“Io, precario premiato all’estero!”

Lo sfogo di Filippo Ticozzi, regista pavese, “dimenticato” dall’Italia

di Daniela Scherrer, IL TICINO- 18 luglio 2009

Filippo Ticozzi, trentasei anni, è un regista e produttore pavese. E’ laureato al Dams di Bologna, soprattutto è molto bravo ma questo non gli è sufficiente per uscire dalla sua situazione di precariato. Almeno in Italia perchè all’estero i suoi documentari hanno fatto man bassa di premi nei vari Festival. Il suo è un genere particolare, molto profondo e intimista. In “Lettere dal Guatemala”, ad esempio, Filippo racconta attraverso alcuni stralci della corrispondenza alla moglie la vita del popolo Maya, diviso tra una cultura meravigliosa e millenaria e la grande povertà conseguente ad anni di guerre. “Lilli”, invece, è stato interamente girato in Oltrepo e racconta la storia di Giancarlo, un ragazzo “particolare” che vive con la mamma e il suo cane tra le colline. “Lilli” è stato premiato in due Festival internazionali francesi ed è arrivato fino in India, unico film italiano selezionato sui trentasette di tutto il mondo. Ora il Comune di Pavia gli ha commissionato “Dall’altra parte della strada”, film che pone l’accento sulla violenza contro le donne e si propone di entrare nelle scuole superiori.
Oggi si parla molto di precariato e lo si lega spesso all’ambito della ricerca. Però “fughe di cervelli” dall’Italia si registrano anche in altri settori, compreso il suo. E’ vero che registi e produttori giovani devono andare all’estero se vogliono sfondare?
“Sicuramente. La crisi in Italia è forte, ed in settori come il mio ora è difficilissimo lavorare. Nonostante i luoghi comuni dicano il contrario, con il mio lavoro faccio davvero fatica a mettere insieme 800/1000 euro al mese. Io parlo da indipendente e da regista. Non so di preciso che cosa succeda nel mainstream, ma sicuramente lì una parola come regista ha tutt’altro significato. All’estero va meglio, in tutta Europa, anche se al giorno d’oggi è comunque più difficile. Non si diventa ricchi facendo i registi. Il punto fondamentale è un altro. All’estero la cultura è vista come un bene prezioso. E’ tutelata e, anche nelle difficoltà, le si riconosce un valore universale. Qui sappiamo tutti come vanno le cose. Se prima si tacciava la cultura di essere di sinistra, ora si cerca di strozzarla e di renderla inerme. Il sapere infastidisce perché permette alle persone di vedere le cose da più punti di vista. E questo fa paura ai dirigenti, a chi comanda. La volgarità esibita e lo svilimento dell’intelligenza ora hanno il potere massimo”.
La tua esperienza è illuminante sotto tanti profili: praticamente sconosciuto nel nostro Paese, ricercato all’estero dove ormai le sue produzioni hanno conquistato numerosi successi. Perché questo?
“In realtà il mio primo documentario, Lettere dal Guatemala, è stato selezionato in diversi festival italiani. E ho fatto una serie di documentari per Marco Polo, canale italiano. Il problema è che qui questi fatti non sono l’inizio di una carriera, ma solo una sorta di colpo di fortuna. Lilli invece è stato selezionato in Francia, Kenya, Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda, India. In Italia neanche i festival più piccoli l’hanno voluto. Sicuramente c’è una questione di genere. Il film dura 38’. Non è un corto e non è un lungo. E in Italia l’80% dei festival prendono corti o lunghi. Poi io sono fuori dai giri, dal milieu. Un po’ per una questione di carattere mio, un po’ perché non è proprio facile entrarci. Non parlo di raccomandazioni, questo assolutamente no. Parlo di avere una certa visibilità, di essere un po’ manager di se stessi nei posti dove si fanno i film: Roma, Milano e Torino. Questo mi manca totalmente e in più abito in provincia. Un’ultima cosa, sicuramente la più importante, è che i miei film, riusciti o meno, non spetta a me dirlo, cercano di battere vie inesplorate, zone ombrose. E cercano di non fuggire. Bisogna aver voglia di entrarci, senza preconcetti. Per me sono pellicole semplici, storie da raccontare ad un bimbo, senza orpelli. Per questo, forse, non sono per tutti i gusti”.
“Lettere del Guatemala”, poi “Lilli”: preferisce temi impegnati ad altri magari più leggeri e commerciali. Pensa che questo possa in qualche modo catalogarla?
“Mah…. Per me è così: ognuno fa quel che sa fare. Non li cerco i temi. Loro in qualche modo trovano me. Per esempio la scoperta del Guatemala è avvenuta per caso, incontrando Ruggero Rizzini che opera là con l’associazione Ains. Mi colpirono la passione e la costanza di Ruggero, così decisi di capire su cosa stesse lavorando con tanta energia. Mai avrei pensato di andare in Guatemala prima, né di appassionarmi tanto alla cultura Maya. Addirittura, se tutto procede secondo i piani, tornerò laggiù con due film maker per fare un altro documentario! Mentre Giancarlo, il protagonista di Lilli, è un caro amico e da sempre avrei voluto fare qualcosa con lui. E’ un ragazzo fuori dal comune, dall’enorme sensibilità, generoso, segnato dalla vita ma fiducioso. Un’immagine, lui che scala una montagna con il suo cane morto sulle spalle, mi ha aperto la strada. E’ nata l’idea e abbiamo fatto il film. Giancarlo non è un attore, e infatti recita benissimo. Il film che ho in montaggio ormai da un anno, Legna, parla di un alcolizzato ed è tratto da un racconto di Raymond Carver. Tutte cose diverse. Più che di temi parlerei di un atteggiamento verso il mondo”
Ha dichiarato che i suoi successi recenti l’hanno in qualche modo riconciliata con la passione per il suo lavoro. Quanto serve la gratificazione nell’incoraggiare in un lavoro difficile come il suo?
“Serve tantissimo. Fa venire voglia di andare avanti. Ti senti un poco realizzato. Parlo spesso di Festival perché sono gli unici luoghi dove il tuo film può avere visibilità. Per i film brevi non ci sono veramente alternative. O sei selezionato ad un festival, o il film rimane nel cassetto (parlo sempre da indipendente). E esser selezionato è difficilissimo. Nei festival più importanti arrivano migliaia di film, e se ne proiettano tra i 10 e i 100. Se il film va bene al festival ti fai il curriculum e magari una televisione o un produttore ti contatta”.
Qual è il suo sogno per il futuro?
“Sinceramente sarebbe riuscire a lavorare serenamente sulle mie cose. Nulla più. Così è quasi impossibile. La sindrome di Sisifo ti attanaglia. Forse, più realisticamente, vorrei avere un’offerta dall’estero che mi permettesse di trasferirmi in un paese migliore con la mia famiglia allargata: moglie, figlia, quattro cani e due suoceri (tra le poche persone che mi dispiacerebbe perdere)!!. L’Italia ora non mi piace per niente”. Quindi pensa anche di lasciare Pavia... “Ci penso tutti i giorni. Una città che non ho mai amato, certo, ma prima credevo avesse molte potenzialità inespresse. Ora non credo neanche più quello. Pavia è la città/sonno per eccellenza. In effetti tutto quello che chiede è di star tranquilla, no? Appena si tenta qualcosa viene subito affossata e ricoperta di terra. Non parlo di politica, né di amministrazione. Parlo di un sentire comune della città, dei suoi abitanti. Ed è facile assuefarsi a questo. Ci sono, come in tutti i luoghi in bilico sul baratro, anche persone meravigliose. Mia moglie. Grandi amici e grandi teste ho trovato qui. Ma le conto sulle dita delle mani. Perché non me ne vado allora? Perché non è così facile riorganizzarsi una vita con una famiglia quando non si è sicuri di niente”.
C’è un regista che ammira particolarmente e perchè?
“Amo il cinema che in qualche modo ha a che fare con la vita, che svela un punto di vista inconsueto e forte, quasi innervato. Per questo amo delle visioni del mondo più che dei film. Primo fra tutti Werner Herzog, forse l’incontro filmico più sconvolgente. Poco distanti, quasi alla pari, Robert Bresson e Andrej Tarkovskij. Poi l’umorismo gelido di Aki Kaurismaki, la crudeltà tutta d’oggi di Ulrich Seidl e l’errabondo documentario di Robert Kramer. Tra gli italiani sicuramente Marco Ferreri è il mio preferito. Ora deceduto, in pochi si ricordano di lui. Si trasferì in Francia negli anni ottanta perché in Italia nessuno lo faceva più lavorare…”

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