Freelance italiani di guerra. La testimonianza di Barbara Schiavulli


Nel dibattito sollevato dalla denuncia di Francesca Borri interviene una collega a raccontare la sua personale esperienza. Facendo nomi e cognomi (e cifre)


di Barbara Schiavulli


Mi è stato chiesto un commento sul pezzo scritto da Francesca Borri e che ha suscitato una montagna di polemiche nel mondo giornalistico. Parla di essere freelance in Italia, di giornalismo di guerra in Italia, di dolore e rabbia. Premetto che non la conosco e non so come scrive, ma mi è stato chiesto di parlarne, perché faccio il mestiere di Francesca da quasi vent’anni.
Sono una giornalista di guerra
Ho letto il suo pezzo e alcuni commenti. Srotolare un giudizio non mi importa, e non lo farò, ma il tema mi interessa perché parla anche di me. Sono una giornalista freelance di guerra. Non per scelta, ma perché nessuno mi ha mai assunto, nonostante lo volessi con tutta me stessa e abbia fatto tutto quello che secondo me, sia stato professionalmente possibile. Ho avuto la presunzione di pensare che se fossi stata abbastanza brava, prima o poi qualcuno mi avrebbe voluta. Col tempo ho scoperto che qui non funziona così.
Ho scritto per quasi tutti i quotidiani italiani, ho collaborato con molte radio e tv. Ho scritto due libri, sto per fare uscire il terzo, e ho vinto premi. Non per vantarmi, ma per dire che non sono stata con le mani in mano. Non ho mai mollato, nonostante sia stata in equilibrio sul baratro diverse volte, invece sono ancora qui, perché amo questo lavoro. Perché non c’è niente di più importante che sapere che si sta facendo la cosa giusta. E chi dice che è una mia scelta, dico che non si sceglie di essere se stessi, lo si è e basta.
Mi ritengo molto fortunata perché fin da piccola sapevo quale fosse la mia strada. Detto questo, non sono una missionaria. Come ha detto qualcuno, il fatto che mi piaccia fare questo mestiere, non significa che non debba essere rispettata e trattata in modo adeguato. È un lavoro, è una professione e come tale pretendo che gli altri lo considerino. Offro un servizio, garantisco quello che il lettore legge, mettendoci sotto il mio nome. E allora partiamo dall’inizio.
Cosa significa essere freelance oggi
Il giornalismo è una professione, come fare il medico, come fare l’avvocato o l’idraulico. Non metterei mai in mano il mio lavandino a un idraulico della domenica, così come non lo farei con una notizia. Ma dobbiamo fare i conti con il paese in cui ci troviamo dove la qualità e la professionalità, ha smesso da lungo tempo ad essere la priorità dei giornali e forse di qualsiasi altra cosa. Gli Esteri contano sempre meno. Gli Esteri non fanno vendere. Dunque, gli Esteri non contano. Così come in genere la cultura. Nessuno comprerà un giornale, a meno che sia mia madre o mio padre, perché io ho scritto un pezzo su qualche crisi nel mondo.
So che se mi occupassi di cose locali, o magari di politica o gossip, avrei vita più semplice, ma quelle non interessano a me, ci sono persone molto più brave di me che lo fanno già. L’informazione internazionale non dovrebbe essere tra le pagine dei giornali perché vende, ma perché dovrebbe essere il fiore all’occhiello di un giornale. Perché dovrebbe essere uno dei servizi che un quotidiano offre. E non tengo informato il lettore sul mondo perché vende, ma perché fa parte del bagaglio culturale di una persona. Perché lo rendo partecipe di quello che accade, perché questo è il cuore del significato del giornalismo.
Se no, avrebbero ragione tutti quelli che si accontentano dei report di twitter, o delle agenzie giornalistiche che fanno un lavoro santo, ma non sufficiente a spiegare quello che accade, o i bravi cittadini che comunicano quello che accade, ma non hanno filtri professionali che invece ci vogliono se vogliamo essere ben informati. Se pretendessimo di essere ben informati.
I giornali ora, non hanno quasi più inviati, e quelli che sono rimasti sono frustrati quasi quanto i freelance perché non vengono mandati quasi più in giro. Quando ho cominciato io, negli anni ’90, non esistevano molti freelance, ero una specie di mosca bianca, qualcuno pensava che fossi dei servizi, qualcun altro mi detestava perché traboccavo di energia, qualcun altro mi guardava senza ben sapere che io ero il tragico futuro del giornalismo estero.
Gli americani e gli inglesi, invece, erano già da anni abituati a noi, di solito all’estero funziona come qualsiasi consulenza, si viene ingaggiati per una storia, si viene pagati, si viene assicurati e quando si finisce, tutti amici come prima. In genere, all’estero, i freelance sono grandi giornalisti, è gente che prende molto perché è in grado di offrire qualcosa che il reporter normale non fa o non può fare. In Italia è l’esatto contrario. I freelance non hanno uno straccio di contratto, non hanno una lettera di accredito, non hanno un’assicurazione. E non hanno un tariffario, sono i giornali che decidono quanto ti pagano.
All’inizio essendo un po’ l’unica, sono stata molto fortunata. I giornali mi hanno pagato bene. E io scrivevo molto, visto che la guerra costa. Durante l’assedio a Sadr City, un quartiere di Baghdad, ho preso anche duemila euro da un settimanale per un reportage, più o meno, mille quando sono entrata da sola a Kandahar, in Afghanistan per parlare con i talebani. Quando finivo i soldi che erano sempre miei, ci sono stati colleghi e colleghe che mi hanno aiutata, alcuni mi hanno offerto un pranzo, qualcuno ha ospitato nella sua camera, con altri ho condiviso il traduttore o la macchina.
A volte è stato umiliante perché non valevo meno dei miei colleghi, altre volte ho apprezzato l’amicizia, perché in cambio per qualcuno, la mia presenza, conoscendo bene alcuni posti, ha fatto sì che si facesse un lavoro migliore. Quando andavo da sola, lavoravo come una matta per scrivere il più possibile calcolando che se scrivevo cinque pezzi al giorno per i quotidiani, aggiungendo qualche radio e settimanale, potevo farcela. Di giorno lavoravo e la sera scrivevo fino alla nausea. Ma ci riuscivo. I conti tornavano. Facevo la vita di cinque giornalisti, ma la facevo. Ero fiera di me.
I quotidiani, fino a qualche anno fa, pagavano tra i 150 e i 200 euro, con un picco di 450 per La Stampa che mi ha fatto scrivere delle paginate bellissime. La mia competizione era con i colleghi assunti e devo dire che mi piaceva. Poi le cose hanno cominciato a cambiare. Una crisi finanziaria e anche mentale dentro i giornali e nel paese. Ora i giornali pagano poco, e se non accetti non scrivi. Questo è un fatto. Non ci sono vie d’uscita. Nessuno è indispensabile. Via uno, sotto un altro. Il giornalista è l’unico mestiere che può fare chiunque, se non si chiede un alto livello.
Ammetto di avere un carattere non facile. Non sono una vittima, anche se a volte mi deprimo profondamente. Sono una stronza idealista che ama quello che fa, e accetta la giungla che la circonda fino a un certo punto. Infatti oggi, diciamoci la verità, non scrivo quasi più.
La prima collaborazione che ho perso è stata quella di Avvenire, per loro avevo scritto per tre anni seguendo tutte le zone a rischio tra il 2002 e il 2005 quando venne chiesto ai giornalisti italiani, dopo il sequestro di Giuliana Sgrena di non tornare in Iraq. Io non accettai, per me era un dovere professionale essere in Iraq e raccontarlo insieme ai colleghi del resto del mondo, sapevo che era rischioso, sapevo che ero sola più che mai, ma sapevo che non mi sarei mai perdonata di aver abbandonato una storia perché me lo chiedeva lo Stato, la Farnesina, in questo caso.
Al direttore di Avvenire venne un coccolone, suppongo gli sia stato chiesto di non farmi scrivere e mi ricordo che mi telefonava dicendomi che sarei morta e che sfidavo Dio. In realtà avevano paura che se mi fosse accaduto qualcosa, si sarebbe ritorto contro il giornale. E io, donna orgogliosa, ho detto, va bene per voi non scrivo e vado avanti anche se perdevo la collaborazione principale. E sono andata in Iraq, in continuazione, fino a quando non sono tornati, anni dopo, anche gli altri colleghi.
Sono andata avanti, piano piano, a testa bassa, collaborando con chi mi voleva, soprattutto per l’Espresso, credendo per una volta di aver trovato il giornale che sognavo. Mi sono impegnata come non mai, nonostante alle spalle di fatto, non avessi un giornale, lavoravo come fossi la loro inviata, ho sputato sangue, ma ho scritto, fatto e sono andata in posti che da pura illusa pensavo valessero l’assunzione. E invece no, io per un giornale valevo di più se restavo fuori. Ma mi andava bene lo stesso, perché scrivevo, ero nel pieno della Storia, guadagnavo ed ero riconosciuta come giornalista.
Poi è iniziata la crisi, i giornali hanno cambiato direttori, redattori, molti sono andati in prepensione e qualcosa di tremendo è successo: è mancato chi il mestiere lo avesse macinato oltre la scrivania. All’improvviso si doveva pagar meno, non importava chi e come scrivesse. Nel 2009 ho smesso di scrivere per l’Espresso perché la guerra o io, non interessavamo più. Dio solo sa, quanto ho pianto. Gli avrei dato il sangue e invece, non li ho mai più sentiti.
L’eco di Bergamo dove scrivevo ogni giorno e abbiamo fatto delle storie stupende, non mi ha più chiamata forse perché prendevo 150 a pezzo e loro volevano pagare meno. Poi ho scoperto che una mia cara amica, aveva preso il mio posto, prendendo un po’ meno. A Il Messaggero prendevo 200 euro, poi sono passati a 150 ma si vergognavano a dirmelo e allora hanno smesso di chiamarmi, quando ho accettato quella cifra, ho scritto un po’ (e parlo di prime pagine e fatti di rilevanza) e poi il direttore nuovo ha spedito una lettera dicendo che dovevamo stringerci tutti intorno alla crisi e che ancora decurtavano il compenso a meno di 100 euro.
A quel punto ho pensato davvero a chi cavolo me lo facesse fare. Ho scritto a quel direttore che non conoscevo, ho spiegato che non potevo garantire un buon pezzo, la sicurezza mia, quella dei miei traduttori, che lavorare in guerra è costoso. Non avrei scritto più, avrei lasciato il mio posto a chi poteva permettersi di prendere meno, perché sapevo che qualcuno ci sarebbe stato, ma non avrei ceduto di un euro. E lui ha capito e mi ha comunicato che il mio compenso sarebbe rimasto lo stesso. Vittoria. Anche no, visto che non ho più scritto per Il Messaggero, nonostante abbia collaborato per 10 anni.
E ora vengo alla peggiore collaborazione di sempre, quella col Fatto Quotidiano. Ho cominciato a scrivere dal numero zero, strappando un compenso da 150 euro a pezzo, mi sono lanciata, loro credevano in un nuovo giornale e volevo crederci anche io. Dopo nove mesi e tante storie tra Afghanistan, Yemen, e vari altri posti, non mi avevano ancora pagata. Apriti cielo, non avevo neanche di che far la spesa. Ho chiamato, scritto, litigato, poi mi hanno mandato la richiesta di fattura sbagliata.
I pezzi non erano conteggiati a 150 euro come d’accordo con il capo degli Esteri, ma naturalmente meno. Solo a ripensarci, mi sale la rabbia. Ho ancora scritto, litigato e alla fine ho convinto Padellaro a pagarmi. E ho detto “mai più”. Dopo un anno mi hanno ricontattato, mi hanno detto “Eddai, non riaccadrà”, non mi ricordo in che parte del mondo fossi, ma avevo bisogno e ho ceduto, ho scritto ed è ricominciato tutto da capo, ogni mese era una tragedia farsi pagare i conti giusti e ho detto “basta” di nuovo. Ma i miei “basta”, costano tanto che io non sto scrivendo come vorrei e dovrei.
Non riesco a pagare le mie spese e tanto meno a partire, a quarant’anni mi sento come chi ha perso un lavoro senza mai averlo avuto, senza alcuna agevolazione perché non ho mai avuto un contratto. I freelance sono peggio degli immigrati clandestini. Nessuno ci vede. A chi obietterà, “perché non vai a fare qualcos’altro, nessuno ti costringe”, io rispondo con un sonoro No. Per quanto questa vita mi distrugga perché il sistema non funziona, io amo questo mestiere.
So come dovrebbe essere fatto, so come potrebbe essere e credo che la cultura sia un servizio fondamentale come mangiare, avere una casa, fa parte dei nostri diritti, ma anche doveri. Perché io? Questo non lo so, non credo di essere più brava di altri, o più portata o talentuosa, ma sfido chiunque a sapere perché vuole fare il medico o il pittore. Perché se un medico dice che vuole salvare la vita delle persone, va bene? E se io dico che voglio che non si dimentichi la vita o la morte delle persone, sono un’egocentrica? Sono egocentrica, dunque. Non sono perfetta, e credo che lo sia chiunque voglia qualcosa con la forza della passione e abbia il coraggio di non abbandonare.
Come dovrebbe funzionare in un mondo perfetto
E allora, no, non me ne vado, provo a cambiare il sistema, anche se il mio “no” è solitario, anche se la guerra per me è qui, e non nei paesi che racconto. Bisogna essere costruttivi e allora pongo delle questioni dove ognuno sceglierà da che parte stare. Sapere significa anche non poter più far finta di nulla. Francesca parla di competizione sfrenata tra colleghi, io sono favorevole a questo purché si basi sulla qualità e l’onestà. Riconosco e rispetto i colleghi in gamba. E ce ne sono.
E ora chiedo ai lettori, volete leggere il pezzo di una che si è letta tutto quello che era possibile leggere su un posto, che ha parlato con cani e porci, che ha vissuto in quel posto, che si è immersa in quello che accade o nell’inviata assunta perché raccomandata da un politico che piglia un sacco di soldi e si fa scrivere i pezzi magari da qualcun altro?
Temo che oggi neanche Hemingway verrebbe preso in considerazione. Figurati la Schiavulli o la Borri che prende 80 euro sul Fatto, e che sospetto, abbia preso il mio posto, e non la invidio per niente. La brama di scrivere e di fare il tuo mestiere, ti fa toccare il fondo. D’altra parte penso a quando ho scritto su Il Messaggero, un pezzo che cominciava in prima pagina e poi un amico di Venezia, mi ha detto “Ti ho letto sul Gazzettino di Venezia”. Io però non avevo scritto sul Gazzettino di Venezia, sul quale non scrivo, da quando mi venne fatto 15 anni un fatto un torto per me grande (è il giornale dove ho cominciato) e sul quale non avrei più scritto.
Sono andata a controllare e ho scoperto che quando scrivevo su Il Messaggero, uscivo anche sul Gazzettino e il Mattino di Napoli perché erano la stessa proprietà. Nessuno mi aveva detto niente, nessuno mi dava una lira in più per uscire tre volte e non potevo neanche decidere di non uscire su un giornale sul quale non volevo uscire. C’è da mettersi le mani nei capelli. Un altro problema sono i prepensionati, che buttati fuori a 57 con pensione e contratto di collaborazione continuano a scrivere fino a che non muoiono.
Lo capisco, a 57 anni sei nel fiore della tua maturità professionale, scrivere non ha età. Ma io non posso competere con uno che viene pagato per scrivere e ha pure la pensione. E come me, nessuno ancora più giovane, a meno che sia figlio di qualcuno molto ricco, io non lo sono e nemmeno molti come me. Ora vi dico come dovrebbe essere nel mio mondo perfetto.
I giornali dovrebbero avere dei collaboratori fissi, dovrebbero scegliere tra i migliori, come accadeva una volta, dovrebbero pagargli un fisso e rimborsargli delle spese quando vanno fuori. Dovrebbero pagare l’assicurazione da freelance per il tempo che stanno fuori e bon. Ho visto inviati di quotidiani prestigiosi farsi rimborsare la prostituta facendola passare per un traduttore e io non riesco a farmi pagare neanche un traduttore vero.
I costi per una giornata in Afghanistan oggi sono 150 euro un traduttore buono (il mio mi fa bene, perché lo conosco da 10 anni ed è bravissimo), un 50 euro al giorno per l’autista, 20 euro per mangiare (ci tocca), 70 euro per un alberghetto in tempi tranquilli, 200 per andare in quelli super protetti quando i tempi sono duri. In Iraq, ci sono stati momenti in cui la strada per l’aeroporto (20 minuti dall’albergo) mi è costata 550 dollari perché la gente saltava come popcorn, quanti cavolo di articoli avrei dovuto scrivere per recuperare 3 settimane di Baghdad?
Se no, un giornale può decidere di non fare Esteri, di dimenticare i tempi dei grandi inviati e dei grandi reportage, di pensare ad un giornalismo diverso, di pensare che alla gente non interessa o non è necessario che sappia. Ma è questo il tipo di giornale che si vuole avere o dirigere? Penso a Terzani, a Robert Fisk, a Bernardo Valli, a Domenico Quirico, a Mimmo Candito, penso a pezzi di amici e di sconosciuti che ti tengono avvinghiato al mondo che ci circonda.
Io non posso farne a meno, non voglio farne a meno. Dovremmo davvero leggere solo le traduzioni della rivista Internazionale per sentire parlare di esteri come si deve? Noi non siamo capaci come americani, inglesi, russi o africani? Altro problema al quale non sono mai riuscita a dare risposta: perché se lavoro con un fotografo professionista, facciamo un reportage insieme, foto e testo, dove in genere il giornalista trova la storia, trova i contatti, si fa in quattro, lui viene pagato quattro volte di più. “Occupiamo più spazio in pagina”, mi dice un collega divertito, ma che vuol dire?
Che si può fare?
Intanto i freelance dovrebbero mettersi d’accordo, come hanno fatto i traduttori a Gaza, che si fanno pagare tutti allo stesso modo, rompendo la concorrenza. Ci vuole un minimo oltre al quale il giornale non può scendere. Se vuoi una storia, la devi pagare, il giornale deve pretendere l’esclusiva e pagarla. Se avessi un giornale, vorrei storie che nessun altro abbia, invece, ora ti dicono di scrivere per più contemporaneamente proprio per pagare meno.
Ci vuole serietà, non si paga a tre, quattro, dieci mesi. Si paga a 30 giorni come ogni fattura, se no, scattano gli interessi e se no, si viene multati (sempre se ci fosse un Ordine o un sindacato). Se no, fai schifo. Sono stufa dell’omertà dei miei amici colleghi, che per paura di non scrivere, non dicono niente. Non sto parlando da vittima, ma da frustata sì, le cose devono cambiare. E preferisco non scrivere piuttosto che vendermi. I miei articoli sono in vendita, io no.
Se avessi un giornale prenderei i pezzi con le proposte migliori e nel caso di un evento avrei il mio giornalista freelance di fiducia, e lo vorrei sempre aggiornato nel suo campo. I ragazzi dovrebbero capire che valgono quanto prendono, se consenti a qualcuno di pagarti 2 euro, stai distruggendo te stesso e la categoria. Se tutti cominciassero a dire “no”, o in redazione se lo scrivono da soli o verrebbero a patti, e siccome le redazioni sono sempre meno affollate, non hanno altro modo che chiedere a noi.
Sono stata lunga, ma l’argomento è spinoso e centrale per la vita di tutti. Non ho parlato di pericoli, di guerra, di cosa accade quando siamo in giro, perché questo è qualcosa che spetta a noi gestire. L’importante è che io la sera porti il mio pezzo a casa e lo possa mandare. Laggiù il problema è mio e me lo gestisco io. Qui, invece, è di tutti, è un problema di sostanza e futuro.
La vastità di Internet fa credere di avere un sacco di informazioni, di cui però nessuno è sicuro, perché manca la professionalità di chi poteva garantire una notizia. Si perde la voglia di approfondire, di godersi un articolo scritto bene che ti trasporta lì dove le cose accadono, ci si nutre di politica e di pettegolezzi, ci si abitua a non pensare e a non chiedere. Ci si abitua a dimenticare e a fare finta di niente. E io e tutti quelli come me, moriamo. Ci crepa l’anima.
Mi dicono che ci si deve riciclare, che bisogna essere aperti ai cambiamenti, che bisogna trovare altri modi, perché alla fine quello che conta è pagare il mutuo. Le rate della macchina non si saldano con i sogni o con l’impegno che abbiamo preso verso il mondo che vorremmo. E io sono, appunto, a quel bivio: devo continuare a credere che fare cultura sia importante anche quando nessuno la vuole, per essere quel tarlo che si insinua e rende comunque la vita più ricca, o mollare per non piangere più sui soldi che mancano sempre? Rottamarsi da soli, riciclarsi, dimenticare. Ingoiare la pillola amara dell’ignoranza e fare finta che non ho scritto sperando che le storie tremende che ho trovato, non si ripetessero di nuovo.
Dovrei essere seria. Pensare a me. Ma sull’orlo di un paese in crisi, invece di trovarmi un lavoro concreto, vorrei fondare un giornale. Inguaribile, mi dico, come fosse un insulto. I sogni te li conficca il diavolo. E senza soldi, senza sponsor, senza nessuno che condivida un’idea, sono solo una malata terminale. Io e tutte quelle storie che potrebbero non essere mai più raccontate.

tratto da: http://www.valigiablu.it/freelance-italiani-di-guerra-la-testimonianza-di-barbara-schiavulli/










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