Caffè, un fungo minaccia la coltivazione

Il batterio roya infesta il 60% delle piante del Centro America. Minacciando 4 mln di posti lavoro. E un mercato da 42 mld.

di Marco Todarello
http://www.lettera43.it/economia/macro/caffe-un-fungo-minaccia-la-coltivazione_43675102684.htm

Il seme del risveglio italiano per antonomasia è a rischio, e la colpa è tutta di un fungo. Si chiama roya (hemileia vastatrix) il batterio che sta mettendo in crisi la produzione del caffè di gran parte del Centro America. Con conseguenze destinate ad abbattersi sia sul nuovo mondo sia sul Vecchio Continente. L’epidemia ha risparmiato poche piante: dal Messico alla Costa Rica, il 60% delle coltivazioni è infestato. La roya colpisce le foglie, che improvvisamente si presentano con macchie gialle, indebolisce gli arbusti e provoca la caduta del chicco prima della sua maturazione.
A RISCHIO 25 MILIONI DI PRODUTTORI.
Secondo gli esperti di Anacafé (Asociación nacional del café de Guatemala) il cambiamento climatico, con una combinazione di alte temperature e intense piogge, ha favorito il propagarsi del batterio: la roya era infatti già nota nella regione, ma non si era mai manifestata in una forma così aggressiva. Ora invece l’allarme è altissimo: in ballo c’è la sussistenza di almeno 25 milioni di produttori (su un totale di oltre 150). E un giro d’affari di 42,5 miliardi di dollari.
Secondo gli esperti di Anacafé (Asociación nacional del café de Guatemala) il cambiamento climatico, con una combinazione di alte temperature e intense piogge, ha favorito il propagarsi del batterio: la roya era infatti già nota nella regione, ma non si era mai manifestata in una forma così aggressiva.

Ora invece l’allarme è altissimo: in ballo c’è la sussistenza di almeno 25 milioni di produttori (su un totale di oltre 150). E un giro d’affari di 42,5 miliardi di dollari.
Il caffè dà lavoro al 20% del Centro America

Nella terra del caffè, gli effetti socioeconomici che possono essere generati dalla roya sono incalcolabili: in Centro America, tra impiego diretto e indotto, l’industria del caffè impiega circa 4 milioni di persone e nei mesi del raccolto dà lavoro al 20% della popolazione attiva.

In El Salvador, la Fundación para la investigación del café ha previsto per la stagione 2013-2014 perdite per oltre 70 milioni di dollari, mentre quelle stimate del ministero dell’Agricoltura della Costa Rica ammontano a 44 milioni. Lì il governo ha decretato un’emergenza sanitaria di due anni obbligando i contadini a utilizzare determinati pesticidi e fertilizzanti.
Ma secondo alcuni agronomi si tratterebbe solo di un palliativo, inutile nel caso di quelle specie di caffè come la Arabica - una delle più diffuse al mondo - che non hanno sviluppato una proprio resistenza al batterio.
LE VARIETÀ RESISTENTI. Ed è proprio in questa direzione che sta andando la ricerca, come quella eseguita in Colombia dal Cenicafé (Centro nacional de investigaciones de café), che ha introdotto la varietà Castillo, resistente al fungo e di qualità simile alle più diffuse Arabica e Robusta, specie coltivata fin dalla antichità. La novità all’inizio ha generato qualche dubbio, ma oggi la varietà Castillo viene venduta senza problemi e l’operazione ha permesso alla Colombia di superare la crisi seguita all’epidemia di roya che colpì il Paese nel 2010.
La riconversione delle piantagioni sembra essere l’unica soluzione efficace, e oggi nel Paese andino il 54% delle piante è del tipo resistente al virus. Per un’operazione simile in Centro America, è stato calcolato un investimento non inferiore a 300 milioni di dollari.
Le multinazionali guadagnano mentre i contadini muoiono di fame

Negli ultimi cinque anni, per l’abbondanza dell’offerta, il prezzo del caffè era andato al ribasso, fino a 170 euro a tonnellata. Ma benché le quotazioni siano in discesa, l’importanza del chicco è immutata rispetto a quando venne esportato dal Corno d’Africa, di cui la pianta è originaria, a tutti i Paesi della fascia tropicale.

Un’importanza geopolitica, oltre che economica, perché il chicco marrone è finito per diventare, in molti casi, il collante dei rapporti tra i Paesi occidentali e le proprie colonie.
Rapporti quasi sempre a senso unico, perché mentre nei caffè (già nel ‘700 la parola era sinonimo di bar) di Vienna e Londra i signori dell’alta società sorseggiavano un espresso, dall’altra parte dell’oceano ampie aree del Centro e del Sud America venivano violentate, con la vegetazione autoctona estirpata per impiantare quel caffè sempre più richiesto in Europa e più tardi anche negli Stati Uniti.
IL CONTROLLO DELLE MULTINAZIONALI. Le lotte dei contadini e delle guerriglie comuniste, oltre alle riforme agrarie compiute in alcuni Paesi, non sono riuscite a cambiare di molto le condizioni di un sistema spesso segnato dall’abuso e dall’inosservanza dei diritti basici.

Oggi quattro grandi multinazionali (Nestlé, Procter&Gamble, Kraft/Philip Morris e Sara Lee) controllano con profitti enormi quasi il 60% del mercato mondiale, mentre un cafetalero guatemalteco continua a guadagnare 30 quetzales (3,75 dollari) al giorno, per non meno di 12 ore di lavoro sotto il sole o la pioggia a raccogliere e seccare chicchi di caffè.
AI PRODUTTORI SOLO IL 9% DEI RICAVI. La britannica Fairtrade foundation ha inoltre calcolato che il coltivatore riceve non più del 7-9% del prezzo che il caffè ha sul banco del supermercato.
Un sistema iniquo che però, da qualche secolo, continua a essere per molti contadini quasi l’unica ragione di vita.
Negli ultimi 15 anni qualcosa è stato fatto, nell’ambito del commercio equo e solidale, per ridare dignità ai produttori, concordando con loro prezzi equi in base ai costi reali di produzione e assicurando loro anche un reddito adeguato e un contributo per lo sviluppo di programmi sociali autogestiti come asili o strutture sanitarie. L’incidenza del fair trade sul mercato è, però, ancora minima, il 13% circa secondo Fairtrade foundation.

Giovedì, 18 Luglio 2013





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