbe invece importante poter avere un colloquio con uno psicologo, per potersi sfogare e anche confessare stress, paure e sofferenze interiori. Altrimenti il rischio in agguato è quello di andare in “burnout”, con conseguenze sia per se stessi che per il sistema sanitario perchè non si rende più sul posto di lavoro.

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