Alvaro Ramazzini: «La mia America desaparecida»

Monsignor Ramazzini, il suo intervento al Convegno di Milano «América Reaparecida. Suggestioni per l’Europa» si intitolerà «Una Chiesa in stato di missione». Quali sono le priorità fondamentali di questa missioneSicuramente una priorità della Chiesa latinoamericana riguarda l’evangelizzazione, pur essendo l’America Latina il continente con il maggior numero di cattolici. Mi sembrano significative e attuali le parole dei vescovi riuniti nella V Conferenza di Aparecida, nel 2007, quando presentarono il valore e la portata della missione continentale: «Questa decisione missionaria deve impregnare tutte le strutture ecclesiali e tutti i piani pastorali di diocesi, parrocchie, comunità religiose, movimenti e di qualunque istituzione della Chiesa. Nessuna comunità deve esonerarsi dall’entrare decisamente, con tutte le sue forze, nei processi costanti di rinnovamento missionario, e dall’abbandonare le strutture precarie che non favoriscono la trasmissione della fede. Siamo chiamati ad assumere un atteggiamento di permanente conversione pastorale che implica ascoltare con attenzione e discernere “quello che lo Spirito sta dicendo alle Chiese” (Ap 2,29), attraverso i segni dei tempi nei quali Dio si manifesta».
Vista dall’Europa, e dunque con molte semplificazioni, la Chiesa latinoamericana rispetto a 30 anni fa sembra nel suo complesso avere un po’ smarrito la profezia, lo slancio ideale. È d’accordo?
Anche il documento di Aparecida rispecchia questa sensazione. In quell’occasione noi vescovi abbiamo sottolineato con forza alcuni mali che ci preoccupano come Chiesa. Abbiamo bisogno di «un forte coinvolgimento che impedisca di vivere nella comodità, nella stagnazione e nella tiepidezza, al margine della sofferenza dei poveri. Abbiamo bisogno che ogni comunità cristiana si trasformi in un potente centro di irradiazione della vita in Cristo. Speriamo in una nuova Pentecoste che ci liberi dalla fatica, dalla delusione, una venuta dello Spirito che rinnovi la nostra allegria e speranza». Aparecida ha segnalato l'esistenza di molti «battezzati non evangelizzati», presentando il rischio concreto di una evangelizzazione ritualistica e della persistenza di linguaggi poco significativi per la cultura attuale e in particolare per i giovani. Sembra che si sia smarrito l’ardore dell’evangelizzazione, che si stenti a trovare nuovi metodi ed espressioni.
In questo contesto, uno dei problemi che da anni preoccupa la Chiesa latinoamericana è la crescita di gruppi cristiani fondamentalisti. Qual è la situazione in Guatemala?
Assistiamo al proliferare di gruppi e sette religiose che hanno generato una forte dispersione e intaccato il senso di appartenenza religiosa. Ci preoccupa il fatto che sono gruppi con poco senso critico di fronte ad una realtà marcata da estrema povertà, ingiustizia istituzionalizzata, disuguaglianza sociale. Non c’è attenzione verso un'autentica liberazione integrale. L'immagine che questi gruppi alimentano è quella di una Chiesa vincolata al potere, di una «cristianità» legittimatrice dello status quo. E l’immagine di Dio molte volte non corrisponde al Dio rivelato da Gesù Cristo. Normalmente sono caratterizzati da un superato tradizionalismo e integralismo, da un marcato accento individualista e moralista, e da una tendenza verticista ed elitaria, qualcosa di molto lontano dalla visione ecclesiologica e spirituale sia del Vaticano II che dalla tradizione latinoamericana. Lei è presidente della Commissione per la mobilità umana della Conferenza episcopale guatemalteca. Nel suo Paese e in tutto il Centroamerica è molto forte il fenomeno dell’emigrazione, che porta un po’ di benessere grazie alle rimesse, ma provoca anche uno sradicamento delle persone e una separazione delle famiglie: quali sono le preoccupazioni e le azioni della Chiesa in questo ambito?
Seguo da vicino la problematica delle migrazioni, essendo la mia diocesi situata al confine con il Messico, e quindi è un luogo di transito di migranti che intraprendono il viaggio, sempre più rischioso, verso gli Stati Uniti. Indipendentemente dai motivi che spingono i migranti a emigrare, queste persone vivono un dramma che colpisce per sempre la loro vita emotiva e affettiva. Le situazioni che causano traumi e sofferenze nella vita dei migranti sono: la separazione dalla famiglia, la perdita della loro lingua madre e delle radici culturali, il rifiuto all’interno della nuova cultura, la perdita dei legami affettivi con la natura, la madre terra. Situazioni di vera e propria xenofobia e abuso della mano d’opera dei migranti approfondiscono questo trauma. La Chiesa è sempre in prima linea sia nella riflessione sul tema delle migrazioni (la prima domenica di settembre celebriamo la Giornata del migrante, e in occasione della Quaresima una Via Crucis del migrante), sia nell’aiuto concreto a queste persone e alle loro famiglie. A Tecun Uman, nella mia diocesi, abbiamo aperto una casa che assiste e accoglie i migranti, in collaborazione con i padri scalabriniani. Negli ultimi anni poi sta diventando sempre più grave il fenomeno delle espulsioni di cittadini guatemaltechi senza documenti dagli Usa, anche dopo vari anni di lavoro. I dati sono allarmanti. Nel 2004 un totale di 7.029 persone sono state rimpatriate, compresi 200 bambini. Nel 2008 la cifra aveva raggiunto le 25.051 unità. Nel 2010 sono stati quasi 30mila gli espulsi, cifra che costituisce il triste record degli ultimi anni. Sono convinto che la riflessione sulle migrazioni vada affrontata a livello internazionale, nel nostro caso, da anni chiediamo alle autorità statunitensi una riforma della legislazione migratoria, che nel rispetto della sicurezza e delle leggi nazionali, garantisca la dignità e il rispetto dei diritti umani dei migranti.
Un altro tema caldo è quello dello sfruttamento delle risorse naturali. In particolare, Lei ha preso posizioni molto coraggiose nel suo Paese rispetto all’industria estrattiva, subendo anche minacce: che cosa risponde a chi dice che un vescovo non dovrebbe occuparsi di questi temi? Sono stati fatti passi avanti nel rispetto dei diritti delle popolazioni e dell’ambiente?
Su questo tema mi sono impegnato in prima persona, con la diocesi di San Marcos, perché nel nostro territorio da alcuni anni è presente la Miniera Marlin, della Montana Exploradora de Guatemala, filiale centroamericana della potente multinazionale canadese Gold Corp. Quando un vescovo si occupa di questi temi, che danno fastidio a livello economico, viene spesso accusato di fare politica. Ma io faccio politica nel senso di cercare quel bene comune e quella realizzazione personale di cui parla la dottrina sociale della Chiesa. Ma una persona non può realizzarsi se è denutrita, non ha accesso all’educazione o a un lavoro degno. In questo paese, ciò non si realizza, ed è mio dovere dirlo. È il bene comune che mi sta a cuore, e se per quello mi danno del politico hanno ragione, sono un politico. Sono convinto che non ci può essere evangelizzazione autentica se non si include una promozione integrale dell’essere umano, e la liberazione integrale dello stesso. In ogni occasione, riaffermo la mia scelta preferenziale per i poveri e gli esclusi.Riguardo al tema delle miniere, la mia posizione, e quella della Conferenza episcopale, è stata di quella di sostenere che questo tipo di industria non risolve il problema della povertà in Guatemala e che lo sfruttamento minerario non è l’alternativa per uno sviluppo integrale sostenibile e rispettoso dell’ambiente. È necessario utilizzare le risorse del sottosuolo con criteri molto precisi, per esempio il minor danno possibile all’ambiente e la popolazione. Dunque, bisogna evitare di utilizzare il cianuro nelle miniere di oro e argento; c’è poi il tema dell’acqua: in una regione dove c’è scarsità d’acqua non si può fare un’attività di questo tipo perché si consumano decine di migliaia di litri d’acqua necessari per la popolazione.
Oltretutto si tratta di un fenomeno che non porta benefici alla popolazione locale.
Infatti. Oggi i benefici economici vanno alle multinazionali: arrivano, prendono l’oro, si arricchiscono, arricchiscono gli azionisti, e il Paese rimane povero come prima. Allora io mi chiedo: che senso ha appoggiare un tipo di iniziative di questa natura? A cosa ci serve avere oro e argento se non abbiamo acqua? A cosa ci serve avere oro e argento se le falde acquifere si prosciugano? A cosa ci serve avere oro e argento se la gente continua a essere povera perché i benefici di questa attività non le arrivano? A cosa ci serve avere oro e argento se il cianuro può avvelenare la vita della fauna, della flora, e perfino delle persone che vivono vicino? Ma la società civile si sta muovendo, le comunità indigene hanno realizzato consultazioni popolari nelle quali hanno rifiutato le attività minerarie a cielo aperto. Sono già 49 i municipi nei quali si sono svolte consultazioni popolari, con una partecipazione di oltre 700mila persone. Un aspetto positivo, secondo me, è proprio quello che le comunità indigene sono stanche delle condizioni di esclusione e cercano il loro sviluppo in armonia con la madre terra. La diocesi di San Marcos accompagna le popolazioni con la Commissione pastorale ecologia e pace (Copae), incaricata di offrire assistenza alle comunità che stanno resistendo ai mega progetti di sfruttamento minerario metallico o di centrali idroelettriche.


Stefano Femminis
Popoli-17 febbraio 2011

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