Joana e la forza di credere nei sogni

Negli occhi verdi di Joana si leggono la forza e la dignità di una donna che è riuscita a realizzare il sogno della sua vita senza mai scendere a compromessi. Quei compromessi assurdi a cui spesso sono soggette le ragazze giovani e belle come lei, che vengono da un Paese povero come la Romania e per le quali dietro a illusioni di una vita migliore alcuni connazionali senza scrupoli nascondono le insidie della strada. Oggi Joana ha ventinove anni, è una Operatrice Socio Sanitaria (OSS) alla Clinica Ortopedica del Policlinico San Matteo, mentre alcune sue amiche sono finite a prostituirsi in Italia o in Francia ed altre sono ancora in Romania a lavorare nei campi. Cosa che ha fatto anche lei, prima di decidere che la sua vita valeva molto di più.

A tredici anni raccoglieva le mele per finire quella scuola media dove era bravissima (ha chiuso con 9.13 di media generale), ma studiare era troppo costoso per una famiglia in cui il padre era alcolizzato e mamma doveva sfamare cinque bocche. Joana ha imparato presto che la realtà è diversa dai sogni, ma ha imparato anche a lottare forte per quei sogni. Voleva indossare un camice bianco per aiutare gli altri e, passando per dieci anni di battaglie, ce l’ha fatta. Aveva diciotto anni quando, nel 2004, dopo avere rifiutato “avances” e proposte poco nitide che non le interessavano decide di partire per la Spagna in cerca di fortuna; inizia come bracciante, poi frequenta un corso di assistenza per anziani e diventa badante. Joanna lotta e soffre, si innamora di uno spagnolo che ha il doppio dei suoi anni e che presto se ne va colpito da un tumore al cervello. Lei, che nonostante le notti in ospedale accanto all’uomo era stata sempre malvista dalla madre perché considerata come un’approfittatrice in cerca di documenti, viene cacciata via in malo modo con trecento euro in tasca. Torna in Romania, ma capisce subito che quella non può più essere la sua vita e riparte per l’Italia. Destinazione Villanterio, dove sua mamma lavora come badante. E’ la fine del 2006. Non parla una parola di italiano, cerca disperatamente un lavoro, accetta la proposta di un mese e mezzo a Madonna di Campiglio per accudire i figli di una famiglia benestante e impegnata tra alberghi e ristoranti (presso cui si trova benissimo), poi torna a Villanterio e si scontra con la burocrazia: per avere la carta di identità italiana ci vuole il permesso di soggiorno, per avere il permesso di soggiorno ci vuole un lavoro ma il lavoro nessuno te lo dà se non hai il documento di identità. E’ la solita storia del gatto che si morde la coda.

Ecco allora che, nel momento più buio in cui Joana si sente solo una mantenuta che vive con i soldi faticosamente guadagnati dalla mamma, arriva un raggio di sole: si chiama Luciano, inizialmente è il vicino di casa con cui confidarsi ma ben presto tra i due scoppia l’amore che ancora oggi è ben vivo. Luciano assume temporaneamente Joana come colf e questo le consente finalmente di ottenere la carta di identità italiana. La situazione lavorativa può sbloccarsi, anche se resta difficile. Joana viene assunta dalla Cooperativa Meridional, che ha l’appalto per le pulizie al San Matteo: quelle Cliniche che sogna di servire come infermiera può solo per il momento tenerle pulite, ma almeno è un primo contatto. Tre ore al giorno, uno stipendio modesto ma Joana ha imparato nelle difficoltà a trovare in tutto qualcosa di positivo: “Ero sfruttata e non considerata da nessuno, ma in qualche modo avevo fatto il mio ingresso nel mondo sanitario. Quando fai le pulizie non conti nulla, ma mentre lavavo mi veniva spontaneo ascoltare, imparare, interessarmi a tutto quel che dicevano gli infermieri perché ero attratta da quel lavoro”. E così qualcuno nota quella ragazza dalla mente fervida e spigliata. E’ una infermiera che la incoraggia a provare a crescere professionalmente, la sprona a fare la patente (che prende nel 2009), le presta il denaro per acquistare una piccola macchina. Joana diventa prima Asa dopo ottocento ore di lezione, poi si riqualifica con altre quattrocento ore e corona il suo sogno: diventare OSS. Siamo nell’ottobre 2010. Abbandona lo spazzolone, si licenzia dalla Meridional e, tramite la Temporary, viene richiesta da più parti: si succedono le esperienze all’Intra Moenia del San Matteo, poi in una Casa di Cura milanese e in un’altra a Pieve Porto Morone, prima di iniziare lo scorso agosto al Policlinico, con contratto da trentasei ore, tempo pieno. Un mese in Chirurgia Vascolare e poi la Clinica Ortopedica, nel settore femminile. “Un ambiente caotico, dove spesso come altrove si fatica per la carenza di organico –spiega Joana- ma mi trovo benissimo, sia con le colleghe (tutte donne) che con le pazienti. In questi sei mesi ho imparato molto anche perché è possibile la collaborazione tra infermieri e Oss. Il contratto scadrà ad agosto, poi non so dove andrò ma va bene tutto. Anzi mi piace cambiare ambito perché consente di crescere umanamente e professionalmente”.
La voglia di crescere è una costante della vita di Joana. Lo ha sempre desiderato e, caparbiamente, è riuscita. “Ora mi piacerebbe che progressivamente il ruolo dell’OSS venisse riconosciuto maggiormente e che potessimo fare ciò che in realtà già sappiamo fare. L’Operatore socio sanitario non è solo una figura legata all’igiene del paziente, è la prima interfaccia tra la persona ricoverata e la struttura di degenza. L’Oss è colui che per primo osserva il malato e deve capire se sta bene o male: dalle sue parole, dal volto, dal colore delle urine… Ecco perché penso che sarebbero utili corsi di aggiornamento anche per noi”.                            Negli occhi verdi di Joana si legge l’amore per il suo lavoro, la passione per la vita nonostante il percorso tortuoso. “Sono stata fortunata, ringrazio Dio perché penso che ogni cosa che mi sia accaduta abbia avuto un senso –conclude- tutte le esperienze, anche le più negative, mi sono servite a capire la gente. Ho visto la morte in faccia, ho perso tante persone care. Ma in Italia sto benissimo e gli italiani sono persone meravigliose”. Si adombra solo quando parliamo di una sua eventuale maternità, a conferma che il passato comunque lascia segni indelebili. “Per adesso non ne voglio sentire parlare. Ho paura di mettere al mondo un figlio, soprattutto una figlia. Non vorrei mai che dovesse un giorno passare tutto quello che ho passato io”.

Daniela Scherrer-IL TICINO, 17 aprile 2015

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