Lo spirito è tra i poveri

di Jon Sobrino

Il 16 novembre 1989 uno squadrone della morte irrompeva nell’Università Centroamericana (Uca) e massacrava otto persone: sei gesuiti, tra cui il noto teologo Ignacio Ellacuría, e due donne che lavoravano per loro. A distanza di vent’anni, quell’eccidio è ricordato dal libro di Emanuele Maspoli Ignacio Ellacuría e i martiri di San Salvador (Paoline). Anticipiamo la prefazione di padre Jon Sobrino, scampato per caso all’eccidio perché in quei giorni all’estero. Il religioso, anche lui sulla lista nera dei militari salvadoregni responsabili del massacro, riassume i punti fondamentali del pensiero di Ellacuría, e spiega perché qualsiasi riscatto non può che partire dai poveri.

Sono passati venti anni dal martirio dei gesuiti dell’Uca, l’Università centroamericana in Salvador: Ignacio Ellacuría, Segundo Montes, Ignacio Martín Baró, Juan Ramón Moreno e Joachín López y López. Con loro furono assassinate due donne semplici che lavoravano con i gesuiti: Julia Elba e Celina, madre e figlia. Sono simbolo di molte altre migliaia di donne e bambini che sono morti e muoiono innocenti e indifesi. Non possiamo dimenticare ciò che è accaduto. E con la memoria coltiviamo la speranza che si possa umanizzare questo nostro mondo, che continua a produrre martiri e vittime.
Per comprendere il significato di quelle morti occorre partire dal pensiero di padre Ellacuría, il rettore dell’Uca. Il gesuita insisteva particolarmente, nella sua riflessione, su tre punti nodali. Punti, che bisogna riportare nella coscienza collettiva, nel mondo della cultura e nelle chiese. Dimenticarli significherebbe impoverire la realtà che viviamo, nella società e nella Chiesa, e rendere ancora più difficile il compito più importante del nostro tempo, così come lui lo vedeva: «Invertire la storia, sovvertirla e lanciarla in un’altra direzione».
Il pensiero di Ellacuría parte innanzitutto dal concetto di popolo crocefisso, un tema che si dimentica con facilità. Nel 1981, durante il suo secondo esilio a Madrid, Ellacuría scrisse un testo vigoroso. In esso ricorda che «tra tanti segni che come sempre si danno, alcuni vistosi e altri appena percepibili, in ogni tempo ce n’è uno che è il principale, sotto la cui luce si devono discernere e interpretare tutti gli altri. Tale segno è sempre il popolo storicamente crocefisso, che unisce alla sua permanenza la sempre distinta forma storica della sua crocifissione. Questo popolo è la continuazione storica del servo di Jahvé, al quale il peccato del mondo persiste nel togliere l’umanità, che i poteri di questo mondo continuano a spogliare di tutto, strappandogli persino la vita, soprattutto la vita».

Il testo è facile da leggere, ma dice cose difficili da accettare, anche da parte delle teologie progressiste e delle politiche di sinistra. Esso dice che il «segno», quello in cui si concentra la realtà, sono «i popoli», le immense maggioranze che vengono private, ingiustamente, della loro umanità e a cui viene data la morte con crudeltà comparabile a quella della crocifissione. Questa è la verità più profonda della realtà. È strutturale. Divide e contrappone gli esseri umani in minoranze del Primo mondo e maggioranze del Terzo mondo. Ha alle sue spalle secoli di storia e continua a essere vigente.
In effetti, la parola più audace e più interpellante del testo, scritto più di venti anni fa, è il «sempre» del popolo crocifisso. La tesi del «sempre» di solito non è accettata. Alcuni, infatti, pensano che già viviamo in un mondo sufficientemente umano, nascondendo e fingendo di non vedere l’orrore che si continua a produrre. Non è così. Persino istituzioni ufficiali sono obbligate ad ammettere il «sempre». Secondo il rapporto del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) del 2007-2008, il 20% dei più ricchi assorbe l’82,4% della ricchezza mondiale, mentre il 20% dei più poveri deve accontentarsi dell’1,6%. Ciò significa che una piccolissima minoranza monopolizza il consumo su scala mondiale e le immense maggioranze sono gettate nella miseria. Jean Ziegler, nel suo rapporto per le Nazioni Unite, afferma che nel mondo ci sono più di 900 milioni di affamati e che ogni quattro secondi un essere umano muore di fame. E la tragedia ecologica non è minore.

Si cerca d’ignorare o alleggerire il peso del «sempre», ma il dato resta. E s’ignora pure – ed è comprensibile in una società civile ma non dovrebbe essere altrettanto nelle Chiese – che questo popolo crocefisso è il «segno della presenza di Dio». Ed è la continuazione storica del servo di Jahvé. Su questo Ellacuría insistette fino alla fine.

Un altro punto importante è il concetto della civiltà della povertà. Su questo tema Ellacuría cominciò a scrivere nel 1982 e vi insistette fino alla fine della sua vita. Era convinto che la nostra società fosse gravemente malata e che la colpa fosse dell’imperante civiltà della ricchezza, che a volte chiamava pure «civiltà del capitale». Tale civiltà offre sviluppo e felicità. Propone come motore della storia l’accumulazione privata del maggior capitale possibile e come principio di umanizzazione la partecipazione e il godimento della ricchezza. In questa civiltà vive oggi il Primo mondo, glorificandosene, con pochi che beneficiano dei suoi successi e le maggioranze che soffrono le conseguenze del suo egoismo.
Senza cadere in semplificazioni, né negare i benefici che ha prodotto, bisogna ricordare che un tale progetto non è percorribile perché non ci sono le risorse affinché tutti gli esseri umani possano vivere così. Citando Kant, Ellacuría ricordava che ciò che non è universalizzabile non può essere morale, né umano. E anche se fosse realizzabile, non sarebbe desiderabile, perché ha condotto con sé grandi mali e i meccanismi stessi di autocorrezione non sono né efficaci né sufficienti per invertire il suo corso distruttore. Il peggiore dei suoi mali è che non soddisfa le necessità fondamentali di tutti. Un altro grande male, sul quale Ellacuría insistette ogni giorno con più forza, è che esso non genera «spirito», non genera valori che umanizzino le persone e le società.

A tale civiltà egli contrappose la civiltà della povertà. In questa visione il motore della storia è il soddisfacimento universale delle necessità fondamentali e il principio di umanizzazione è la crescita della solidarietà condivisa. La civiltà della povertà è «uno stato universale di cose in cui è garantito il soddisfacimento delle necessità fondamentali, la libertà delle opzioni personali e un ambito di creatività personale e comunitaria che permetta l’apparizione di nuove forme di vita e cultura, nuove relazioni con la natura, con gli altri uomini, con se stessi e con Dio». Alla base della civiltà della povertà c’è la tradizione biblico-cristologica. In tutto l’Antico e Nuovo Testamento si afferma che è dai poveri che proviene la salvezza. E, scandalosamente, anche dalle vittime. Su questo insisteva Ellacuría: il servo sofferente di Jahvé porta alla salvezza.
In forma programmatica, nel contesto della 34ª Congregazione generale dei gesuiti, scriveva: «Questa povertà è quanto dà realmente spazio allo spirito, che non si vedrà più soffocato per l’ansia di avere sempre più degli altri, per l’ansia concupiscente di ottenere ogni sorta di bene superfluo, quando invece alla maggior parte dell’umanità manca il necessario. Potrà allora fiorire lo spirito, l’immensa ricchezza spirituale e umana dei poveri e dei popoli del Terzo mondo, oggi spenta dalla miseria e dall’imposizione di modelli culturali più sviluppati in alcuni aspetti, ma non per questo più pienamente umani».

Sono parole importanti raramente pronunciate. Parlare dell’immensa «ricchezza spirituale e umana dei poveri e dei popoli del Terzo mondo» non significa nascondersi i mali che genera la povertà. Ma è un fatto riconosciuto che coloro che hanno vissuto e lavorato in Paesi in via di sviluppo, che hanno conosciuto la sua gente, che hanno gioito e sofferto con essa, riconoscono con gratitudine di aver incontrato "qualcosa" che non avevano trovato nel mondo della ricchezza. Questo "qualcosa" può essere l’aver trovato un modo di vivere con speranza e senza arroganza, con misericordia e senza egoismo, con forza fino alla fine e senza tentativi ed esperienze sempre provvisori. Può essere smettere di provare vergogna di far parte di questa crudele specie umana attuale.
Questo è «spirito». Per Ellacuría i suoi depositari diretti sono i poveri «con spirito», e coloro che solidarizzano con essi. Con tutti loro è possibile costruire una «civiltà della povertà».


Infine il pensiero di Ellacuría non prescinde dalla figura di monsignor Romero. Con lui «Dio passò da El Salvador», disse nell’omelia della Messa che celebrammo nell’Uca pochi giorni dopo l’assassinio dell’arcivescovo. Sono parole profonde, piene di gratitudine e affetto. Ma esse mostrano pure cos’era per Ellacuría il Dio misterioso. In termini più astratti, come egli spiegava la trascendenza. A partire da Gesù, vide nella fede o credette di vedere che la trascendenza si fece trans-discendenza per giungere a essere con-discendenza. E ciò si concretizzò e attualizzò in monsignor Romero.
La fede in un Dio disceso tra gli uomini può umanizzare e, anche quando non si espliciti religiosamente, può indicare quanto nella storia e nella vita c’è del mistero. Personalmente non credo che quanto ci viene offerto oggi umanizzi molto. La democrazia, la libertà e l’umanesimo sono senza dubbio positivi e posseggono valori se si vivono bene. Ma non è facile vedere solo in essi un potenziale di umanizzazione. E quando in altri lari si ricorre a un qualche tipo di trascendenza, non la si suole presentare come trans-discendenza e con-discendenza fino alla croce.
Per Ellacuría – che ripensava a Dio in corsi di filosofia con Xavier Zubiri, e al Dio di Gesù nei corsi di teologia con Karl Rahner – monsignor Romero era fondamentale per ripensare e leggere Dio nella vita reale e per essere introdotto al mistero. Monsignor Romero si poneva su un piano differente da quello di Zubiri o Karl Rahner, i suoi amati e ammirati maestri.

Lo stesso Ellacuría spiegava questo rapporto e cosa intendeva per trascendenza dicendo che «monsignor Romero non si stancò mai di ripetere che i processi politici, anche quando siano purissimi e sommamente idealisti, non sono sufficienti per condurre l’uomo alla liberazione integrale. Intendeva perfettamente quel detto di Sant’Agostino che per essere uomo si deve essere "più" che uomo. Per lui, la storia che si presentasse solo come umana, che pretendesse d’essere soltanto umana, presto avrebbe smesso di esserlo. Né l’uomo né la storia bastano a se stessi. Per questo non smetteva di richiamare alla trascendenza. In quasi tutte le sue omelie usciva questo tema: è la parola di Dio, l’azione di Dio a rompere i limiti dell’umano. Una trascendenza che mai si presentava come abbandono dell’umano, come fuga dall’uomo, quanto piuttosto come il suo superamento e perfezionamento. Un più in là che non abbandonava il più in qua, ma che lo apriva e lo spingeva più avanti».

Dio non lasciò mai in pace Ellacuría. E lo sollecitò soprattutto attraverso monsignor Romero. L’arcivescovo fu di fondamentale importanza per la fede stessa del padre Ellacuría. Siamo di fronte al mistero ultimo di ogni essere umano, nel quale si può entrare soltanto in punta di piedi. Ma io credo che in monsignor Romero egli vide un uomo di Dio e vide Dio in quell’uomo.
Romero divenne il volto di Dio, un volto, in definitiva, più fascinans che tremens. Ellacuría, al quale in quasi tutte le altre cose toccava d’essere il primo e di condurre dietro di sé gli altri, nella fede sentiva di dover essere condotto da altri: dai poveri di questo mondo e certamente da monsignor Romero. Egli era il pedagogo e il mystagogo, invito permanente a mettersi di fronte al mistero ultimo, a lottare con Dio come fece Giacobbe, e a camminare umilmente con Lui, come chiede Michea.
Ancora oggi, a distanza di tanti anni, il popolo crocifisso continua a essere il segno dei tempi per tutti, credenti e non credenti. La civiltà della povertà continua a essere la formulazione più azzeccata dell’utopia umana, forse più comprensibile per i credenti della tradizione biblico-gesuanica. Vedere il passaggio di Dio nella storia in monsignor Romero, e in molte vittime e martiri, può essere possibile a partire da un umanesimo intriso di spirito di purezza, e può essere reale a partire da una fede che si sia lasciata permeare da Gesù di Nazaret.
Jon

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