Incontro con Mario Cardenas, compagno della Kato Ki

Chimaltenango, Giovedì 27 ottobre 2012

Di ritorno da una tre giorni molto intensa che mi ha visto ad Antigua ad intervistare alcuni familiari di desaparecidos tra cui Rosalina Tuyuc e, successivamente, a Chichicastenango ad ammirare il mercato maya, sono andato a Chimaltenango dove sapevo di poter raggiungere due infermieri spagnoli impegnati in attività di formazione.
La motivazione principale della sosta è stata la forte volontà di conoscere l’esperienza della cooperativa Kato-Ki, organizzazione di cui avevo molto sentito parlare.
Nei primi passi in questa città caotica a me sconosciuta mi imbatto per pura coincidenza nella sede della cooperativa. Con un po’ di timidezza per il mio spagnolo precario e per non aver avvisato prima mi butto dentro.
L’ingresso ricorda molto una filiale di banca etica. Sportelli bancari classici ma con un’atmosfera meno asettica, più accogliente e cordiale. Kato-Ki nell’idioma Q’eqchi del luogo significa “aiutiamoci”.
Dopo pochi minuti giunge il presidente della cooperativa, Mario Cardenas. L’avevo già visto nel video Historias de Guatemala e mirare quel volto mi risvegliava un affetto come tra amici di vecchia data.
Mi parla con naturalezza, abituato a ricevere inaspettati visitatori interessati a fare due chiacchiere. Ha mal di testa. Anche lui oggi ha fatto su e giù dall’altipiano per accompagnare una studentessa che sta svolgendo la tesi proprio sopra l’attività della cooperativa.
Mi fa accomodare in un atrio senza gente e senza mobilio, solo due sedie. Dice che quella stanza è il luogo di incontro della cooperativa; per un attimo mi perdo, fantasticando, immaginandomi nel bel mezzo di quelle assemblee, cuore pulsante della cooperativa.
Beve un’aspirina e comincia, senza bisogno di chiedergli nulla. Siamo nati quarant’anni fa. Ne abbiamo viste tante. La prima attività fu l’acquisto di due grandi appezzamenti di terra e la loro successiva redistribuzione ai soci della cooperativa. Qua la condizione dei campesinos era quella tipica dell’America Latina. Grandi latifondi rivolti alla monocultura, condizioni lavorative da schiavitù e nessuna prospettiva di cambiamento, né per se né per la propria famiglia. Parla con semplicità Mario. Questa era la situazione, e noi abbiamo ridistribuito la terra. La questione fondiaria è la chiave di tutto. Stavamo iniziando ad allargarci, a crescere. Pensavamo che il conflitto potesse diminuire di intensità e abbiamo fatto questi investimenti. Si rattrista e prosegue. Ci sbagliavamo. Proprio in quel periodo arrivò la fase più violenta della guerra, con l’eliminazione sistematica dei leader delle comunità e di ogni realtà che cercava di aiutare la gente. In passato la politica del governo era di lasciare le popolazioni Maya sull’altipiano, come fossero in quarantena. La situazione cambiò quando il governo militare identifico le comunità indigene come sostegno alla guerriglia e procedettero con operazioni militari volte ad uccidere tutti, specialmente gli uomini. Fu il periodo più difficile per noi. Degli 8500 soci che eravamo ci siamo ritrovati nel 1984 con 3300 soci, tutte donne.
Il dramma è quello comune a tutto il Guatemala. Un popolo martire che dovette subire una violenza inaudita aggravata dall’assenza totale di leader comunitari o sindacali, uccisi prima degli altri insieme alle proprie famiglie.
Quello fu il periodo più difficile della cooperativa. I prestiti andarono in gran parte perduti. Lo stato di guerra e la mancanza di stato di diritto non permettevano di lamentarsi per ciò che era stato perduto. Fu un lavoro paziente e lungo, aggravato dalla paura della gente di concedere la propria fiducia. Ancora oggi molte persone pensano che un giorno la guerra possa tornare e non vogliono esporsi. Le ferite sono ancora aperte.
Oggi la cooperativa sta tornando a crescere e conta 4500 soci. Il capitale disponibile non è molto ma sono stati fatti recentemente degli investimenti importanti, primo tra tutti quello della scuola Monte Cristo. Mario con un sorrisetto prosegue. La gente che ha ricevuto prestiti ha avviato le sue piccole attività ma c’è una cosa curiosa. Le famiglie non hanno utilizzato il denaro per fare il pavimento nuovo nella propria casa. Hanno deciso di spendere quei soldi per mandare i propri figli a scuola. Perché è sull’educazione che come cooperativa abbiamo deciso di puntare. È una scuola speciale. Anche i genitori partecipano, per apprendere nozioni, per imparare nuove professioni e per sentirsi parte del progetto. La maggioranza della popolazione è maya e la vita della cooperativa è pienamente impregnata dell’aspetto comunitario di questa cultura. Abbiamo bisogno di ricreare la classe dirigente delle nostre comunità, e senza educazione non si va da nessuna parte.
Ride ancora. Vent’anni fa le ragazzine a 14 anni andavano in giro con il bambino in spalla. Oggi a 18 vengono nella nostra scuola con lo zaino in spalla!
Sia essa l’educazione dei ragazzi, il coinvolgimento dei padri nella formazione, il microcredito o la redistribuzione della terra delle grandi piantagioni… tutto questo è parte della stessa lotta per emanciparsi. Mi fa ridere, dice, che con tutto quello che succede nel mondo e in Guatemala, gli unici che non hanno problemi a mangiare sono proprio i nostri soci e le loro comunità che in passato hanno saputo creare degli orti per potersi rendere autonomi dal mercato. Sembra una cosa da poco, ma un tempo qua le coltivazioni erano le grandi fincas dei latifondisti. Poi abbiamo cominciato a studiare possibili utilizzi diversi della terra che finalmente avevamo a disposizione, ed oggi Chimal è famosa in tutta la zona per la vendita di tante verdure differenti. Anche questa è una vittoria.
Sono tanti i progetti che Mario ha in mente ma i soldi non sono molti. Ricorda con molto affetto le ong italiane che lo hanno aiutato e mi spiega come il loro aiuto sia sempre stato doppio. Ogni persona ed ogni aiuto che viene nella cooperativa è essenziale perché rappresenta sia un appoggio economico che un supporto politico importante. Sapere che la cooperativa ha tanti amici in europa e nel Mondo è una cosa che frena molto chi ci vuole male. E tutto questo ci fa sentire meno soli ed in qualche modo ci da un’ulteriore ricompensa degli sforzi portati avanti.
Un mesetto fa ha ricevuto una attestato dalla FAO che lo ringrazia per quanto fatto per il proprio popolo per migliorare la condizione alimentazione. Durante la guerra l’esercito bruciava le coltivazioni per affamare la gente. La denutrizione era enorme. Il governo non sarà contento di questo attestato.
I suoi occhi. Mi ci perdo ancora un po’ sapendo che l’incontro sta per finire. Insolitamente chiari per essere in Guatemala. Occhi buoni che si rattristano al parlare dei tanti momenti difficili della guerra e dei mali del mondo di oggi. Occhi di speranza, pronti a illuminarsi e a contagiare, quasi meccanicamente, ogni volta che dalla bocca di Mario esce un racconto di resistenza.
Con un po’ di supponenza giovanile e pensando di ricevere una risposta negativa chiedo se è cambiata la situazione dopo la firma dei trattati di pace. Si illumina più di prima. È cambiata si. I problemi continuano ad esserci però c’è una differenza sostanziale, soprattutto negli ultimi tempi. Durante la guerra se ti esponevi morivi o sparivi. Oggi puoi lottare. Continuano ad esserci fatti gravi, come quello di Totonicapan dove l’esercito ha sparato sui manifestanti, ma anche in quel caso si può vedere come l’esercito non può più fare quello che vuole. Siamo tornati a chiedere i diritti ed il rispetto della legge e a questo non sono pronti. Reagiscono e non è una lotta facile. Prima della pace non avevamo la libertà di poter lottare. Oggi torniamo ad avere una comunità che vuole emergere e pretende di essere ascoltata, ed è questa la strada da percorrere. Per i nostri compagni e familiari morti in questi anni e per il futuro dei nostri ragazzi.

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