11 giugno 2009

NON C’È FUTURO SENZA SOLIDARIETÀ TRA I POPOLI

tratto da famiglia cristiana, 11 giugno 2009

Il problema è favorire l’incontro e lo scambio tra le diverse culture, perché non rimangano estranee l’una all’altra. Va poi riconosciuto l’apporto che tanti immigrati danno alla vita delle nostre città e famiglie. Ma l’Italia è, sarà o dev’essere "multietnica"? Al presidente del Consiglio (e ai suoi alleati della Lega) questa prospettiva non piace. Contro ogni possibile fraintendimento, giovedì 4 giugno scorso, ha esplicitato il suo pensiero: «Camminando a Milano, per il numero di persone non italiane mi è sembrato di essere non in una città italiana o europea, ma in una città africana». E ha aggiunto che per rimediare a questa situazione "inaccettabile", è necessaria la politica dei respingimenti, che «ci ha consentito di non far entrare più neppure un africano in Italia». Parole forti, che hanno suscitato tante reazioni. Tra queste ce n’è una non politica ma pastorale, che vale la pena segnalare. Viene dal responsabile pastorale dei migranti della Curia milanese, don Giancarlo Quadri: «È una brutta battuta. Io sono ben contento della multietnicità di Milano, che è diventata grande e ricca grazie alla presenza di genti diverse. La presenza degli stranieri è un grande privilegio e un vantaggio per il futuro, non bisogna averne paura. A noi della Chiesa di Milano piace così e continueremo ad accoglierli». Gli ha subito fatto eco, in un’intervista televisiva, lo stesso cardinale Tettamanzi: «L’unica strada veramente umana nelle politiche migratorie è quella dell’integrazione. Quando si parte dal concetto di dignità umana, allora è possibile affrontare tutti i problemi, anche quelli del coordinamento tra le istanze di sicurezza e quelle dell’accoglienza». Oggi, tutto il Paese e non solo Milano è già, se non "multietnico", almeno "multiculturale". È un dato di fatto, vista la presenza di tanti immigrati regolari che lavorano, pagano le tasse e sostengono la nostra economia. Il problema, semmai, è altro: passare dalla "multiculturalità" alla "interculturalità", cioè dalla giustapposizione di culture diverse che rimangono estranee (anche con il rischio di scontri) all’incontro, al confronto e alla collaborazione tra queste culture. È il tema dell’integrazione, sul quale moltissimo resta da fare in Italia. E che si risolve con un’intelligente apertura allo straniero: quello che è già tra noi, e quello che potrà venire, perché ha diritto di chiedere asilo. Non c’è futuro senza solidarietà (Edizioni San Paolo) è il titolo dell’ultimo libro del cardinale Tettamanzi in cui si invita a «riconoscere l’apporto che tanti immigrati danno alla vita delle nostre città e delle nostre famiglie. Come non chiedere che – assieme ai vantaggi che vengono a noi dalla loro presenza e attività – si giunga presto a riconoscere i loro giusti diritti e a migliorare le loro condizioni di lavoro?». Si è appena votato il nuovo Parlamento europeo, che tanta incidenza ha nella nostra vita quotidiana, anche se poco se n’è parlato in campagna elettorale (basti solo pensare che il 70 per cento delle leggi nazionali dipende dalle direttive europee). Anche il tema dell’immigrazione dev’essere affrontato con una politica organica (comunitaria), in sintonia con l’Onu che, da tempo, sollecita i Paesi occidentali a impegnarsi di più nella cooperazione con i Paesi poveri, destinando loro lo 0,7 per cento sul Prodotto interno lordo (l’Italia è ferma a poco più dello 0,1).
Nota finale: paragonare Milano a una città africana è anche ingeneroso se non ingiusto, soprattutto nei confronti di quei Paesi africani che, con il loro voto determinante, hanno permesso a Milano di vincere la sfida con la città turca di Smirne per l’assegnazione dell’Expo 2015. I nodi problematici del Paese non si sciolgono con le battute.

7 giugno 2009

bomboniera swing

Ogni tanto nella vita
camminando insieme al tempo
si sofferma una cometa
di regale portamento

apre il cielo alla tua storia
questo è il suo insegnamento
tanta festa, gran baldoria
per l'insigne appuntamento.

Una Nascita o un Battesimo
una Santa Comunione
una Laurea da brivido
...dopo la Confermazione.

La cometa, se ispirata
lancia dardi senza sosta
e l'Amore a prima vista
si scatena lancia in resta

e la soglia dell'altare
della chiesa cattedrale
(o la scala del Comunedalla foggia popolare)
son raggiunti con stupore
dagli amanti in grande stile.

Se un senso poi vuoi dare
alla bella ricorrenza
un presente va donato
agli amici d'eccellenza.

Ecco a voi la soluzione
et voilà!, la Bomboniera
preparata con passione
vero simbolo e bandiera

di una scelta razionale
ma dal cuore solidale
e insieme voi gioite
con le bimbe di Mazate.

Il confetto garantito
d'equita è rivestito
la dolcezza e appoggiata
s'una stoffa colorata

come chiosa un naso rosso
dei pagliacci stravaganti
una verve da mare mosso
rende i cuori arcicontenti

e alla fine della conta
di mirabile cadenza
ti ritrovi più arricchito
da un bel gesto...assai forbito!!!

e.c., 13 Maggio 2009

6 giugno 2009

In Messico, fra gli immigrati clandestini che sognano il Paradiso Nordamericano

Aspettando la Bestia, il treno dei desperados
di Ettore Mo
il corriere della sera

ARRIAGA (Chiapas, Messico) — L'immigrazione clandestina non costituisce più un reato: così ha stabilito il governo federale del Messico con una legge entrata in vigore l'estate scorsa. Allo stesso tempo le cronache informano che ogni anno 150 mila stranieri vengono inflessibilmente deportati nei Paesi d'origine. Qui, nello Stato del Chiapas inondato da legioni di centro-americani del Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua, il clima è torrido. Tutta questa gente s'è data convegno nella città messicana di Tapachula e, soprattutto, di Arriaga per intraprendere la prima fase del lungo viaggio verso la frontiera settentrionale che si dovrebbe concludere, successivamente, nei paradisi urbani del Nord America: luoghi che si pronunciano con ansia e venerazione, come San Diego, Los Angeles, Las Vegas, Miami, New York. Un sogno che, presumibilmente, solo pochi riusciranno a realizzare. A me, purtroppo, è consentito solo di raccontare le ansietà, la pazienza, gli isterismi, gli scazzi e anche una non vaga sensazione di angoscia nelle ore che precedono la partenza del treno-merci che da Arriaga porta a Ixtepec tonnellate di cemento. Perché il protagonista della vicenda è proprio il convoglio che ormai tutti chiamano La Bestia: definizione che non si merita, data la sua totale e incontestabile innocenza. È infatti l'inconsapevole strumento di una tragedia umana che si consuma ogni giorno sui tetti infuocati dei suoi vagoni: presi quotidianamente d'assalto da migliaia di disperati che strappano un «passaggio» verso il Nord, convinti che solo lì si possa trovare un lavoro e conseguire una minima possibilità di sopravvivenza. Non può quindi sorprendere la tenacia di un ragazzo che sta per ore sotto il sole a una temperatura che tocca i 40/45 gradi in attesa dello sbuffo nero della locomotiva e così giustifica la sua pazienza quando gli chiedi dov'è diretto: «Come tutti gli altri — risponde —, io sto andando dove ci sono i dollari». Insieme al fotografo Luigi Baldelli, ho vissuto per ore l'illusione e l'inquietudine di questi giovani (e meno giovani) emigranti nel momento di avventurarsi verso l'ignoto. La notte dormono accucciati sulle cataste di legno nero o sull'erba nana delle rotaie abbandonate. Nella vicina Casa del Migrante c'è sempre un pasto caldo, ma nessuno ne approfitta, anche se lo stomaco vuoto rumoreggia, per il timore che La Bestia si metta improvvisamente in marcia lasciandolo solo in quello straccio di terra che diventerà il suo Limbo permanente. «Nel mio cervello ormai — dice un ragazzo fuggito da El Salvador — non c'è spazio che per il treno». E automaticamente si porta la mano alla tempia e l'accarezza con le dita come sentisse le vibrazioni dello stantuffo e fosse già in corsa verso la terra promessa. Due guatemaltechi — 34 il primo, 20 il secondo — vorrebbero tornare in California, a Sacramento, da cui vennero deportati solo un anno fa. Ma sono rimasti senza un soldo. «Gli ultimi dollari — confidano — li abbiamo dati ai polleros e ai coyotes che ci hanno aiutato a varcare il confine meridionale del Messico».Ancora più drammatica la vicenda di George che, dopo due anni di carcere, venne deportato dall'Alaska, accusato di violenze domestiche contro la moglie: «Tutta colpa mia — ammette —: vorrei tornare per chiederle perdono, a lei e ai nostri figli. Sono di El Salvador, dove ho combattuto nella guerra civile. Ho raggiunto il Messico attraverso il Guatemala, quasi sempre a piedi. Sono su questo binario da quattro giorni. Ho fame, è vero, ma è meglio morir di fame che perdere questo treno». Come per tanti altri, George ha lasciato il suo Paese per ragioni politiche e sfuggire a un regime che definisce «intollerante, barbaro, oppressivo».L'attuale dramma dell'emigrazione — sostiene Mercedes Osuna, nostra solerte accompagnatrice nei territori del Chiapas — dev'essere attribuito in gran parte alle condizioni socio-politiche dell'America Centrale: ognuna delle sue quattro Regioni è afflitta «dalla povertà e dalla disoccupazione». Opinione pienamente condivisa da Padre Battista Scalabrini (di cui parleremo diffusamente nella prossima corrispondenza), che accusa quei regimi di «costringere la propria gente ad emigrare e se ne lava le mani». Se si parla di frontiere, il presidente dell'Associazione Avvocati del Chiapas, José Manuel Blanco Urbina, ritiene che quella tra Guatemala e Messico sia «molto più pericolosa» di quella fra Messico e Stati Uniti. «Intanto lassù — precisa — c'è molto più controllo che lungo i 970 chilometri del nostro confine meridionale fluviale col Guatemala, filtrabilissimo, coi traghetti che fanno indisturbati la spola tra una sponda e l'altra».Un taccuino, il mio, che s'è riempito in questi giorni di tragedie, grandi e piccole. C'è la storia di Mario Justino Alonzo Miguel, 22 anni, ricoverato all'Albergo Buen Pastor di Tapachula. La gamba destra gli è stata tranciata dal treno in corsa sotto il ginocchio, quando, come tanti altri suoi compagni, era piombato sfinito sulle rotaie. Si era imbarcato sulla Bestia il 29 agosto di quest'anno e sognava di raggiungere la sua famiglia a Los Angeles. Un sogno brutalmente spezzato e infranto nel sangue. Ora sta seduto sulla sedia accanto al suo lettino d'ospedale e racconta senza enfasi e con una certa riluttanza di quel «piccolo» incidente che gli impedirà per sempre di trascorrere un'esistenza normale. Anzi, al contrario, è carico di un sentimento di sfida e di rivincita: che conferma, saltellando sulla gamba «buona», come se niente fosse. «Amico mio — dice stringendomi il braccio con la mano —, ci puoi contare. Io a Los Angeles ci tornerò! La considero la mia città e non c'è alcun altro luogo al mondo dove voglia e possa vivere. Ci andrò anche se mi tagliassero l'altra gamba».Ma c'è pure chi soccombe alla seduzione del sogno americano. A Ciudad Hidalgo, sulla sponda del fiume Suchiate, confine liquido tra Guatemala e Messico, tocca ai ragazzi dei traghetti informarti sul flusso dei turisti o sul traffico, altrettanto importante, delle merci: e nessuno potrebbe escludere che in mezzo a tanta povera gente in cerca di lavoro potrebbero transitare consistenti partite di droga a reciproco beneficio di « drug dealers » di ambedue le contrade e dei barcaioli che, in questo caso, sparano tariffe siderali. Mario Morales, 18 anni, ha cominciato a lavorare sui «gommoni» del Suchiate quando era un bambino di otto e non sembra avere alcun motivo per lamentarsi della propria esistenza. Però il ricordo dell'America è una spina costante nel suo cuore. Ma finora ha sempre respinto l'invito degli zii, che lo vorrebbero di nuovo a Dallas, nel Texas, dove ha vissuto tre anni della propria infanzia. Ai suoi coetanei, increduli e allibiti, che farebbero la strada a piedi pur di sbarcare nel pianeta Usa, spiega con semplicità le sue ragioni: «Qui — dice — mi trovo a mio agio, sto fra la mia gente, ne parlo la lingua e, soprattutto, non saprei rinunciare alla tortilla, che è il mio piatto preferito e ha il sapore della mia terra». Cammino su e giù per gli acciottolati di San Cristóbal de Las Casas, che è l'essenza del Messico, con le sue case arroccate su uno sperone di montagna a oltre duemila metri. Sono giorni di festa per la Virgen morena di Guadalupe, con fiumane di gente in marcia sulla scalinata del Santuario che sembra inaccessibile, stagliato così com'è con le sue cupole bianche contro un cielo che più azzurro e limpido non potrebbe essere. Siamo travolti da una liturgia festosa biblica e pagana che accomuna il suono delle chitarre, delle trombe e dei mortaretti agli inni religiosi e alle canzoni eroiche e agrodolci della rivoluzione di Pancho e Zapata, dove si canta di un soldato che nella guerra ha perso il suo amore, Adelita. Quando, tantissimi anni fa a Madrid, ricordai quei pochi versi e quelle poche note a Dolores Ibárruri, alla «pasionaria» e indomita «sardinera » delle Asturie che s'era ribellata al regime di Franco alla fine degli anni Trenta («No pasarán ») vennero le lacrime agli occhi.Ben lontana dallo scenario cruento della guerra di Spagna, Arriaga sta tuttavia vivendo ore di tensione. Dopo che l'uragano Stan distrusse completamente, nel 2005, la linea ferroviaria che da Tapachula conduce fino a qui lungo la costa del Pacifico, questa località è diventata uno dei «passi» più transitati dagli emigranti del Centro America. Che qui devono per forza confluire, se vogliono abbarbicarsi al solo treno, La Bestia, che li potrebbe in qualche modo avvicinare a Città del Messico. Da dove, comunque, la terra promessa è ancora lontana anni luce: distanza che presuppone una riserva di spirito e pazienza pari a quella che animava, nel Medio Evo, i pellegrini in marcia verso i Santuari di Canterbury e Santiago de Compostela. Assicurarsi un posto sul treno ad Arriaga resta quindi il primo impegno di qualsiasi aspirante- emigrante. Sembra non esserci conflitto diretto tra i vari gruppi e le varie nazionalità in attesa dell'arrembaggio. Si ha tuttavia l'impressione, dalle voci che corrono, che quelli dell'Honduras rappresentino la compagine più compatta e determinata, contro cui è opportuno coalizzarsi. Li definiscono «catracho», gente dalla testa dura, pugnaci, pronti a menar le mani. Definizione che trova conferma in uno dei primi che s'è arrampicato sul treno e dice subito con un ghigno di sfida a chi lo guarda dal basso in alto: «Io ho dodici fratelli e alcuni di loro sono già stati negli States, dove quei bastardi dagli occhi azzurri degli Yankees li hanno arrestati e deportati. Adesso è venuto il mio turno e non mi tiro indietro». Per l'avvocato Urbina, l'emigrazione rimane il problema più grave del Messico e riconferma che il flusso di clandestini del Centro America negli Stati Uniti si aggira sui 150 mila l'anno. Sulla parete, nella Casa del Migrante di padre Rigoni, è appeso un cartello dove sono indicati i percorsi e le distanze che gli eventuali emigranti dovrebbero coprire per arrivare a destinazione. Cifre da brivido. Per giungere nella Grande Mela, New York (forse la più ambita), occorre coprire 4.375 chilometri; 2.930 per Houston; 3.678 per Chicago, e via pedalando. Non sono in grado di stabilire quanta strada dovrà fare George, se mai tenesse fede al suo proposito di tornare in Alaska per rappacificarsi con l'adorata consorte. Un risvolto allarmante, e insieme commovente, riguarda il mini-esercito di ragazzini e adolescenti che, lasciati a casa coi nonni, vorrebbero ora raggiungere i genitori stabilitisi definitivamente in America. A noi anziani torna subito in mente il racconto strappalacrime di De Amicis nel Cuore, Dagli Appennini alle Ande: ma anche in questi casi di ricongiungimenti familiari ci sono procedimenti e meccanismi legali estremamente complicati che ritardano e rinviano le soluzioni, provocando interminabili angosce.Se Arriaga è la porta d'ingresso — per quanto distante — alla Holy Land degli Stati Uniti, Tapachula (270 mila abitanti) è la prima tappa d'obbligo per chi voglia tentare quella straordinaria avventura. La ricostruzione della linea ferroviaria devastata dal ciclone Stan e ora ad una ditta cinese (gli operai sono già al lavoro con un salario di circa 40 dollari al giorno) contribuirà a rianimare la città che è stata sempre un grosso centro commerciale. Come ovunque, il narcotraffico (frenetico ma invisibile) convive con lo squallore, visibile, dei mendicanti e dei marciapiedi ingombri di larve umane. E il continuo flusso migratorio dal Centro America aggrava problemi già gravi. «Tapachula — dice il delegato dell'Ufficio Emigrazione, Jeorge Umberto Yzar — è un luogo di intenso conflitto. Tre autobus al giorno, ciascuno con più di 30 persone a bordo, deportano i clandestini, ragazzi, ragazze e adulti, nel loro Paese d'origine ». Un altro problema che turba gravemente la vita urbana è quello dello sfruttamento sessuale dei bambini, in continuo aumento, a un punto tale da definire la città «la capitale della prostituzione infantile del Messico». La corruzione dilaga a tutti i livelli, dai ministri ai bidelli di scuola, mentre la polizia locale è ritenuta «la più corrotta del mondo». Poco aggiunge, per definire le dimensioni del degrado incontenibile del luogo, una visita al Basurero Municipal, l'immondezzaio pubblico: una discarica immensa dove 150 camion al giorno travasano rifiuti, contesi da cani e da stormi famelici di falchi, corvi, avvoltoi. Una signora ci lavora dall'alba al tramonto raccogliendo bottiglie di plastica e pezzi di latta per un salario giornaliero di pochi dollari. Mercedes, la nostra guida, ci fa notare che la donna profuma di gelsomino: ma non è per vanità, aggiunte «è per scacciare il cattivo odore della spazzatura che le è penetrato nella pelle». Il solo dato positivo in questo dramma immane dell'emigrazione è che le rimesse degli emigranti negli Stati Uniti alle loro famiglie costituiscono un forte impulso economico per i Paesi boccheggianti del Centro America. Nel 2006 ad esempio — ha rivelato un esperto del mondo finanziario internazionale — il totale delle somme mandate in Honduras dai suoi lavoratori all'estero equivaleva a un quinto del prodotto lordo nazionale. Pecunia non olet — sentenzia imperturbabile il saggio di turno - , il denaro non puzza: anche se arriva dalle auree riserve degli Yankees del Nord America.

La Festa del Documentario consacra «La tierra» della pavese Miranda

SABATO, 06 GIUGNO 2009
LA PROVINCIA PAVESE

PAVIA. Si è conclusa con la vittoria di «La tierra sin mal» della regista Anna Recalde Miranda la quarta edizione della Festa del Documentario «Hai Visto Mai?», diretta da Luca Zingaretti a Siena. Il documentario della regista pavese, girato nel corso di un anno trascorso in Paraguay, racconta la storia di Fernando Lugo, primo vescovo ad essere eletto Presidente della Repubblica nella storia della democrazia e, sembra dire il documentario, unica speranza nella costruzione della «tierra sin mal» (il paradiso in terra per gli indios guaranì) in Paraguay. La motivazione data dalla giuria? «Riesce con un taglio politico ad intrecciare racconto, emozioni e contenuto sociale». Anna Recalde Miranda, telecamera in mano e un biglietto per il paese natio di suo padre in tasca, ha saputo raccontare un Paraguay poco presente nei media alla svolta dopo 35 anni di dittatura e 18 di «democrazia» guidata dal Partido Colorado che aveva però appoggiato la dittatura. Il documentario premiato passerà sugli schermi della Rai. La regista, che adesso si trova a Roma, ha appena terminato di montare unitamente a Nicola Grignani un documentario sui diritti umani in Guatemala, commissionato da Ains e finanziato anche dal CSV di Pavia.

(anna ghezzi)

5 giugno 2009

hai visto mai

anna recalde ha vinto con il documentario “La tierra sin mal”, il festival "HAI VISTO MAI", la cui quarta edizione si è tenuta a Siena.
del festival è direttore artistico Luca zingaretti.
è un'importante riconoscimento in quanto Anna ha appena terminato di montare insieme a nicola grignani il documentario sui diritti umani in guatemala, commissionato da ains e finanziato anche dal CSV di Pavia.

buona lettura

HAI VISTO MAI: I VINCITORI
Vince “La tierra sin mal”. La parola alla regista Anna Recale Miranda e al direttore artistico Luca Zingaretti.
(Dalla nostra inviata Giovanna Barreca)

02/06/09 - Zingaretti, direttore artistico della festa del documentario “Hai visto mai?”, ha ribadito più volte di aver scelto Siena perché “in un posto ricco di bellezze architettoniche, dove si mangia bene e si vive bene, le idee circolano meglio” e nel meraviglioso complesso monumentale di Santa Maria della Scala, sede della manifestazione, l’emozione dei sei documentaristi in attesa nel responso della giuria, insieme ad un pubblico che ha invaso la sala, è palpabile. Per diversi di loro, il passaggio in Rai del film vincitore e i diecimila euro sono la possibilità di una grande affermazione per un lavoro al quale hanno dedicato tempo, energie e spesso denaro visto che molti come Anna Recale, Romano Montesarchio, Francesco Cannito e Luca Cusati sono partiti senza avere alcun sostegno produttivo.
Il primo premio assegnato è quello di un sponsor. Premio Vino e Giovani – Enoteca Italiana, che viene assegnato alla regista Frediana Fornari “per la regia sicura che sottrae emozioni e retorica raccontando la rabbia di un Paese” recita la motivazione. Dall’inizio della cerimonia Zingaretti aveva preannunciato che la giuria, formata da Carlo degli Esposti, Laura Delli Colli, Donatella Finocchiaro, Alessandro Piccini, aveva discusso parecchio. Poi la giornalista Laura Delli Colli svela che “una parte della giuria voleva porre attenzione ad una stile di regia più cinematografico e l’altra anima invece voleva premiare una narrazione più in stile giornalistico, volto ad approfondire alcuni problemi un po’ più vicini”. Così la sorpresa di una Menzione speciale del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematogrofici assegnata a “La domitiana” di Romano Montesarchio (mille euro messi a disposizione dal festival). Il riconoscimento come miglior documentario è andato, invece, a “La tierra sin mal” di Anna Recale Mirando. Motivazione: riesce con un taglio politico ad intrecciare racconto, emozioni e contenuto sociale.
La giovane regista quasi saltella dalla gioia e sul palco, ma anche in un breve scambio di battute con noi alla fine della premiazione, il suo primo ringraziamento va al montatore Andrea Gandolfo “la struttura narrativa è lui ”. C’è l’orgoglio di nominare chi c’era dall’inizio di questo viaggio autoprodotto, telecamera in mano e un biglietto per il paese natio del suo babbo nella tasca. Mezzi leggeri e tanto coraggio per decidere di raccontare un Paraguay poco presente nei media, uno stato profondamente povero, con un’economia basata ancora sull’agricoltura. Un paese del quale Anna ha potuto documentare un’importante svolta storica: dopo 60 anni (35 di dittatura militare e 18 di corrotto governo del partito colorado che aveva appoggiato anche la dittatura) Fernando Lugo diventa presidente della Repubblica. L’ex vescovo rappresenta l’unica speranza nella costruzione di quella “terra senza dolore”: espressione che gli indios guaranti usavano per designare il paradiso in terra, un’utopica terra di pace e giustizia. “Il cambiamento sarà soprattutto per gli indios, sarà per i contadini ai quali Lugo ha promesso una riforma agraria seria (impossibile prima quando al potere c’erano i terratenenti)” – spiega Anna, raccontandoci quello che è visibile anche osservando con attenzione le sequenze girate con grandissima fermezza e lucidità. “Quando sono arrivata ero sicura che avrebbe vinto Lugo perché mi dicevo che la gente era stanca, ma poi mi sono resa conto che il macchinario dello stato era pesante, che i brogli erano una realtà e ho temuto seriamente che non potesse farcela”. Anche a livello internazionale la situazione è rimasta incerta fino alla fine, l’ambasciata americana temeva così fortemente il post voto che consigliò a tutti di fare provviste. Episodio confermato dalla regista, che ci racconta perché durante il primo discorso di Lugo dopo la vittoria ha deciso di sfumare sul dislay che confermava l’accettazione del responso delle urne da parte della signora Olivar: “Era fondamentale mostrarlo: se lei non avesse riconosciuto la sconfitta probabilmente il suo partito avrebbe organizzato un sollevamento popolare”. Bisogna anche sottolineare che il racconto della campagna elettorale è risultato così coinvolgente grazie all’inserimento di punti di vista di persone che avevano un passato che potesse esplicitare il presente come Martin Almada, vittima della dittatura che scoprì l’archivio del terrore e che da anni si batte perché le atrocità della dittatura vengano riconosciute e condannate, e Guillerma Kanonioff che la dittatura rese vedova a soli 21 anni, oggi segretaria generale del movimento popolare Tekoyoya che ha appoggiato il nuovo presidente. “Senza Martin e Guillaema non sarei riuscita a far capire davvero cosa stata rappresentando questo cambio”. E’ strafelice Anna del futuro passaggio in Rai perché trova imbarazzante che un genere denso e profondo com’è il documentario non trovi spazio nel nostro paese: “Fa bene alla testa, permette alla testa della gente di evolvere”.
Alla fine della cerimonia abbiamo la possibilità di scambiare anche due considerazioni con il tenace direttore artistico Luca Zingaretti che ha chiuso la cerimonia invitando tutti all’edizione 2010 “quella che sancirà la senesità di questa festa, quella che cercherà di radicarsi ancora di più sul territorio non solo nei giorni della manifestazione ma durante tutto l’anno con la nascita di diverse iniziative”. Sollevato e felice perché il suo “Festival in jeans” è una fucina di idee in evoluzione “dove il contributo di tutti è fondamentale”.
MENZIONE DOCUMENTARIO - “La Tierra sin mal” di Anna Recalde Mirando Perché riesce con una complessa struttura narrativa e un taglio anche politico a intrecciare racconto, emozioni e contenuto sociale.

1 giugno 2009

Ong prendetevi una pausa

Considerazioni e provocazioni sulla cooperazione di un volontario che da lunga data lavora nei paesi poveri

di Massimo Serventi

Scrivo alcune riflessioni che sto maturando da tempo. L'esperienza di lavoro in Sri Lanka(nota 1) con una delle tantissime ONG che 'volevano' aiutare nel post-tsunami ha rinforzato un'opinione generale che avevo in pectore. Divento ogni giorno piu' convinto che l'approccio delle ONG in ambito di cooperazione sia sbagliato. ONG tutte, estere ed italiane, quella per cui lavoro oggi inclusa. Credo che il sistema "intervento a progetto" sia da abbandonare o comunque da rivedere. Credo che i Paesi poveri necessitino di danaro e infrastrutture piu' che della presenza di espatriati e di ONG. Voglio commentare i passaggi di un intervento a progetto. L'ideazione e la stesura di un progetto Non e' vero (io in 25 anni di lavoro in Africa non l' ho mai visto tale) che un progetto venga concepito e scritto con la controparte locale. Affermarlo equivale a dire una bugia. L'iter di progetto e' un altro: la ONG viene a conoscenza che in un determinato settore o area geografica ci sono dei bisogni (anche logici...nel mare delle necessita' di un Paese povero), si fa 'sotto'(spesso e' gia' conosciuta dalle autorita' locali per precedenti progetti) e promette di interessarsi. Deve cioe' trovare il finanziatore. Il progetto sara' ideato e strutturato in Italia (non in Africa) con l'attenzione di adattarlo alle preferenze del finanziatore (oggi 'tira' molto la 'lotta alla trasmissione HIV' per la quale c'e' una massa enorme di danaro a disposizione).Vengono raccolti un po' di dati in loco, si organizza magari una visita di 2 giorni con colloqui e raccolta di notizie e si torna in Italia per 'buttare giu' il progetto. La stesura di progetto impiega notevoli risorse di tempo, danaro e persone che lo sanno fare. Costoro sono ricercati dalle ONG come il pane e si capisce perche': da come e' scritto un progetto (in un buon inglese, con le parole 'di moda',con la struttura richiesta) dipende la sua accettazione da parte del finanziatore. Ossia dipende la sopravvivenza della ONG che appunto sta in piedi se continua ad avere progetti approvati( il 7% dei budget e' previsto che vada alla voce 'amministrazione in Italia'). Quando il progetto sara' pronto e felicemente approvato per il finanziamento esso verra' presentato alla controparte locale che immancabilmente lo accettera', in tutte le attivita' previste. In altre parole la musica e la danza sono decise da chi ha i cordoni della borsa. Non mi pare che fino a qui ci sia tanta differenza fra una ONG e una ditta che fa una diga e presenta la sua offerta-proposta di intervento. I contenuti Un progetto- tipo ha una vita di 2 o 3 anni. Rinnovabili, ma non sempre. Ce ne sono anche di 6 mesi(!). Come sia possibile in un tempo cosi' breve provocare un cambiamento non se lo chiede nessuno. Un progetto-tipo beneficia di un budget che spesso supera quello che ha la controparte per il normale espletamento di un servizio , della salute per esempio, in un determinato distretto (pur sempre non si omette mai di scrivere che il progetto e'e sara' sostenibile....). Se oltre a quella ONG ce ne sono altre operanti nello stesso settore si capisce quanto disturbo il tutto rechera' all'amministrazione locale. Il danaro che pro-viene dall'esterno provochera' non poche ripercussioni nel tessuto sociale del posto, tipo aumento del prezzo degli oggetti sul mercato locale(inflazione), appetiti e corruzione fra i leaders, fuga di quadri qualificati dalla struttura pubblica verso la ONG che paga meglio, disaffezione al lavoro di coloro che non hanno la fortuna di essere impiegati dalla ONG, disturbo e confusione recati all'amministrazione locale(spesso debole) che deve continuare a con-vivere con il budget di sempre e si trova a dirigere/controllare le attivita' di ONG straniere. Questo disagio si acuira' alla fine del progetto, quando fondi e mezzi improvvisamente non ci saranno piu' e si dovra' ritornare alla penuria di sempre. Sostenibilita' e' una parola chiave che pero' non trova riscontro nella realta'. Chi poi ha lavorato per la ONG non si ri-adattera' piu' a lavorare nel settore pubblico del suo Paese, una perdita secca di risorse umane. La Stesura del progetto. Un progetto-tipo viene formulato secondo gli schemi classici : obiettivi,risultati attesi,attivita previste,risorse impiegate,monitoraggio e valutazione. Se non reca il quadro logico esso ha poche possibilita' di successo,ossia di essere finanziato. Sulla carta tutto fila liscio, tutto sembra...logico. Nella realta'gli obiettivi sono quasi sempre disattesi (come si puo' raggiungerli in soli 2/3 anni di presenza!?) , i risultati attesi sono anche essi non raggiunti, le attivita' previste sono scelte e condotte dalla ONG e ben poco dalla controparte, le risorse impiegate sono sproporzionate al contesto di poverta' generale del posto, il monitoraggio e valutazione ...sono semplicemente non eseguiti, oppure raffazzonati alla meglio per salvare la faccia presso il finanziatore(vita vissuta, di anni). Trovo ben poco 'logico' questo modus operandis. Gli espatriati Nel corso del progetto gli espatriati spesso fanno dell'esecuzione delle attivita' in tutte le loro componenti l'obiettivo principale del loro operato, la giustificazione del loro esserci.Questo perche' dalla sede in Italia arrivano calde raccomandazioni a seguire accuratamente le voci di progetto, a stare nel budget(assolutamente!) pena i rimproveri da parte del finanziatore e la possibile squalificazione per progetti futuri. Non si riflette che altri sono i risultati a cui tendere, che lo sviluppo e' un processo globale, in continua evoluzione, che deve passare attraverso un cambiamento endogeno e prevedere dunque risorse umane e materiali locali.(nota 2) Progetto dunque che diventa un corpo estraneo, che ha un budget sproporzionato, che ha vita limitata: non stupisce che la controparte locale lo 'subisce' e alla fine di esso tutto ritorna come prima(quanti ne ho visti!). Per poi lamentare il fatto che 'via noi tutto si e' guastato'. Ammesso che servano e/o che servano tutti quelli inviati lo stipendio degli espatriati , i loro benefici e condizioni di vita non c'entrano nulla con il 'lavoriamo con l'Africa'. Non pochi missionari dicono che la dizione 'lavoriamo grazie all'Africa' sia piu' giusta.(Nota 3) La si giri come si vuole, che la vita in Europa costa cara, che si e' lasciato un lavoro piu' remunerativo, che ciascuno e' libero di aiutare l'Africa con il suo stipendio, che al ritorno si avranno difficolta' economiche e di lavoro....il fatto resta, ossia che stipendi 15-20 volte superiori a quelli degli omologhi locali sono un vero paradosso se poi ci si vanta di essere 'volontari' o comunque di condividere la vita e il lavoro con i colleghi locali. C'e' differenza fra chi lavora per una ONG e chi lo fa per una ditta? Non mi pare e di certo tale differenza non e' percepita dai locali ( che tra l'altro ben conoscono l'ammontare degli stipendi dei 'volontari'). ONG uguale ditta...potrebbe suonare provocatorio ma resta solo la dizione di 'non-profit' a distinguerle. La concorrenza che si fanno le ONG e' cosa nota, ci si confronta sul numero dei progetti approvati in corso e/o sul budget annuale complessivo. Non-profit....pur sempre una ONG impiega personale in Italia ( un buon impiego,sicuro) trova lavoro all'estero a giovani disoccupati(vero!), fa 'profit' attraverso continui finanziamenti e donazioni da privati che mantengono tutti al caldo. Ho conoscenza di progetti dove il 60% del budget era per la voce 'stipendio agli espatriati', uno di essi ero io. Ci si aggiungano i costi delle assicurazioni, dei viaggi AR, delle missioni di valutazione, delle case e uffici in loco, della gestione in Italia e si arriva ad oltre il 75% del budget totale, soldi di cui i poveri ,che si dice di voler aiutare, neppure vedono il colore.(nota 4) Le alternative Fossi un leader africano accetterei solo espatriati pagati dalla (mia) struttura pubblica. Alla pari quindi degli omologhi locali.(nota 5) Li impiegherei laddove ho dei buchi, delle necessita'di copertura di un servizio. Se nessuno verra' a queste condizioni sapro' trovare alternative in loco, in altri Paesi africani per esempio. Fossi un leader locale e avessi bisogno di un intervento dall'esterno in una determinata area o settore impiegherei ONG (Internazionali ma anche locali) per attivita', piani di azione, programmi che i miei esperti hanno individuato e quindi pianificato. Impiegherei una ONG come farei con una ditta che (mi) fa strade. Essa dovra' agire nel pieno rispetto delle condizioni da me poste, con penali in caso di non aderenza. Darei la priorita' a ONG locali, quelle valide, di provata fiducia. Ho conosciuto alcune di queste ONG locali: l'impatto e' piu' incisivo di quello delle ONG straniere.(nota 6) Conoscere la cultura locale, la storia, le dinamiche socio-politiche, essere neri fra i neri, conoscere il contesto ha indubbiamente un valore aggiunto. Fossi un leader locale cercherei di centralizzare e standardizzare i programmi, gli interventi globali. Per esempio mi prenderei in carico il programma di lotta all'AIDS, e non lo lascerei in mano alla gestione di una miriade di ONG straniere.(nota 7) Allo stesso modo come avviene da anni per il programma di vaccinazioni che e', si , finanziato dall'esterno ma gestito interamente dalla struttura locale. Fossi un leader africano cercherei di creare delle scuole locali per manager di settore.Chiederei ai donors di aiutarmi in tal senso. Scuole con docenti locali, incentivati, che conoscono le molteplici realta'e dinamiche sociali del loro Paese, che sanno essere innovativi e introdurre strumenti di management piu' adeguati al contesto, senza dover sempre e comunque seguire i dettami della intellighentia internazionale, come e' avvenuto fino ad oggi. Fossi una ONG italiana farei una pausa (lunga) di riflessione .Cercherei di leggere i tempi che sono mutati. Oggi i Paesi poveri hanno formato quadri professionali adeguati a condurre in porto progetti e/o interventi : diventa un paradosso inviare medici,ingegneri,agronomi espatriati laddove medici,ingegneri,agronomi locali emigrano in altri Paesi(spesso i nostri!) in cerca di salari migliori. Cercherei di capire e convincermi che lo sviluppo parte e si autoalimenta all'interno delle coscienze locali, si manterra' nel tempo solo se la struttura e amministrazione del posto saranno intervenute attivamente. Terrei presente che gli africani hanno ancora nel sangue il ricordo del periodo coloniale, quando furono forzati a perseguire il loro sviluppo. Via, si aprano gli occhi e si abbia l'onesta' di ammetterlo, ci accettano in casa loro in quanto portatori di beni,danaro e mezzi che lasceremo alla nostra partenza. In 25 anni posso dire di aver conosciuto solo 2-3 espatriati che furono accettati come veri portatori di valore e beneficio intrinseci aggiunti, uno di essi purtroppo non sono io. Fossi un ente finanziatore cercherei di essere veramente dalla parte dei Paesi poveri, con onesta' intellettuale. Richiederei certo di osservare le regole di buona governance e lotta alla corruzione. Ascolterei pero' le richieste dei Paesi Poveri e cercherei di fidarmi. Sarei conscio che i Paesi poveri necessitano di ottenere scambi commerciali (piu') equi, di promuovere la produzione agricola interna, insomma piu' giustizia e meno aiuto. Mi orienterei anche a sostenere le ONG e i quadri locali invece di inviare e pagare espatriati e ONG straniere. Se proprio di 'espatriati' ne voglio usufruire cercherei di impiegare professionisti di altri Paesi africani, che porterebbero in aggiunta l'esperienza accumulata nei loro Paesi di origine, gran bella cosa.(nota Fossi un donatore privato 'investirei' i miei soldi nell'istruzione(lo faccio!), quella fatta da maestri africani per bambini africani. L'istruzione e' alla base di tutto, viene prima ancora della salute(...e sono medico). Istruzione significa partecipazione, parita' di genere, salute, giustizia sociale, liberta'. Istruzione significa cambiamento, endogeno, duraturo. Una donna istruita avra' una famiglia piu' sana, meno numerosa, piu'...istruita a sua volta. L'Africa ha un potenziale enorme di giovani che vogliono studiare: la loro famiglie si impegnano per aiutarli. Purtroppo le condizioni di poverta'spesso non lo permette, e questo rappresenta un enorme perdita di risorse locali. Ci sono infinite possibilita' di aiuto nell'istruzione, stranamente pochissime ONG se ne occupano. Forse non trovano spazi per fare progetti ad hoc o forse non ci sono finanziatori in tal senso. Conclusione L'approccio delle ONG e delle Agenzie Internazionali, incluse le varie Cooperazioni annesse alle Ambasciate, pecca di eurocentrismo. Noi li sviluppiamo...in modo piu' 'umano' del tempo coloniale, pur sempre la danza la conduciamo noi. Cio'sembra inevitabile essendo l'uomo portato a considerare inferiore colui che chiede un aiuto. O che e' comunque povero. La stesura dei progetti, la scelta delle azioni, il modus operandi delle ONG sono modellati su paradigmi teoricizzati nel/dal mondo ricco, nelle scuole di Public Health europee. Fra i teorici ci sono tanti che hanno 'visto e vissuto' l'Africa in sporadiche occasioni o al massimo ci hanno lavorato per pochi mesi e... anni orsono ( molti conducono una carriera dorata nelle agenzie ONU di cui e' pieno il mondo). Nessuno di essi e nessuno degli espatriati di una ONG o Agenzia Internazionale ha mai lavorato in vita sua nelle condizioni di mancanza di mezzi e danaro come e' invece la norma di un contesto africano. Un distretto, un ospedale, un dispensario sopra-vivono con continue difficolta' e aggiustamenti, inclusa la disaffezione del personale sottopagato, i furti inevitabili, le mancate forniture dal centro, la corruzione. Sono a parer mio tutte conseguenze della poverta' estrema, condizione che come ho scritto non appartiene alla vita degli espatriati ed esperti sopra menzionati. In questo contesto resta per me un paradosso ( lo e' tanto!) la pretesa di andare in Africa e fare della 'capacity building'. E' un po' come se un cittadino benestante volesse insegnare ad un montanaro come vivere isolati, utilizzando i prodotti della natura e ...senza supermercato. Oppure come insegnare ad un etiope a correre lunghe distanze....per di piu' scalzi. Introdurre in un contesto di poverta' soldi e mezzi a iosa come avviene nei progetti significa ingenerare il concetto che la buona gestione sia possibile solo se ci sono fondi e tanti ( 'ci' piace invece insegnare ai locali che cosi' non deve essere!). Nota 1) Sri Lanka con Cuba mostra da anni i migliori livelli di salute nel mondo in rapporto al PIL dello Stato, grazie a scelte coraggiose e lungimiranti che il Paese stesso ha fatto, senza l'intervento di 'esperti' esterni. I servizi di istruzione e sanita'sono completamente gratuiti, da sempre. Eppure le ONG e Agenzie Internazionali che hanno "invaso" il Paese nel post tsunami mantengono progetti e interventi ancora oggi, anche nel settore salute. Sara' cosi' fino a quando i finanziatori elargiranno fondi. Vero, molte ONG si stanno ora spostando in Sud Sudan dove la massa di danaro sta appunto dirigendosi. L'Afghanistan e'da anni un altro eldorado per le ONG . Nota 2) Sarebbero preferibili parole di apprezzamento per i colleghi e i leaders locali alle critiche,reprimenda,accuse che ancora continuo a sentire fra i colleghi espatriati. Credo che in parte cio' sia dovuto a quella che chiamo ansia di progetto, incrementata dalla sede in Italia a sua volta ansiosa di mandare progress reports positivi al finanziatore. In generale facendo attenzione sempre e solo al (buon) sviluppo del progetto si arriva a disinteressarsi della gestione locale, e a volte anche la si calpesta perche' ritenuta di impedimento al raggiungimento degli obiettivi previsti nel progetto. Nota 3) In 25 anni di cooperazione ho mantenuto (bene) la mia famiglia e ho 2 case in Tanzania.Posso ringraziare le ONG che mi hanno assunto e ...l'Africa che e'stata e continua ad essere nel bisogno(sic) della mia presenza. Nota 4) Si accusano le agenzie internazionali come l'UNICEF di spendere un' alta percentuale del budget in spese amministrative ma si dovrebbe guardare anche in casa nostra. Come l'UNICEF si e'capaci di stimolare le donazioni di tanti attraverso brochures che mostrano bimbi malnutriti o persone affette da AIDS. Nota 5) La ONG inglese VSO invia studenti laureati di madre lingua a lavorare nelle scuole africane dove sapere l'inglese e' assai importante. Sono pagati alla pari dei colleghi locali, fanno un servizio di 2 anni, rinnovabili. Non hanno progetti con se', rispondono a delle esigenze locali. I loro obiettivi sono quelli della scuola( e del Paese) dove lavorano, ossia migliorare la padronanza della lingua inglese nelle scuole. Nota 6) Si indulge nel dire che le ONG locali non sono affidabili. Puo' essere e lo saranno fintanto che saranno emarginate e tagliate fuori dai canali di finanziamento di cui godono le ONG internazionali. Sono convinto che se i leaders di ONG locali percepissero lo stesso stipendio degli espatriati di ONG , essi farebbero un buon lavoro, non ruberebbero e manterrebbero efficiente e vitale la loro ONG. Nota 7) Sto assistendo al proliferare di ONG internazionali (e locali) che si dedicano alla lotta contro HIV/AIDS. Ognuno con progetti, modalita' e filosofie di intervento propri. Mi riferisco a quelle ONG che sono contrarie alla promozione del preservativo , a quelle che prevedono aiuto di cibo ai malati di AIDS, a quelle che addirittura negano l'efficacia dei farmaci antiretrovirali. Operano in casa d'altri ma si sentono legittimate a farlo senza ottemperare alle linee guida della Nazione che li ospita. Linee guida che ci sono, chiare, ben formulate. Nota Credo che noi bianchi portiamo nei nostri recessi mentali la convinzione di essere piu'competenti, efficienti, preparati dei colleghi locali. Ci deriva da anni di colonialismo dei nostri padri e dal fatto di essere enormemente piu' ricchi. I tempi sono cambiati, sempre piu' personale qualificato locale chiede di lavorare e saprebbe farlo bene. Chi e' abituato da sempre a con-vivere nella penuria di mezzi e di vita ha anche maturato capacita' aggiuntive e certamente avrebbe da insegnare a noi come 'nuotare in acque difficili'.