Un «normale» medico italiano nel Nepal del terremoto
UN OSPEDALE DA CAMPO IN UN VILLAGGIO A 90 CHILOMETRI DA KATHMANDU. L’HA APERTO UN GRUPPO DI CHIRURGHI GUIDATO DA FEDERICO FILIDEI CHE É GIÀ STATO IN SRI LANKA E A HAITI. E QUI SPIEGA PERCHÉ IN QUESTE EMERGENZE, LE TERAPIE MIGLIORI POTREBBERO RIVELARSI LE PEGGIORI
di Silvia Bencivelli
Non si sentono eroi. Sono medici normali, lavorano nei normali ospedali italiani, sono i nostri chirurghi, anestesisti e pediatri normali, oggi chiamati a fare il proprio lavoro dove di normale non c'è niente. Come il villaggio di Satbise, a 90 chilometri da Kathmandu, cioè a dieci ore di camion su una strada sconnessa che dalla capitale del Nepal si arrampica tra i monti. Un villaggio di case distrutte dal terremoto in cui il Gruppo di Chirurgia d'urgenza, partito da Pisa con 27 medici, sei vigili del fuoco e quattro funzionari di Protezione Civile, ha gonfiato la sua sala operatoria pneumatica, montato le sue tende, issato la sua bandiera.
Tra loro, Federico Filidei: trentotto
anni, chirurgo all'ospedale Lutti di Puntedera, qui è deputy team leader con funzioni da direttore sanitario. Una delle prime cose che ha fatto sotto una di queste tende è stata ricucire il volto di un bambino che, a quasi due settimane dal disastro, non aveva ancora visto un disinfettante né un cerotto. «Abbiamo dovuto togliere le mosche dal viso, che impressione» racconta al telefono con un po' di fatica. Il terremoto del 25 aprile scorso e le scosse successive non hanno solo causato ottomila morti e dodicimila feriti (cifre ufficiali), valanghe sull'Himalaya e la distruzione improvvisa di città e monumenti storici. Hanno anche interrotto le vie d'accesso alle valli e ai villaggi più lontani dai grandi centri, perciò a settimane di distanza dal terremoto ci sono ancora feriti che non sono stati visitati da nessun medico. «Adesso a noi arrivano un po' alla volta, man mano che le strade si aprono e si diffonde la voce che siamo qui». Così all'inizio si sono presentati soprattutto traumi lievi e bambini e donne incinte con malattie come congiuntiviti e febbroni, perché in questi villaggi si dorme sotto tende di fortuna. «E, come sempre succede, sono arrivate anche malattie croniche di povera gente che si tiene un mal di denti per anni». Poi si sono affacciati pazienti sempre più gravi, da posti sempre più lontani. E su questi si misura la differenza tra un eroismo romantico e una professionalitá complessa e versatile: «Ieri sera ci hanno portato una ragazza con ferite tremende al volto e alla testa e una sospetta frattura alla colonna vertebrale. Noi dovevamo stabilizzarla e inviarla a un centro specializzato. Solo che qui non c'è un sistema di ambulanze. Cosi l'ambulanza abbiamo dovuto inventarcela, "travestendo" in fretta e furia una jeep e mandandola a valle di notte,
con tre dei nostri a bordo».
Ma il vero problema è che «stabilizzare il paziente» in un
ospedale da campo, dove gli ambulatori sono tende arredate con qualche palloncino per fare compagnia ai pazienti bambini, ha un significato diverso da quello che gli stessi chirurghi e anestesisti gli danno quando sono a casa. E non perché manchino gli strumenti, ma perché l'imperativo è chiedersi che cosa succederà una volta che il paziente sarà uscito dalla sala operatoria pneumatica e sarà tornato a essere un nepalese malato in Nepal. «In Italia, per esempio, quella ragazza l'avremmo intubata senza pensarci un secondo» spiega Filidei «mentre qui abbiamo dovuto considerare che l'ospedale dove andrà è di certo meno attrezzato della nostra tenda operatoria, e potrebbero non esserci reparti di terapia intensiva con respiratori adeguati, sistemi di monîtoraggio e così via. Lo stesso vale per gli antibiotici di ultima generazione, che sarebbero la nostra prima scelta per un bambino con la polmonite: qui è bene non usarli. Perché i nepalesi non ce li hanno e tu non puoi abbandonare un paziente con farmaci che poi i medici locali non sanno usare». In Italia quella ragazza ferita e non intubata porterebbe Filidei e colleghi in tribunale, accusati di negligenza e di imperizia. A Satbise, al contrario, la negligenza sarebbe stata quella di intervenire con gli strumenti di un medico occidentale e poi di infilare la paziente nella jeep-ambulanza trascurandone il destino. E questa imperizia si evita con una preparazione basata sul massimo rispetto possibile degli standard che garantiamo a noi stessi in Italia (dal consenso informato alla rendicontazione delle spese), «ma ricordandosi che a un certo punto devi considerare il mondo fuori dalla tua tenda. Un mondo dove non ci sono strutture di riabilitazione e medici curanti, e spesso neppure lenzuola pulite e cibo tutti i giorni». Non solo: bisogna decidere, per esempio, se allestire o meno una tendopoli per la popolazione terremotata anche se non si hanno tende per tutti, perché una tendopoli a metà potrebbe creare conflitti tra gli abitanti. Bisogna conoscere e rispettare i salari locali per non strapagare un autista tra i tanti. Infine, si deve parlare con gli altri gruppi di medici arrivati da tutto il mondo con il coordinamento delle Nazioni Unite. «Lo so che l'attenzione alla burocrazia, e le riunioni internazionali nelle quali oggi sono il referente italiano insieme a un membro della Protezione civile, sembrano lungaggini» spiega «ma sono necessarie. Ed è persino emozionante
discutere con i medici di mezzo mondo su dove reperire sangue e ossigeno o su come
smaltire i rifiuti lassù sulle valle hmalayane». Federico Filidei fa parte del Gruppo di Chirurgia d'urgenza dal 2003, quando, specializzando al primo anno, fu chiamato a sostituire un collega anziano che non poteva partire per l'Iran. «Dissi di si e nel giro di qualche ora mi trovai su un aereo militare. Non avevo addestramento e nemmeno un diploma di specializzazione. L'anno dopo andai in Sri Lanka ad assistere le popolazioni colpite dallo tsunami, poi in Cina e ad Haiti». Nel frattempo le cose sono cambiate: è cambiata l'attenzione alla preparazione del personale ed è cambiata la gestione dell'emergenza.
Anche per questo, dice, è difficile sentirsi eroi: «Da quando siamo partiti da Pratica di Mare, la notte del 29 aprile, ci sono arrivati centinaia di messaggi di incoraggiamento. Ma, tra viaggi e autorizzazioni, e poi per montare questo campo tendato, per qualche giorno non abbiamo operato. Ci sentivamo quasi traditori a stare a guardare». In un posto come Satbise si viene per spirito di servizio, non pagati (e per un medico a partita Iva non è ovvio) e con la consapevolezza di aver lasciato un ospedale italiano sulle spalle di colleghi che nessuno ringrazierà. «Non c'è senso di esaltazione» conclude Filidei, «solo voglia di lavorare, stanchezza e nostalgia di casa. A me mancano da morire le mie due bambine. E non riesco a non pensare a quando andai in Cina e la più grande, allora all'asilo, impediva piangendo che gli altri bambini buttassero giù le costruzioni. Perché aveva capito che cosa è un terremoto.
Quando tornai, girò la testa e non volle nemmeno salutarmi».
Silvia Bencivelli
(Il Venerdì di Repubblica-venerdi 22.05.2015)
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