Il giornalismo? Si fa con le gambe


Ettore Mo: «Difendo la testimonianza diretta, bisogna andare sul posto»

PAVIA. Nel giugno del 1962 un giovanotto si presenta da Piero Ottone, all’ufficio di corrispondenza del Corriere Della Sera di Londra. Vuole fare il giornalista, lascia tre articoli e l’itinerario per l’Estremo Oriente della nave su cui è imbarcato come steward. Arrivato a Hong Kong, il giovanotto trova una lettera di Ottone, gli comunica che sa tenere la penna in mano ed è «persona atta» a fare il giornalista. La carriera di Ettore Mo, 78 anni, inviato e firma di punta del Corriere, è iniziata così, dopo una serie di lavori da giramondo: istitutore di ciechi nel Vicentino (li faceva giocare a calcio mettendo i sassi nelle scatole di latta per orientarli con il rumore), insegnante di francese in Spagna, cameriere a Parigi a due passi dalla Sorbona, barista sull’isola di Jersey, lavapiatti a Stoccolma e cantante di night a Piteo, sotto il circolo polare, dove intonava «O’ sole mio», «Funiculì, funiculà», finchè non scoprirono che era senza permesso di soggiorno, infermiere nell’ospedale degli inguaribili di Londra. Infine marinaio sulle rotte dell’Estremo Oriente e l’approdo a Fleet Street, la via dei giornali di Londra, all’ufficio del Corriere. Nel 1979, Mo, viene spedito a Teheran (ci arriva in taxi da Ankara), in piena rivoluzione komeinista. E’ l’inizio della carriera da inviato che lo porterà su tutti i coflitti e sui luoghi più disparati e disperati del mondo, vincendo una quarantina di premi, tra cui l’Angelini nel 2006.

A Pavia è un po’ di casa?
«Mi fa piacere tornare - dice -. Mia figlia ha studiato medicina alla vostra Università; qui ho conosciuto lo scultore e mio omonimo Carlo Mo, che mi parlava della sua Pavia e della sua Genova; qui mi è stato assegnato il premio Angelini».
Il governo sostiene di aver mandato i nostri soldati in Afghanistan in missione di pace ma gli afgani, come lei scrive, li considerano «truppe d’occupazione», perchè?
«Gli alleati occidentali hanno mandato i soldati per aiutare il governo afghano a mantenere la pace ed evitare che il conflitto si estenda. Ma per la popolazione sono truppe d’occupazione e quando arrivi a Kabul questa percezione è netta».
Italiani brava gente, è un detto ancora valido?
«Credo che questa impressione sia rimasta, senza dubbio i nostri soldati si sono comportati bene, hanno sostenuto la popolazione civile. Inoltre l’Italia non è direttamente coinvolta nella storia e nei coflitti dell’Afghanista e dell’Iraq».
E’ possibile un ritiro?
«Tutti ce lo auguriamo, noi e loro. Ma questo dipende da come e quanto i loro apparati civili e soprattutto quelli militari saranno in grado di funzionare da soli. Riusciranno a difendersi, saranno in grado di sventare un golpe?»
Un posto che le è rimasto impresso?
«La Cecenia, a Grozny sparavano da tutte le parti, i cecchini erano ovunque, la gente viveva nelle cantine. Ero con Milena Gabanelli e ci spostavamo dietro i carri armati francesi per non essere impallinati. Veramente pericoloso».
Come è passato dalla redazione degli spettacoli alla guerra?
«Nel 1979 il direttore Franco Di Bella mi ferma in corridoio e mi chiede se ho il passaporto: “Sì che ce l’ho”. “Allora preparati a partire per Teheran”. Incredulo, gli chiedo: “Franco, hai bevuto?” “No, non ho bevuto - mi risponde - e ricordati che io butto in acqua soltanto quelli che so che sanno nuotare. Adesso sbrigati a partire”. E così, dagli spettacoli, dalla Scala di Milano, sono piombato a Teheran, dall’Elisir d’amore sono arrivato in mezzo alla guerra».
Lei ha seguito molto il Libano, Israele e i palestinesi. Lo status di Gerusalemme è una questione millenaria. Riuscirà Obama a trovare un compromesso di pace?
«Penso che Obama, anche se ora è in difficoltà, sia il presidente americano che più di ogni altro possa porre le basi per una pacificazione. Non so se ce la farà e non oso pronunciarmi, rischio di essere rimproverato dagli storici».
Internet sta cambiando i giornali, la stampa è percorsa da una crisi per alcuni aspetti irreversibile. L’Economist ha scritto che la fine della carta stampata avverà nel 2049. Cosa ne pensa?
«Io sono un difensore della testimonianza diretta, senza non c’è giornalismo. Però la testimonianza diretta sui giornali è sempre più rara. Quasi tutti i giornali, anche quelli grandi, sono scritti a tavolino. I giornalisti non si muovono o si muovono poco. Mandare un inviato in giro per il mondo costa, soprattutto come il mio caso con un fotografo appresso. I giornali tentano di eliminare questa spesa. La massa di informazione che arriva sulla scrivania tutti i giorni, attraverso le agenzie ed internet, ha creato l’illusione che si possa scrivere una corrispondenza restando in ufficio. Questo va sfatato».
Perchè?
«Se non vai sul posto, se non conosci intimamente la situazione, se non frequenti un paese fino al punto che diventi familiare, nel senso che partecipi ai suoi drammi, non ci può essere vero giornalismo. Io provo disagio per i giovani che si avvicinano oggi al giornalismo, perchè le possibilità di andare sul posto, di testimoniare direttamente, sono sempre più rare. Ormai il giornalismo è fatto a tavolino: taglia e incolla, taglia e incolla. Ma è molto più facile scrivere di un avvenimento sul posto che farlo a distanza, con agenzie o internet».
Paghiamo l’avvento di internet?
«Internet è necessario per aiutare i giornalisti a fare bene il loro mestiere: arrivano a Kabul o a Kandahar, ed hanno una serie di informazioni in più a portata di mano. Ma l’illusione che i giornali possano sopravvivere senza testimonianza diretta mi preoccupa».
Il giornalista che ha ammirato di più?
«Egisto Corradi, ha fatto il giornalismo di guerra in presa diretta sul posto, sobrio e preciso. Memorabili i suoi articoli dal Vietnam. Mi ha in qualche modo insegnato come fare l’inviato. Una volta ho incontrato il nipote di Winston Churchill, giornalista, e mi ha chiesto da dove venissi. Quando gli ho detto dall’Italia, dal Corriere della Sera, ha esclamato “Allora conosci Egisto Corradi”. “Certo”, ho risposto. E lui ha detto sempicemente “you have the best”, avete il migliore».
Che ricordo ha di Corradi? «Era di estrema modestia, quando lo vedevo avanzare da via Moscova, col suo passo ciondolante, mi inginocchiavo e dicevo: “Maestro, dammi la benedizione”. Lui mi prendeva per il ciuffo e mi diceva: “Alzati, burlone”. E’ sua la frase che questo mestiere si fa con le suole delle scarpe, ovvero andando sul posto».
Il suo scrittore e libro preferito?
«Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, mi affasciana il suo modo di raccontare, di mischiare realtà e fantasia in modo formidabile».
Lei è appena stato in Sudamerica, cosa ci racconterà?
«Sono stato in Cile, prima che fossero liberati i minatori. Poi sono andato a vedere una orchestra di un centinaio di ragazzini che suonano musica barocca nella selva amazzonica. Infine sono stato nel paese della longevità, in Bolivia, vicino a Santa Cruz, dove ci sono dei vecchietti che sono arrivati a 115 anni e qualcuno anche oltre e dove un’osteria vende l’agua de hierro, l’acqua di ferro».
Un anedotto da inviato giramondo?
«Prima dei cellulari, il problema degli inviati speciali era dettare il pezzo al giornale e la linea telefonica diventava questione di vita o di morte. Siamo negli anni 80 a Beirut, tutti gli inviati all’albergo Intercontinental, dalle sette di sera, lottano con i telefoni. Tutti, tranne Leonardo Vergani: quando la telefonista sente la voce di monsieur Verganì, trova subito la linea. Dopo settimane, prima di partire, un po’ per cortesia e un po’ per curiosità, i due si danno appuntamento nella hall dell’albergo. Vergani, prudente, si presenta un quarto d’ora prima, col Corriere in tasca, in segno di riconoscimento, e vede entrare una signorina, bassotta e paffutella, che si siede all’ingresso, ruotando gli occhi in cerca di qualcuno. Vergani butta il giornale e si avvia all’uscita. Proprio in quel momento entra un operatore televisivo, i due si conoscono. L’operatore sta per salutare Vergani, ma lui come un fulmine lo previene e ad alta voce gli dice “Ciao Vergani”. Ed esce. La telefonista balza in piedi: “Monsieur Verganì, monsieur Verganì”. Bene, la telefonista e l’operatore tv si sono felicemente sposati e hanno messo su famiglia a Roma».

LIETO SARTORI, La provincia poavese-10 novembre 2010

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