'LA TIERRA SIN MAL' DI ANNA RECALDE MIRANDA PREMIATO COME MIGLIOR DOCUMENTARIO
ultimo aggiornamento: 31 maggio, ore 17:13
Siena, 31 mag. - (Adnkronos) - Si e' conclusa con la vittoria di 'La tierra sin mal' di Anna Recale Miranda la 4a edizione della Festa del Documentario ''Hai Visto Mai?'', diretta da Luca Zingaretti. L'opera racconta la storia di Fernando Lugo, primo vescovo ad essere eletto Presidente della Repubblica nella storia della democrazia e unica speranza nella costruzione della ''tierra sin mal'' (il paradiso in terra per gli indios guarani) in Paraguay. Il film, prodoto da Troubled Production (Francia), Kinemultimedia (Paraguai) e dalla Suttvuess ( Italia), racconta la storia di Fernando Lugo, primo vescovo ad essere eletto Presidente della Repubblica nella storia della democrazia e unica speranza nella costruzione della ''tierra sin mal'' (il paradiso in terra per gli indios guarani) in Paraguay.
31 maggio 2009
Così il Dio del denaro inganna gli uomini
scritto da Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose
pubblicato su La Repubblica, 28 maggio 2009
pubblicato su La Repubblica, 28 maggio 2009
Pecunia, l’argent, il denaro: il motore dell’economia? Il mezzo di scambio per eccellenza che si è imposto come standard universale? Misura non solo per il mercato dei beni e dei servizi, ma anche misura sul mercato del lavoro? Il denaro mi spinge a esprimere il valore economico mediante l’aggettivo «caro» («Questo prodotto è più o meno caro…»), in parallelo all’affetto che induce a dire a un altro «caro» («Mio caro..»). Caro, cher, dear: una stessa parola per misurare il denaro e per misurare l’affetto…
Ma il denaro è un mezzo o un fine? Dipende per chi. Non è certamente un fine per l’economia, che insegue la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi. Non è un fine neppure per l’impresa, la quale vuole creare una ricchezza, un utile. E per l’individuo? Il fine è la felicità che dipende dall’amare e dall’essere amato, dal senso trovato nel vivere, da un certo benessere materiale, dunque anche dal denaro.
Sì, per alcuni il denaro è percepito come la chiave per accedere alla felicità.
Platone nei Nómoi e Aristotele nella Politeía pensano che sia naturale trarre vantaggio dalla terra e dagli animali, ma che non lo sia arricchirsi con il denaro. Allo stesso modo i profeti di Israele, seguiti dai padri della chiesa, condannano quanti prestano denaro a interesse, creando denaro con il denaro.
Questa patologia del legame con il denaro è stata definita «cupidigia» e letta come la fonte di molti mali, di enormi disastri, economici, politici e oggi anche ecologici.
Dunque il denaro è un mezzo necessario, in sé non è né bene né male: è uno strumento che esiste dal VI secolo a.C. sotto forma di moneta, che sta nell’ordine delle mediazioni e come tale permette lo scambio (allo stesso modo del linguaggio, per esempio), è «una vittoria sulla distanza» – afferma Georg Simmel nella sua Filosofia del denaro –, è un mezzo che permette di abbattere le frontiere sociali e geografiche. D’altra parte il denaro, proprio per la sua qualità rappresentativa, può essere un fine in sé, un agente di accumulazione delle ricchezze, capace di possedere una grandezza autonoma e una forza seducente. (1)
Lao Tze, il sapiente cinese fondatore del taoismo (VI secolo a.C.), racconta una storia paradigmatica, la storia di Tsi. Questi era un uomo sedotto dal denaro, avido di ricchezza. Un mattino, recatosi al mercato, vide un banco di cambio, rubò il denaro e fuggì, ma fu subito arrestato da una guardia che gli domandò: «Come hai potuto pensare di rubare questo denaro e poter fuggire inosservato?». Tsi rispose: «Mentre rubavo il denaro io non vedevo la gente, vedevo solo il denaro!».
Ecco, il denaro esercita un tale fascino che occulta la presenza di altre persone e altre cose, un fascino che accorda addirittura la forza di rubare… Sì, il denaro ci seduce, entra in noi come una presenza efficace e contribuisce in modo sordo ma reale a tessere i nostri rapporti, le nostre relazioni con le cose e con gli uomini. Io possiedo il denaro, ma il denaro mi possiede altrettanto. Il denaro ha un posto invadente nei miei desideri, decide di molti miei desideri.
Per questo nell’Antico Testamento il denaro è definito mediante la parola keseph, la cui radice verbale (kasaph) indica il «desiderare ardentemente», il vero e proprio «languire» per qualcosa. Diventa allora rivelativa la lettura del Vangelo, dove il denaro è personificato. Gesù dichiara che il denaro è una potenza, anzi è un dio: «Nessuno può servire a due signori: o odierà l’uno e amerà l’altro, o si attaccherà all’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24; cf. Lc 16,13). E si badi bene: il termine «mammona» è in opposizione a Dio, l’amore per mammona esclude l’amore per Dio. Questo è il radicalismo evangelico di Gesù. Il denaro per lui non è semplicemente una cosa che l’uomo può possedere o no: può diventare facilmente un dio, un idolo al quale sacrifichiamo facilmente la vita degli altri e alieniamo noi stessi. Lo esprime bene l’autore della Lettera di Giacomo, quando descrive il denaro come un verme che divora coloro che lo possiedono, ingannandoli e portandoli alla distruzione e, nello stesso tempo, è fonte di ingiustizia:
E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dai vermi (dalle tarme); il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore dell’universo (Gc 5,1-4).
Nel cristianesimo, inoltre, il rapporto con il denaro va letto nello spazio della possibile idolatria (cf. Col 3,5: «La cupidigia è idolatria»), e «l’idolo prima di essere un falso teologico è un falso antropologico» (Adolphe Gesché), un’alienazione dell’uomo. Non si dimentichi, in proposito, che il termine «mammona» deriva dalla radice ebraica aman (da cui viene amen), che contiene l’idea dell’aderire con fiducia, dunque della fede. Il denaro infatti chiede fede-fiducia in sé e diventa sicurezza, falsa sicurezza contro la morte, saturazione dei bisogni più veri che abitano il cuore dell’uomo, presenza potente che induce a vedere solo lui, il denaro, e a non vedere gli altri, ad agire senza gli altri e, se necessario, anche contro gli altri. Per questo le parole di Gesù sono macigni:
Non accumulate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano … Perché dov’è il tuo tesoro, là è anche il tuo cuore (Mt 6,19.21).
Ecco la domanda essenziale: dove sta il mio cuore? Qual è per me la vera ricchezza? Il denaro è per me strumento di relazione e di condivisione, e dunque di comunione con gli altri, oppure strumento di egolatria? E attenzione: Gesù non era un profeta pauperista che non toccava il denaro. Nella sua comunità c’era una «cassa comune» (Gv 12,6; 13,29), appunto del denaro messo in comune, non sottoposto al regime del «mio» e del «tuo», ma destinato alla communitas, destinato anche a chi era nel bisogno, in modo che la koinonía fosse la forma del vivere insieme. Comprendiamo allora come normante per la comunità cristiana la descrizione fatta da Luca della primitiva chiesa di Gerusalemme, nata dalla Pentecoste: “Tutti coloro che diventavano credenti … tenevano ogni cosa in comune (At 2,44)”; “Tutto tra loro era comune … nessuno era bisognoso” (At 4,32.34).
Nella storia del cristianesimo questa «utopia» è stata ininterrottamente meditata e interpretata, e ancora oggi le esigenze poste dal Vangelo non hanno perso nulla della loro attualità e del loro valore ispirante e normativo per la prassi cristiana. Se mai, occorrerebbe l’onestà di chiedersi per quale motivo siamo diventati così restii ad ascoltare queste parole, che suonano desuete agli orecchi della maggior parte dei cristiani: perché insistiamo tanto su altri aspetti dell’agire morale, mentre preferiamo essere tiepidi o addirittura tacere sulla necessità della condivisione materiale dei beni, via maestra per eliminare, o almeno attutire, il bisogno e la povertà?
La regina pecunia, il dio denaro, chiede affidamento, fiducia, sottraendoli in tal modo al rapporto con gli altri. E in questo tempo in cui – come ha scritto di recente Luigi Zoja – non solo Dio è morto, ma è morto anche il prossimo, il denaro domina e seduce più che mai. In realtà l’unico nemico capace di duellare contro la morte, l’unico capace di vincerla non è il denaro ma l’amore, l’amore dell’altro e degli altri, è la comunicazione, la condivisione, la comunione per quanto è possibile.
Ma il denaro è un mezzo o un fine? Dipende per chi. Non è certamente un fine per l’economia, che insegue la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi. Non è un fine neppure per l’impresa, la quale vuole creare una ricchezza, un utile. E per l’individuo? Il fine è la felicità che dipende dall’amare e dall’essere amato, dal senso trovato nel vivere, da un certo benessere materiale, dunque anche dal denaro.
Sì, per alcuni il denaro è percepito come la chiave per accedere alla felicità.
Platone nei Nómoi e Aristotele nella Politeía pensano che sia naturale trarre vantaggio dalla terra e dagli animali, ma che non lo sia arricchirsi con il denaro. Allo stesso modo i profeti di Israele, seguiti dai padri della chiesa, condannano quanti prestano denaro a interesse, creando denaro con il denaro.
Questa patologia del legame con il denaro è stata definita «cupidigia» e letta come la fonte di molti mali, di enormi disastri, economici, politici e oggi anche ecologici.
Dunque il denaro è un mezzo necessario, in sé non è né bene né male: è uno strumento che esiste dal VI secolo a.C. sotto forma di moneta, che sta nell’ordine delle mediazioni e come tale permette lo scambio (allo stesso modo del linguaggio, per esempio), è «una vittoria sulla distanza» – afferma Georg Simmel nella sua Filosofia del denaro –, è un mezzo che permette di abbattere le frontiere sociali e geografiche. D’altra parte il denaro, proprio per la sua qualità rappresentativa, può essere un fine in sé, un agente di accumulazione delle ricchezze, capace di possedere una grandezza autonoma e una forza seducente. (1)
Lao Tze, il sapiente cinese fondatore del taoismo (VI secolo a.C.), racconta una storia paradigmatica, la storia di Tsi. Questi era un uomo sedotto dal denaro, avido di ricchezza. Un mattino, recatosi al mercato, vide un banco di cambio, rubò il denaro e fuggì, ma fu subito arrestato da una guardia che gli domandò: «Come hai potuto pensare di rubare questo denaro e poter fuggire inosservato?». Tsi rispose: «Mentre rubavo il denaro io non vedevo la gente, vedevo solo il denaro!».
Ecco, il denaro esercita un tale fascino che occulta la presenza di altre persone e altre cose, un fascino che accorda addirittura la forza di rubare… Sì, il denaro ci seduce, entra in noi come una presenza efficace e contribuisce in modo sordo ma reale a tessere i nostri rapporti, le nostre relazioni con le cose e con gli uomini. Io possiedo il denaro, ma il denaro mi possiede altrettanto. Il denaro ha un posto invadente nei miei desideri, decide di molti miei desideri.
Per questo nell’Antico Testamento il denaro è definito mediante la parola keseph, la cui radice verbale (kasaph) indica il «desiderare ardentemente», il vero e proprio «languire» per qualcosa. Diventa allora rivelativa la lettura del Vangelo, dove il denaro è personificato. Gesù dichiara che il denaro è una potenza, anzi è un dio: «Nessuno può servire a due signori: o odierà l’uno e amerà l’altro, o si attaccherà all’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24; cf. Lc 16,13). E si badi bene: il termine «mammona» è in opposizione a Dio, l’amore per mammona esclude l’amore per Dio. Questo è il radicalismo evangelico di Gesù. Il denaro per lui non è semplicemente una cosa che l’uomo può possedere o no: può diventare facilmente un dio, un idolo al quale sacrifichiamo facilmente la vita degli altri e alieniamo noi stessi. Lo esprime bene l’autore della Lettera di Giacomo, quando descrive il denaro come un verme che divora coloro che lo possiedono, ingannandoli e portandoli alla distruzione e, nello stesso tempo, è fonte di ingiustizia:
E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dai vermi (dalle tarme); il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore dell’universo (Gc 5,1-4).
Nel cristianesimo, inoltre, il rapporto con il denaro va letto nello spazio della possibile idolatria (cf. Col 3,5: «La cupidigia è idolatria»), e «l’idolo prima di essere un falso teologico è un falso antropologico» (Adolphe Gesché), un’alienazione dell’uomo. Non si dimentichi, in proposito, che il termine «mammona» deriva dalla radice ebraica aman (da cui viene amen), che contiene l’idea dell’aderire con fiducia, dunque della fede. Il denaro infatti chiede fede-fiducia in sé e diventa sicurezza, falsa sicurezza contro la morte, saturazione dei bisogni più veri che abitano il cuore dell’uomo, presenza potente che induce a vedere solo lui, il denaro, e a non vedere gli altri, ad agire senza gli altri e, se necessario, anche contro gli altri. Per questo le parole di Gesù sono macigni:
Non accumulate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano … Perché dov’è il tuo tesoro, là è anche il tuo cuore (Mt 6,19.21).
Ecco la domanda essenziale: dove sta il mio cuore? Qual è per me la vera ricchezza? Il denaro è per me strumento di relazione e di condivisione, e dunque di comunione con gli altri, oppure strumento di egolatria? E attenzione: Gesù non era un profeta pauperista che non toccava il denaro. Nella sua comunità c’era una «cassa comune» (Gv 12,6; 13,29), appunto del denaro messo in comune, non sottoposto al regime del «mio» e del «tuo», ma destinato alla communitas, destinato anche a chi era nel bisogno, in modo che la koinonía fosse la forma del vivere insieme. Comprendiamo allora come normante per la comunità cristiana la descrizione fatta da Luca della primitiva chiesa di Gerusalemme, nata dalla Pentecoste: “Tutti coloro che diventavano credenti … tenevano ogni cosa in comune (At 2,44)”; “Tutto tra loro era comune … nessuno era bisognoso” (At 4,32.34).
Nella storia del cristianesimo questa «utopia» è stata ininterrottamente meditata e interpretata, e ancora oggi le esigenze poste dal Vangelo non hanno perso nulla della loro attualità e del loro valore ispirante e normativo per la prassi cristiana. Se mai, occorrerebbe l’onestà di chiedersi per quale motivo siamo diventati così restii ad ascoltare queste parole, che suonano desuete agli orecchi della maggior parte dei cristiani: perché insistiamo tanto su altri aspetti dell’agire morale, mentre preferiamo essere tiepidi o addirittura tacere sulla necessità della condivisione materiale dei beni, via maestra per eliminare, o almeno attutire, il bisogno e la povertà?
La regina pecunia, il dio denaro, chiede affidamento, fiducia, sottraendoli in tal modo al rapporto con gli altri. E in questo tempo in cui – come ha scritto di recente Luigi Zoja – non solo Dio è morto, ma è morto anche il prossimo, il denaro domina e seduce più che mai. In realtà l’unico nemico capace di duellare contro la morte, l’unico capace di vincerla non è il denaro ma l’amore, l’amore dell’altro e degli altri, è la comunicazione, la condivisione, la comunione per quanto è possibile.
26 maggio 2009
La Politica dei Volti e non dei Voti
Guardare i volti della gente e non tanto inseguire i voti dei cittadini
La politica di un sistema democratico si sostiene, generalmente, dal consenso, soprattutto quello delle urne, che significa una ricerca continua di voti durante la campagna elettorale e di un rincorrere affannato ai consensi durante il governo in atto.
La politica dei voti rischia spesso di tramutarsi in una amministrazione governativa che non fa altro che inseguire quello che la gente vuole a livello di pancia e di istinto, in modo da avere il suo consenso che poi si tramuta in voto.
La pancia della gente indica il bisogno viscerale di diventare divoratori di cibo, anche se quel cibo fa male. Importante è mettere qualcosa in pancia per calmare i crampi dello stomaco, dando molta più attenzione alla quantità che alla qualità. L'istinto è qualcosa di animalesco che la persona umana è chiamata a dominare mediante la sua dimensione e facoltà etica, ossia di dare senso e valore alla vita attraverso comportamenti e scelte che si discostano dall'istinto e diventano etiche. L'istinto può essere rappresentato dal pugno che spesso viene usato come reazione istintiva nei momenti di rabbia.
Questa politica del consenso diventa followship e non più leadership, perché insegue quello che la gente vuole a livello di pancia e di istinto, e per questo incontra molto consenso in questa realtà sociale dove le paure generano sempre più arroccamenti e chiusure nelle proprie sicurezze, soprattutto economiche. Si tratta anche di un'etica della situazione e non nella situazione, ossia un'etica che viene determinata da quello che la gente vive e vuole a livello superficiale.
La politica dei volti, invece, si realizza su due pilastri molto differenti: il cuore che ci indica la strada dell'amore e la mente che ci mostra le ragioni della verità. Mentre la politica dei voti si muove a partire dalla pancia della gente che indica quello che vuole le viscere e dal pugno duro che mostra il comando del più forte.
Guardare i volti della gente è molto importante, così come hanno fatto quei marinai quando sono stati costretti a riportare gli immigrati in Libia. Osservando quei volti di gente povera ed esclusa ed ascoltando i loro clamori di disperati, rifugiati e rifiutati da questo nostro mondo, hanno affermato che si sono sentiti vergognati da quello che avevano fatto.
Osservare i volti significa capire i drammi delle persone e percepire le vere esigenze, non solamente quelle di pancia o del pugno, ma soprattutto quelle del cuore e della mente che conducono alla verità e alla giustizia.
La politica dei volti diventa finalmente leadership e non più followship, cioè capace di educare la gente e di indicare la strada verso un domani migliore per tutti, e non solamente per pochi.
La politica dei volti riscatta una vera politica, in sintonia con la polis, che significa coraggio e responsabilità di condurre un popolo, anche se all'inizio non fa audience, verso un futuro capace di offrire a tutti opportunità e condizioni di vita migliore, superando la logica del “si salvi chi può” o dei “furbetti del quartiere”, ma garantendo accoglienza, legalità e giustizia sociale a tutti, rimuovendo finalmente le cause che generano i mali della gente e non solamente alleviando i dolori.
La politica dei volti non è ossessionata dai sondaggi e non ascolta appena il brontolio della gente, ma è attenta soprattutto a quello che la gente ha veramente bisogno, a livello esistenziale ed essenziale, per raggiungere la dignità umana.
La politica dei volti mette in atto un'etica nella situazione e non più appena della situazione, ossia a partire da quello che la gente vive cerca di renderlo sempre più trasparente e significativo, trasformando il quotidiano e l'esistente delle persone e non più adeguandosi o, peggio ancora, conformandosi allo status quo.
Oggi, abbiamo bisogno di una Politica dei Volti e non più di quella dei Voti, ossia una politica che abbia coraggio e tenacia di educare la gente a passare dai bisogni della pancia e del pugno al linguaggio del cuore e alla verità della mente. Solo così riusciremo ad uscirne da questa fanghiglia politica che sta degradando sempre più la cultura della nostra gente.
La politica dei voti rischia spesso di tramutarsi in una amministrazione governativa che non fa altro che inseguire quello che la gente vuole a livello di pancia e di istinto, in modo da avere il suo consenso che poi si tramuta in voto.
La pancia della gente indica il bisogno viscerale di diventare divoratori di cibo, anche se quel cibo fa male. Importante è mettere qualcosa in pancia per calmare i crampi dello stomaco, dando molta più attenzione alla quantità che alla qualità. L'istinto è qualcosa di animalesco che la persona umana è chiamata a dominare mediante la sua dimensione e facoltà etica, ossia di dare senso e valore alla vita attraverso comportamenti e scelte che si discostano dall'istinto e diventano etiche. L'istinto può essere rappresentato dal pugno che spesso viene usato come reazione istintiva nei momenti di rabbia.
Questa politica del consenso diventa followship e non più leadership, perché insegue quello che la gente vuole a livello di pancia e di istinto, e per questo incontra molto consenso in questa realtà sociale dove le paure generano sempre più arroccamenti e chiusure nelle proprie sicurezze, soprattutto economiche. Si tratta anche di un'etica della situazione e non nella situazione, ossia un'etica che viene determinata da quello che la gente vive e vuole a livello superficiale.
La politica dei volti, invece, si realizza su due pilastri molto differenti: il cuore che ci indica la strada dell'amore e la mente che ci mostra le ragioni della verità. Mentre la politica dei voti si muove a partire dalla pancia della gente che indica quello che vuole le viscere e dal pugno duro che mostra il comando del più forte.
Guardare i volti della gente è molto importante, così come hanno fatto quei marinai quando sono stati costretti a riportare gli immigrati in Libia. Osservando quei volti di gente povera ed esclusa ed ascoltando i loro clamori di disperati, rifugiati e rifiutati da questo nostro mondo, hanno affermato che si sono sentiti vergognati da quello che avevano fatto.
Osservare i volti significa capire i drammi delle persone e percepire le vere esigenze, non solamente quelle di pancia o del pugno, ma soprattutto quelle del cuore e della mente che conducono alla verità e alla giustizia.
La politica dei volti diventa finalmente leadership e non più followship, cioè capace di educare la gente e di indicare la strada verso un domani migliore per tutti, e non solamente per pochi.
La politica dei volti riscatta una vera politica, in sintonia con la polis, che significa coraggio e responsabilità di condurre un popolo, anche se all'inizio non fa audience, verso un futuro capace di offrire a tutti opportunità e condizioni di vita migliore, superando la logica del “si salvi chi può” o dei “furbetti del quartiere”, ma garantendo accoglienza, legalità e giustizia sociale a tutti, rimuovendo finalmente le cause che generano i mali della gente e non solamente alleviando i dolori.
La politica dei volti non è ossessionata dai sondaggi e non ascolta appena il brontolio della gente, ma è attenta soprattutto a quello che la gente ha veramente bisogno, a livello esistenziale ed essenziale, per raggiungere la dignità umana.
La politica dei volti mette in atto un'etica nella situazione e non più appena della situazione, ossia a partire da quello che la gente vive cerca di renderlo sempre più trasparente e significativo, trasformando il quotidiano e l'esistente delle persone e non più adeguandosi o, peggio ancora, conformandosi allo status quo.
Oggi, abbiamo bisogno di una Politica dei Volti e non più di quella dei Voti, ossia una politica che abbia coraggio e tenacia di educare la gente a passare dai bisogni della pancia e del pugno al linguaggio del cuore e alla verità della mente. Solo così riusciremo ad uscirne da questa fanghiglia politica che sta degradando sempre più la cultura della nostra gente.
Padova, 25 maggio 2009
p. Adriano Sella
(missionario dei nuovi stili di vita)
(missionario dei nuovi stili di vita)
e-mail: adrianosella@virgilio.it
16 maggio 2009
Alvaro Aguilar Aldana dal Guatemala a Pavia
Nel suo Paese segue dodicimila famiglie povere. E’ in Italia per la prima volta
Passo dopo passo il Guatemala comincia a bussare alle porte del futuro. Potrebbe sembrare facile, ma comprensibilmente non lo è per una popolazione che troppo spesso deve pensare a sopravvivere oggi e non ha quindi tempo nè possibilità di progettare il domani. Servono persone come Alvaro Aguilar Aldana, quarantenne guatemalteco, pieno di energia da porre al servizio della propria gente ma anche uomo di grande preparazione culturale. Alvaro è laureato in teologia, sognava di diventare sacerdote ma ha dovuto rimandare l’ingresso in seminario per accudire la madre malata. Quando quest’ultima è venuta a mancare Alvaro ha capito che la sua strada non era quella del sacerdozio ma piuttosto quella di un laicato impegnato, di una vita spesa ad aiutare la gente del Guatemala a provare quantomeno a progettare il proprio futuro. Non si è sposato per scelta, proprio per potersi dedicare a pieno titolo agli altri, senza alcun tipo di vincolo. Alvaro ora è in Italia, per la prima volta in assoluto, più precisamente è ospite dell’Associazione pavese AINS (Associazione Italiana Nursing Sociale) e fino al 16 maggio gira per la provincia a parlare di sfruttamento, di lotta alla prostituzione, di microcredito, di partnerariato paritario tra associazioni di diversi continenti. Alvaro è il coordinatore regionale dei progetti di patrocinio e di adozione scolastica di cinque dipartimenti del Guatemala (El Progreso, Izabal, Chiquimuka, Baja Verapaz e Alta Verapaz) per la Cristian Foundation for Children and Aged. In concreto deve monitorare e guidare il lavoro di cinquattaquattro dipendenti della Fondazione e coordina quasi dodicimila famiglie bisognose di aiuto. Una mole ingente a cui assomma l’impegno di essere tramite per quelle associazioni straniere che aiutano il Guatemala. Tra cui appunto Ains. Il presidente dell’Associazione Ruggero Rizzini sottolinea infatti che “Alvaro è il nostro referente in Guatemala per tutti i progetti che portiamo avanti. E i fondi raccolti dalla nostra associazione finiscono sul conto della Moises Lira, di cui egli è presidente. E’ lui che coordina e segue lo sviluppo dei progetti”. La decisione di invitarlo a Pavia, quindi, è nata anche dalla volontà di presentare ufficialmente alla gente che aiuta Ains il referente dei lavori, l’uomo che gestisce e suddivide il denaro ricevuto e che gode della massima fiducia e stima da parte dei volontari di Ains. In questa sua permanenza Alvaro ha partecipato (e ancora parteciperà) a quattro seminari organizzati in collaborazione con il Csv di Pavia su temi fondamentali: microcredito, sostegno a distanza, gestione di associazioni volontaristiche in paesi poveri, partnerariato tra associazioni di diversi continenti. Farà tappa anche in alcune scuole e in qualche oratorio, ha già anche ricevuto il saluto di don Daniele Baldi, incaricato dell’Ufficio Missionario della diocesi. “Sono guatemalteco e ho deciso di mettere la mia vita al servizio della gente del Guatemala –spiega Alvaro- so di essere un punto di riferimento per loro, soprattutto nell’ambito del microcredito, quando cioè le famiglie decidono di iniziare una piccola attività e hanno bisogno della Fondazione per accedere a un credito che altrimenti non otterrebbero dalle banche”.
L’inizio è difficile per tutti, racconta Alvaro, poi però il coraggio di qualcuno diventa esempio per tanti e pian piano l’economia locale sta cominciando a muoversi. E anche i capifamiglia lentamente stanno cambiando una mentalità radicata, c’è chi non ha mai neppure rotto un uovo ed ora gestisce una panetteria ad Agua Hiel. Tanti microprogetti che si spera poter un giorno convogliare in una cooperativa di progetti, in cui si lavori e si insegni a lavorare.Il sorriso tranquillo di Alvaro racchiude la speranza di tanta gente. Gli chiediamo, nel congedarlo, che cosa l’abbia colpito in particolare dell’Italia, soprattutto di Pavia. Risponde così: “Non vedere gente armata in giro ed anche la presenza di pochi bambini. E poi i vostri supermercati, soprattutto gli scaffali dedicati al cibo per gli animali. Venendo da un Paese dove la gente muore di fame faccio fatica a capire che addirittura ci siano luoghi con alimenti apposta per cani e gatti”.
daniela scherrer- il ticino
Passo dopo passo il Guatemala comincia a bussare alle porte del futuro. Potrebbe sembrare facile, ma comprensibilmente non lo è per una popolazione che troppo spesso deve pensare a sopravvivere oggi e non ha quindi tempo nè possibilità di progettare il domani. Servono persone come Alvaro Aguilar Aldana, quarantenne guatemalteco, pieno di energia da porre al servizio della propria gente ma anche uomo di grande preparazione culturale. Alvaro è laureato in teologia, sognava di diventare sacerdote ma ha dovuto rimandare l’ingresso in seminario per accudire la madre malata. Quando quest’ultima è venuta a mancare Alvaro ha capito che la sua strada non era quella del sacerdozio ma piuttosto quella di un laicato impegnato, di una vita spesa ad aiutare la gente del Guatemala a provare quantomeno a progettare il proprio futuro. Non si è sposato per scelta, proprio per potersi dedicare a pieno titolo agli altri, senza alcun tipo di vincolo. Alvaro ora è in Italia, per la prima volta in assoluto, più precisamente è ospite dell’Associazione pavese AINS (Associazione Italiana Nursing Sociale) e fino al 16 maggio gira per la provincia a parlare di sfruttamento, di lotta alla prostituzione, di microcredito, di partnerariato paritario tra associazioni di diversi continenti. Alvaro è il coordinatore regionale dei progetti di patrocinio e di adozione scolastica di cinque dipartimenti del Guatemala (El Progreso, Izabal, Chiquimuka, Baja Verapaz e Alta Verapaz) per la Cristian Foundation for Children and Aged. In concreto deve monitorare e guidare il lavoro di cinquattaquattro dipendenti della Fondazione e coordina quasi dodicimila famiglie bisognose di aiuto. Una mole ingente a cui assomma l’impegno di essere tramite per quelle associazioni straniere che aiutano il Guatemala. Tra cui appunto Ains. Il presidente dell’Associazione Ruggero Rizzini sottolinea infatti che “Alvaro è il nostro referente in Guatemala per tutti i progetti che portiamo avanti. E i fondi raccolti dalla nostra associazione finiscono sul conto della Moises Lira, di cui egli è presidente. E’ lui che coordina e segue lo sviluppo dei progetti”. La decisione di invitarlo a Pavia, quindi, è nata anche dalla volontà di presentare ufficialmente alla gente che aiuta Ains il referente dei lavori, l’uomo che gestisce e suddivide il denaro ricevuto e che gode della massima fiducia e stima da parte dei volontari di Ains. In questa sua permanenza Alvaro ha partecipato (e ancora parteciperà) a quattro seminari organizzati in collaborazione con il Csv di Pavia su temi fondamentali: microcredito, sostegno a distanza, gestione di associazioni volontaristiche in paesi poveri, partnerariato tra associazioni di diversi continenti. Farà tappa anche in alcune scuole e in qualche oratorio, ha già anche ricevuto il saluto di don Daniele Baldi, incaricato dell’Ufficio Missionario della diocesi. “Sono guatemalteco e ho deciso di mettere la mia vita al servizio della gente del Guatemala –spiega Alvaro- so di essere un punto di riferimento per loro, soprattutto nell’ambito del microcredito, quando cioè le famiglie decidono di iniziare una piccola attività e hanno bisogno della Fondazione per accedere a un credito che altrimenti non otterrebbero dalle banche”.
L’inizio è difficile per tutti, racconta Alvaro, poi però il coraggio di qualcuno diventa esempio per tanti e pian piano l’economia locale sta cominciando a muoversi. E anche i capifamiglia lentamente stanno cambiando una mentalità radicata, c’è chi non ha mai neppure rotto un uovo ed ora gestisce una panetteria ad Agua Hiel. Tanti microprogetti che si spera poter un giorno convogliare in una cooperativa di progetti, in cui si lavori e si insegni a lavorare.Il sorriso tranquillo di Alvaro racchiude la speranza di tanta gente. Gli chiediamo, nel congedarlo, che cosa l’abbia colpito in particolare dell’Italia, soprattutto di Pavia. Risponde così: “Non vedere gente armata in giro ed anche la presenza di pochi bambini. E poi i vostri supermercati, soprattutto gli scaffali dedicati al cibo per gli animali. Venendo da un Paese dove la gente muore di fame faccio fatica a capire che addirittura ci siano luoghi con alimenti apposta per cani e gatti”.
daniela scherrer- il ticino
Ains, progetti di sostegno in Guatemala
PAVIA. Un uovo al giorno per scacciare la fame, allevamenti di pesci e panetterie contro la povertà. Ma soprattutto, la capacità di ascoltare le esigenze che vengono dal basso e di mettere a frutto le capacità che sono già presenti sul posto. E’ quello che cerca di fare Ains (Associazione italiana nursing sociale) in Guatemala. Alvaro Aguilar Aldana, coordinatore di Cristian foundation for children and aged e consulente per i progetti Ains ha portato le prove di quello che, da lontano, riescono a fare i pavesi nel Paese centramericano. In Guatemala «La fame è endemica, l’accesso alla terra è un’utopia come quello di un sistema sanitario. I narcotrafficanti reclutano giovani e vige la “democrazia”». In particolare Ains ha distribuito 140 borse di studio e ha adottato 39 bambini in un orfanotrofio, ha sponsorizzato gli studi di sei infermiere e pagato 113 banchi di scuola. Inoltre si occupa della comunità di Camotan, 49 famiglie che negli anni sono riuscite a uscire dalla spirale della povertà. «Vivevano in baracche, gli abbiamo dato il materiale e la formazione e si sono costruiti le case. Poi abbiamo organizzato degli orti famigliari e sono andati così bene che abbiamo iniziato a vendere nei villaggi vicini. Poi abbiamo dato una capra alle famiglie che si nutrivano solo di caffé e zucchero e messo un caprone nel villaggio. In cambio dell’aiuto il primo capretto nato di ogni famiglia è stato regalato da loro a un’altra famiglia». Dopo c’è stata la panetteria e il sistema d’irrigazione, e la produttività dei campi è migliorata. Il segreto di Ains? «Prima di tutto - ammonisce però Aguilar - occorre che le pance siano piene e non si debba lottare ogni giorno per il cibo»: altrimenti non si riesce a guardare al futuro. Come funzionano i microprogetti Ains? «Si inseriscono nel lavoro di Cfca che opera nelle regioni di Guastamoya, Chiquimula, Altaverapaz e Bajaverapaz, El progreso e Izabal: con Cfca prima di tutto risolviamo il problema della fame. Poi con Ains diamo alcuni strumenti o materie prime necessarie a avviare un’attività a un gruppo di famiglie. E ora stiamo partendo con il microcredito». Come funziona? «Nel progetto pilota abbiamo prestato circa 1.500 quetzales (150 euro) a ciascuno dei 15 padri che componevano il gruppo, corrispondenti a uno stipendio medio mensile».
(anna ghezzi, la provincia pavese, 16 maggio 2009)
(anna ghezzi, la provincia pavese, 16 maggio 2009)
15 maggio 2009
L'acqua del rubinetto non convince i pavesi
PAVIA. Il 53% dei pavesi beve solo acqua in bottiglia perchè non la ritiene sicura, non piace il sapore o la vuole frizzante. Ma adeguatamente rassicurati sui controlli e la qualità dell’acqua e dei rubinetti, l’ottanta per cento dei genitori dei bambini che frequentano le scuole dell’infanzia e primarie di Pavia accetterebbero l’ingresso dell’acqua del rubinetto nelle mense scolastiche e sarebbero disposti a cambiare abitudini. Si risparmierebbero così circa 3mila bottiglie di plastica al giorno e tonnellate di anidride carbonica, facendo bene all’ambiente. E’ quanto emerge dalla ricerca condotta dal Gruppo di Acquisto Solidale di Pavia sull’acqua a scuola e a casa condotta all’interno del progetto Scuole Sostenibili presentato sabato al castello durante la Festa dell’Acqua. Sono 3.999 questionari consegnati, oltre l’80% di risposte. Tutte le scuole d’infanzia (1 e primarie (13) della città bevono acqua minerale in mensa. E quando avanza dell’acqua nella bottiglia aperta? Più del 70% delle scuole d’infanzia la riportano in classe, ma la percentuale scende vertiginosamente se guardiamo alle scuole primarie (38%). La motivazione? Spiega Lorella Vicari del Gas, che ha elaborato i dati: «Alle elementari ogni bambino ha la sua bottiglietta: se non è sorvegliato la butta via. Inoltre se la lascia sul banco gli operatori sono obbligati a buttarla». La plastica è onnipresente: se durante la mensa, solo in una scuola d’infanzia (la Sante Zennaro) i bambini usano sempre i bicchieri monouso di plastica mentre prevalgono quelli di plastica dura, lavabili, il discorso si ribalta fuori dalla mensa. In classe, durante il giorno, si usano soprattutto i bicchieri usa e getta, che significano montagne di rifiuti quotidiani. Ma anche a Pavia ci sono scuole più ecologiche delle altre: Massacra, Canna, Montebolone e Maestri, per esempio, fuori dalla mensa promuovono l’acqua del rubinetto, possibilmente consumata senza sprecare montagne di bicchieri di plastica. Ma perché scegliere l’acqua potabile? Lo spiega Augusto Losio: «Le acque minerali sono controllate solo una volta all’anno se va bene, mentre quelle dell’acquedotto sono controllate settimanalmente». Eppure il 30% circa delle famiglie non si fida e chiede più controlli su acqua e tubature. Brutti ricordi di quando l’acqua di Pavia sapeva di uovo marcio e usciva di colore rossiccio? Può darsi, ma di progressi ne sono stati fatti molti: nuovi impianti, nuove tubature, e ora l’acqua di Pavia è al terzo posto sul podio delle acque più buone d’Italia nella classifica di Altroconsumo (2006). Introdurre l’acqua potabile nelle scuole, un risparmio anche economico? Massimo Brambilla, sindaco di Siziano, ha già introdotto l’acqua del rubinetto nella refezione scolastica: «Usando l’acqua potabile invece delle bottiglie abbiamo risparmiato 14.650 bottiglie l’anno per un totale di 2.700 euro. Per tranquillizzare tutti abbiamo montato dei depuratori nelle scuole (2.250 euro) e comperato nuove brocche (700 euro) aumentando un po’ il lavoro degli addetti».
Anna Ghezzi - La Provincia Pavese
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