29 marzo 2009

La canzone del mese

HO VISTO ANCHE ZINGARI FELICI
Claudio Lolli(1976)

E' vero che dalla finestra non riusciamo a vedere la luce perchè la notte vince sempre sul giorno e la notte sangue non ne produce.E' vero che la nostra aria diventa sempre più ragazzina e si fa correre dietro lungo strade senza uscita. E' vero che non riusciamo a parlare e che parliamo sempre troppo.E' vero,sputiamo per terra quando vediamo passare un gobbo,un tredici o un ubriaco.O quando non vogliamo incrinare il meraviglioso equilibrio di un odiosità senza fine di una felicità senza il peggio.E' vero che non vogliamo pagare la colpa di non avere colpe e che preferiamo morire.Piuttosto che abbassare la faccia,è vero,cerchiamo l'amore sempre nelle braccia sbagliata.E' vero che non vogliamo cambiare il nostro inverno in estate,è vero che i poeti ci fanno paura. Perchè i poeti accarezzano troppo le gobbe,amano l'odore delle amarmi,odiano la fine della giornata.Perchè i poeti aprano sempre la loro finestra anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata.E' vero che non ci capiamo,che non parliamo mai in due la stessa lingua.E abbiamo paura del buio e anche della luce,è vero,che abbiamo tanto da fare che non facciamo mai niente.E' vero che spesso la strada sembra un inferno,una voce in cui non riusciamo a stare insieme,dove non riconosciamo mai i nostri fratelli.E' vero che beviamo il sangue dei nostri padri e odiamo tutte le nostre donne e tutti i nostri amici.Ma ho visto anche degli zingari felici corrersi dietro,far l'amore e rotolarsi per terra.Ho visto anche degli zingari felici in piazza Maggiore a ubriacarsi di luna,di vendetta e di guerra.

“Oggi sono moglie e mamma felice, ieri ero sull’orlo del baratro”

Rosa ci accoglie tenendo in braccio le sue due gemelline. Hanno pochi mesi. Sono la testimonianza più vera e significativa del ritorno alla vita della loro mamma. Il papà è accanto, culla con lo sguardo le tre donne della sua vita. Molto probabilmente non sa il passato di Rosa. O forse, invece, finge di non sapere per non riaprire vecchie ferite. Rosa in questa intervista accetta di riaprirle per qualche momento. Ha vinto la sua comprensibile ritrosia, lo ha fatto pensando all’importanza di gridare alle ragazze, dalle colonne del nostro giornale, tutta l’assurdità di cadere nella dipendenza emozionale dal cibo, sia essa rifiuto o consumo in eccesso.
- Si dice che i giovani che sprofondano nell’anoressia siano in genere molto belli, molto intelligenti e particolarmente sensibili. Ti riconosci in queste definizioni?
“Mah, non spetta a me dirlo. Gli altri dicevano in effetti che ero bella, a scuola andavo bene e caratterialmente puntavo sempre alla perfezione. Certamente ero una ragazza che non si accontentava mai dei risultati raggiunti, cercava sempre qualcosa in più”.
- E poi che cos’è successo un giorno? Come è cominciata la tua discesa nel tunnel dell’anoressia?
“Non posso individuare un giorno preciso in cui ho cominciato la discesa, riesco solo a ricordare quel giorno in cui per la prima volta ho capito che non mangiare non era più solo un gioco, una sfida con me stessa. Era diventata una malattia, qualcosa che mi stava distruggendo. Quel giorno, guardandomi allo specchio, avrei voluto morire. Prima di allora per me l’anoressia era una parola senza senso, una gara con le amiche a chi portava la taglia inferiore, a chi riusciva a stare in piedi mangiando di meno. E forse soprattutto era una competizione con me stessa: volevo essere sempre più perfetta”.
- E i tuoi genitori? Che ruolo ritieni possano avere avuto in tutto questo?
“Sinceramente non mi sento di dare loro alcuna colpa. I miei genitori mi hanno sempre voluto bene, forse anche troppo. Erano sempre con il fiato sul collo, orgogliosi di questa loro figlia senza apparenti difetti, pronti a incentivarmi a fare sempre di più, sempre meglio. Ecco, forse anche questo ha contribuito a farmi entrare in una sorta di “loop” nel quale senti di non dover mai fallire, di non poterli deludere”.
- Che cosa è successo quando hanno scoperto la tua anoressia?
“Penso sia crollato loro il mondo addosso. Io sono riuscita a tenerlo nascosto per molto tempo. Sai, al giorno d’oggi quasi tutte le ragazze fanno la dieta, mangiano poco per non ingrassare. Ai loro occhi anch’io rientravo in questo gruppo. Poi però i chili diminuivano sempre, ho cominciato a non avere più il ciclo mestruale e soprattutto si sono accorti che a cena non stavo più seduta a tavola. Mi alzavo di continuo per andare in bagno. Vomitavo ogni boccone, era diventato impossibile trovare giustificazioni a queste continue assenze. Una sera mi ha scoperto la mamma, anche se credo che sospettasse qualcosa già da tempo ma non aveva il coraggio di affrontare la situazione”.
- Che cosa ti ha dato la forza di uscire dal tunnel?
“Forse proprio le troppe lacrime che ho visto versare ai miei genitori. Ricordo in particolare mio padre. Non lo avevo mai visto piangere prima di quel periodo. Volevo cercare di fregarmene, di pensare solo a me stessa, di chiudere ancora una volta gli occhi di fronte al problema ma non era possibile. Ho capito allora che io potevo anche morire, in quel momento non mi interessava, ma non era giusto causare tutta quella sofferenza a chi mi aveva dato la vita. Dall’amore per i miei genitori ho trovato la forza di reagire, anche se è stata dura. Anni di battaglie, di illusioni, di ricadute. Uscire dal tunnel è difficilissimo, questo bisogna gridarlo alle ragazze. E spesso quando capisci di volerne uscire è troppo tardi. Non ce la fai più. E’ come la droga, una dipendenza vera e propria”.
- Sono passati anni, ma tu ce l’hai fatta. Oggi sei moglie e mamma felice di due gemelline...
“Sono felice, è vero, e mi sembra incredibile essere addirittura riuscita a mettere al mondo due bambine dopo essermi ridotta anni fa praticamente a uno scheletro ambulante. Però i fantasmi del passato a volte ritornano, non so se si possa mai dire di avercela fatta. Ogni giorno apro gli occhi e ringrazio Dio di avere una famiglia, un lavoro, queste due splendide bambine che mi riempiono la vita. E’ questo il segreto per restare lontani dalla paura, avere ogni momento della giornata occupato e accompagnato da un sorriso”.

Anoressia, quando allo specchio vedi la paura

E’ la prima causa di morte per malattie tra le giovani.
Eppure tanti siti la pubblicizzano
In Italia anoressia e bulimia sono la prima causa di morte per malattia tra le giovani di età compresa tra i dodici e i venticinque anni. Nonostante questo si calcola che all’incirca trecento siti internet italiani le promuovano. Sono illegali, spesso vengono anche oscurati ma continuano ad aumentare il loro numero di contatti. Sono le follie del nostro tempo. Ragazze, ma anche ragazzi, che riescono a raccontarsi solo sui blog, che confessano la loro solitudine e le paure del futuro e che si sfogano sul cibo: amandolo a dismisura oppure odiandolo sino a rifiutarlo. Nessuno pensa all’anoressia come a una malattia. Nessuno pensa di poter morire. Nessuno ad eccezione di chi in quel tunnel buio ci è entrato e ha capito che davvero si può restarne imbrigliati per sempre, senza riuscire più ad uscirne. Come la testimonianza che vi proponiamo. Rosa è un nome di fantasia, scelto per tutelare la privacy di questa giovane donna, ma la storia è reale e racchiude in sè tanta sofferenza. Un ricordo, per fortuna, ma indelebile nella mente di chi l’ha vissuta sulla propria pelle.

Ode alla vita!

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Lentamente muore chi fa della televisione il suo guru. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare. Muore lentamente chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.

Il martirio dimenticato del Guatemala

Quattrocento villaggi cancellati, il coraggio di un Vescovo, mons. Ramazzini, che prende per mano i più poveri

di Daniela Scherrer, addetto stampa Ains onlus

Quattrocento villaggi annientati e cancellati dalla faccia della terra. Un milione di persone costrette a fuggire in Messico, lasciando dietro di sè morte, distruzione e soprattutto tanta paura per il futuro. Questo è quanto è accaduto in Guatemala nell’arco di tempo tra gli Anni Sessanta e gli Anni Novanta. Eppure proviamo a far mente locale: quante volte ci è capitato di essere informati di tutto ciò dai mass-media? Praticamente mai, eccezion fatta per chi ha la fortuna di poter accedere a canali informativi missionari. La realtà è che quello del popolo Maya è uno dei tanti genocidi dimenticati del mondo, perchè il Guatemala conta poco o nulla e, di riflesso, anche la sua gente quindi non ha valore. Questo è quanto emerso sabato scorso nell’incontro organizzato dall’Associazione Italiana Nursing Sociale (Ains) presso la Libreria “Il Delfino” di Pavia. Il contesto è stato la presentazione del libro “Un popolo di martiri. Testimoni della fede in Guatemala” pubblicato dalla EMI (Editrice Missionaria Italiana) e scritto a quattro mani da Daniela Sangalli e Marco Del Corso. Il dibattito è stato introdotto da Emanuele Chiodini, socio Ains e recentemente testimone oculare in Guatemala insieme al presidente Ains Ruggero Rizzini e ad altri volontari, e ha poi visto l’intervento di Daniela Sangalli, giornalista esperta dei problemi dell’America Latina. I suoi commenti si sono alternati alla lettura di alcuni brani del libro, grazie alla voce di Elisa Califano.

“Nel Duemila sono stata per la prima volta in Guatemala –ha esordito Daniela Sangalli- era l’anno del Giubileo e, grazie al contatto con un amico sacerdote maya, desideravo conoscere la situazione di povertà e di violenza di quella terra proprio per arrivare a scrivere una testimonianza, qualcosa che potesse rimanere come documento. Anche per far conoscere i drammi vissuti in quel trentennio, situazioni che la stessa gente guatemalteca conosce poco”.
L’icona della difesa dei diritti violati del Guatemala è stato per anni mons. Juan Gerardi, Vescovo di Città del Guatemala, ucciso a settantacinque anni il 26 aprile 1998 proprio per il suo impegno a favore della riconciliazione nel Paese. Sulle sue orme oggi c’è mons. Alvaro Leonel Ramazzini Imeri, Vescovo della diocesi di San Marcos, già presidente della Conferenza Episcopale del Guatemala fino al 2007. Difende con coraggio la popolazione indigena e rurale e, nonostante le ripetute minacce di morte, la sua voce si alza con forza sia in favore della gente che contro il narcotraffico e contro lo sfruttamento minerario del territorio, diventato prepotentemente la piaga principale di quel che resta oggi del Guatemala. Un Paese in cui, come ha ricordato Daniela Sangalli, avvengono tredici omicidi al giorno e in cui alla sera davvero si esce con la paura di far più rientro a casa. Ma mons. Ramazzini vuole essere il volto solare di una popolazione che, nonostante tutte le sofferenze subite, ha ancora la voglia di sperare.
- Daniela, che cosa percepiscono gli abitanti del Guatemala di quanto è successo nei trent’anni di violenza?
“Il martirio del Guatemala è antico e allo stesso tempo moderno, visto che ha avuto luogo dagli Anni Sessanta agli Anni Novanta ed oggi in effetti la situazione non è molto migliorata. La gente ricorda questo periodo come gli anni della violenza, scatenata in modo brutale e senza motivo. Questa è la gravità della situazione. Il risultato è stato un dramma sociale enorme, quattrocento villaggi cancellati dalle mappe geografiche, almeno un milione di persone costretto a scappare e rifugiarsi in Messico. Il nome più famoso è quello di Rigoberta Menchù, ma tantissimi altri hanno vissuto la sua odissea e stanno rientrando adesso incontrando un Paese completamente diverso. Ogni famiglia ha perso quasi tutti i parenti e non trova più neppure il villaggio di origine”.
- A che cosa si deve il fatto che questo martirio sia caduto nel dimenticatoio?
“Probabilmente al fatto che il Guatemala è un Paese piccolo, anche sfortunato dal punto di vista geografico, e non conta.E’ un cuscinetto sotto al Messico e per lungo tempo è stato il giardino di casa degli Stati Uniti. Un Paese che viene soltanto adesso alla ribalta delle cronache per il traffico di droga. Quel che è certo è che, a dispetto della carenza di notizie, il genocidio del popolo Maya percentualmente è stato addirittura peggiore rispetto al genocidio argentino di cui tanto si è parlato”.
- Come è possibile che, nonostante le tante ferite aperte, la gente del Guatemala abbia ancora il coraggio di sperare nel futuro?
“E’ vero, è proprio così. Andando in Guatemala si percepisce nella gente un senso di sofferenza e di malinconia, basta ascoltare la loro musica. Però loro sperano ancora. E ci riescono grazie a tanti amici che credono in questa speranza del popolo. Mons. Ramazzini è il testimone più conosciuto del Guatemala di oggi, un po’ l’erede di mons. Gerardi. Proprio lui è il principale fautore della denuncia e della lotta contro le ingiustizie ed è il primo a credere in un futuro migliore anche per la gente più povera”.

Mediodìa con Monsenor

Il 24 Gennaio è ancora notte a El Rancho. Il trillo del cellulare utilizzato all'occorrenza come sveglia suona le sue terribili note alle 3.30. Ci si "levanta" per andare a San Marcos. Abbiamo un appuntamento, fissato da mesi, con "Monsenor". Monsignor Alvaro Ramazzini - origini remotissime italiane, anche lui figlio di migranti e di radici trapiantate - è vescovo della diocesi di San Marcos, Nord-Ovest del Guatemala, da quasi vent'anni.E'notte a El Rancho, ed è un sabato. L'arietta frizzante impone di coprirci e un buio ancora naturale (ormai sconosciuto qui da noi) ci permette di scorgere manciate di stelle sulla volta ancora oscurata. Un caffè italiano per darsi un tono, bagagli pronti, un saluto veloce a Madre Lucita, la direttrice del Collegio San Josè. Il rito dei saluti "uffciali" si era svolto appena qualche ora prima nel refettorio della casa delle suore: una quantità grande di saluti cordiali, ricordi affettuosi, numeri di telefono e indirizzi mail scambiati con la giovane comunità delle religiose lì assegnate e con le cinque altrettanto giovani ragazze - Aida, Beatriz, Andresita, Nolberta e Carmen - che in questo luogo del tutto particolare denominato "Clinica San Josè", prestano la loro opera; chi come studente-lavoratore, chi come infermiera professionale.Si parte. Ci attendono sette ore di microbus. Prima tappa, alle porte dell'alba, a Città del Guatemala, intorno alle 5.30. Bisogna lasciare Madre Delmya al terminal dei mezzi pubblici. Madre Delmy sta studiando psicologia e pedagogia all'università della capitale; per gli adulti e gli studenti-lavoratori, l'Uni in Guatemala e' aperta di sabato e domenica. Dopo cinque giorni di lavoro..lezioni regolari e studio. Per chi se lo puo' permettere, naturalmente. Uno sfioro d i mano con Delmy e torniamo a sonecchiare sul "coche" guidato da don Arturo - nostro autista di fiducia - immersi in maglioni e copertine per attenuare la temperatura esterna decisamente bassa.Quando ci svegliamo da un torpore che non è mai sonno vero ci accorgiamo di essere a Chimaltenango, direzione Quichè.Al nostro stupore don Arturo ci rammenta che per raggiungere San Marcos quella che stiamo percorrendo è la via più breve. Nel tratto che attraversa il Quichè la strada è fortemente accidentata. Il governo sta allargando la carreggiata per rendere il cammino di marcia a due corsie: cantieri senza soluzione di continuità, lunghissimi segmenti di rotta a base di terra battuta, polvere e fango a volontà, posti di blocco..e velocità supersonica degli autobus colorati che sfrecciano come saette dal nostro lato e ci superano, e dall'altro pare stiano precipitando a capofitto verso il fondovalle con i suoi caotic i mercati di fine settimana. Anche questo è Guatemala: frenesia negli spostamenti...e "elogio della lentezza" nei modi e nei tratti...Varcate le montagne con paesaggi da film, lasciandoci alle spalle ma lontanissime all'occhio nudo le propaggini turistiche del lago di Atitlàn, arriviamo a Xela-Quetzaltenango. In mezzo una parte di Guatemala molto bello, dai terreni ricchi e produttivi, piantagioni e campi coltivati, città stracolorate e mercati, strade ripiene di piccolo commercio e imprenditoria milleusi, bambini in cammino - sempre una valanga - con le loro mamme cariche d'ogni cosa compresa la testa, a suo modo, anch'essa mezzo di trasporto.Questa è la parte Nord-Occidentale e noi stiamo viaggiando sulla caretera che porta al Messico.Verso le dieci incrociamo una serie di pueblos dal nome esplicitamente cristiano: San Mateo, San Lucas, San Juan, San Pedro. Anche le città, come i nomi proprii di persona, semb rano messì lì apposta per ricordare la secolare tradizione cristiana di questo piccolo paese. Un cristianesimo che nella storia ha saputo assumere riti, culti, profumi e colori delle tradizioni religiose precedenti, in particolare le tradizioni indigene legate alla millenaria civiltà Maya, generando una "miscla" assolutamente incredibile. Cristiani sì, senza rinnegare nelle forme un passato ben anteriore a Cristo e alla sua Chiesa.Alle undici eccoci a San Marcos. Città enorme, città di confine, un comprensiorio metropolitano di quasi un milione di abitanti.In perfetto orario sul ruolino arriviamo davanti alla cattedrale. Entriamo in un palazzo vescovile spoglio e disadorno. Un cortile interno a quadriportico con al centro una fontana e una statua di Maria vorrebbe fortissimamente ricordarci la tranquillità del chiostro. I colori delle pareti scalcinate, giallo oro e bianco, invece, non lasciano spazi a dubbi. Monsenor è in riunione con una serie di cooperanti e volontari internazionali che si occupano del problema delle miniere, un problema esploso negli anni precedenti e riguardante lo sfruttamento selvaggio dei lavoratori del settore estrattivo, in questa zona molto fiorente. La difesa dell'ambiente e del diritto dei lavoratori ebbe un costo per Ramazzini: minacce, osteggiamenti, problemi con le autorità. Come da copione consolidato.Ci incontriamo con monsenor sul terrazzo dell'episcopio, appena prima di mezzogiorno. Saluti come se ci conoscessimo da una vita e poi con nostro stupore ci accomodiamo, da lui preceduti, nel divano del suo appartamento. Casa semplice, quella di un vescovo in Guatemala, ma accogliente. Appese alle pareti tante fotografie che ricordano la sua attività pluridecennale di vescovo della Chiesa Cattolica. Una un po' lontana scattata a Roma In compagnia di Giovann i Paolo II e un'altra più recente con Benedetto XVI alla conferenza di Aparecida l'anno scorso. Ci intratteniamo simpaticamente con Mons. Ramazzini per oltre un'ora raccontandoci le nostre esperienze. Le nostre esperienze vissute in Guatemala in questi dieci anni di attività della nostra associazione e ascoltando noi il quadro poco entusiasmante che lui traccia del suo paese. Si discute della situazione di estrema violenza che domina il Guatemala nel contesto attuale: violenza urbana (le maras che agiscono di notte indisturbate nei centri urbani saccheggiando e uccidendo), la violenza domestica, la violenza di stato ancora troppo diffusa. Si discute di ecologia e di pace: ci racconta che un progetto pastorale specifico della Chiesa guatemalteca va proprio in questa direzione. Si vuole coniugare il rispetto dell'ambiente - risorsa naturale da condividere e preservare - con la pace - un sentimento da ricostruire in un paese div elto da una storia ancora troppo recente frutto di militarismo e sfruttamento coloniale che non tarda a finire. Si discute di diritto alla vita. E allora ti accorgi che il discorso non è scioccamente ideologizzato come si è soliti fare qui in Italia, soprattutto in questi tempi decisamente intristiti : qui si parla dei diritti dei minatori, della condizione di vita dei campesinos presi a giornata nella piantagioni di caffè, del diritto ad un salario decente, dei diritti delle donne, dei bambini, dell'infanzia; della situazione in cui versano le carceri e le scuole. Difendere la vita significa difendere il concetto di vivibilità globale in modo concreto fuggendo possibilmente da battaglie astratte o inconcludenti crociate.Il tempo passa, ma verso l'una e mezza monsenor deve passare ad un altro incontro. Forse con suore che lavorano presso la sua diocesi. Peccato che il tempo sia così tiranno. Da ultimo ricordiamo insieme a lui anche il passaggo di Anna e Nicola i due giovani registi "inviati speciali" nei mesi scorsi per documentare attraverso un filmato la situazione del Guatemala.Saluti cordiali prima di ripartire verso Mazatenango. Parole affettuose e non ricercate per il congedo...e un tentativo maldestro di scattare una foto che disastrosamente non viene...i soliti problemi tecnici. Invitiamo monsenor in italia e ci sautiamo così: "Adelante companeros!!!".

Giulia Dezza, Emanuele Chiodini, Ruggero Rizzini

Un pomeriggio con Daniela Sangalli

di Emanuele Chiodini

Daniela Sangalli è l'autrice insieme a Marco Dal Corso di "Un popolo di martiri - testimoni della fede in Guatemala" (ed. EMI, 2008), testo che è stato presentato presso la libreria "Il Delfino" di Pavia nel pomeriggio di sabato 14 marzo scorso.L'organizzazione di questo appuntamento, questa volta di carattere culturale, è stata predisposta dalla nostra associazione; abbiamo voluto così ascoltare una voce preparata e interessante come quella di Daniela Sangalli per incrociare esperienze di viaggio e racconti, i suoi e i nostri, accumulati negli anni sul terreno della solidarietà verso il Guatemala.Il tardo pomeriggio nella libreria di Piazza della Vittoria corre via verso il calar della sera tranquillamente in un clima dialogante e di aperta attenzione delle persone presenti certamente incuriosite dalle parole dell'autrice. E, allo stesso tempo, incuriosite per cercare di capire qualcosa in più di questo paese del Centro America perlopiù nascosto dalle cronache ordinarie dei mezzi di informazione.Venendo al libro, principale oggetto della nostra discussione.Questo testo è stato concepito e realizzato per tenere viva la memoria in occasione del decimo anniversario della morte di mons. Juan Gerardi (assassinato dalla violenza militare il 26 aprile 1998), il vescovo titolare della diocesi di El Quichè ai tempi sanguinosi della guerra civile e promotore negli anni seguenti alla firma degli accordi di pace (1996) dell'importante documento di riconciliazione nazionale attinente alla ricostruzione storica dei fatti "Guatemala Nunca Mas".Questo libro, redatto dopo alcuni viaggi e un accurato lavoro di conoscenza della realtà locale, mira a mettere in evidenza alcune figure, semplici e ignorate dai mezzi di comunicazione sociale, quali catechisti e operatori della pastorale che hanno donato la vita per i fratelli in un periodo, come pr ima si ricordava, molto travagliato della storia guatemalteca.Le voci che si possono ascoltare da queste righe sono quelle, per citare alcuni esempi salienti, di Helen Mack sorella di Myrna Mack assassinata semplicemente per aver svolto il suo lavoro di antropologa; di Josè Puac che lavora attualmente presso l'Ufficio Diritti Umani della Diocesi di Città del Guatemala; dello scrittore guatemalteco Dante Liano, insegnante in Italia presso l'Università Cattolica di Milano e di mons. Alvaro Ramazzini vescovo di San Marcos autore della prefazione e dell'avvincente e significativa post-fazione del libro stesso.E' un libro che narra, attingendo a piene mani dal titolo medesimo, della condizione di vero martirio (testimonianza) della Chiesa locale. Una Chiesa che si è spesa, nei decenni e pagando col prezzo del sangue, per pacificare il paese e per ricostruire un clima di giustizia sociale messo in mora dagli anni del conflitto. Un Chiesa che ha operato ( e opera) per costruire un cambiamento nelle coscienze e nella dimensione sociale tormenta tutt'ora dagli effetti di quegli anni.E'un libro che si rivolge a noi di Ains "operatori laici di solidarietà" - come amiamo definirci - ma anche a tutti coloro che manifestano una certa sensibilità verso le problematiche dell'America Latina, aperti ad approfondire - nello specifico - i risvolti storici del Novecento del più volte citato Guatemala.Da ultimo, all'interno del testo si puo' trovare la traduzione italiana, sottoforma di uno stralcio, dell'edizione spagnola del documento "Dieron la vida 2" vera e propria raccolta di testimonianze del periodo del genocidio durato la bellezza di 36 anni, dal 1960 al recente 1996.Chi è Daniela Sangalli? Una donna che è stata, qualche anno fa, volontaria in Ecuador con i Salesiani del VIS (volontariato internazional e per lo sviluppo), in Guatemala almeno tre volte, e ha collaborato per due anni con il centro unitario missionario di Verona nell'èquipe oragnizzatrice - sezione America Latina - dei corsi di formazione per missionari e laici. Dal 2000 scrive per il mensile del CUM "Noticum", e ne cura l'aggiornamento del sito, per le notizie e gli approfondimenti sull'America Latina.Un grazie di cuore a lei per la sua disponibilità ad aver accettato la proposta del gruppo di Ains di presentare il libro nella nostra città e un grazie sentito anche agli amici della Libreria Delfino per averci ospitato e per aver dato un contributo importante alla buona riuscita di questo appuntamento.Naturalmente, dopo tutte questo parole, consigliamo a tutti la lettura del libro. Grazie.

«Politica troppo interessata»

Viazzoli, rieletto presidente: «Però lascio l’Auser»

PAVIA. Giampietro Viazzoli, dopo dieci anni di presidenza è stato rieletto con 31 voti, sulle 55 associazioni che ieri hanno partecipato alle elezioni del Csv. «Sono contento di rimanere - spiega Giampietro Viazzoli - Dalla costituzione il primo presidente è stato Wanda Mo, che era anche presidente della Consulta comunale del volontariato. Nella seconda metà sono subentrato io». Quindi è praticamente dalle origini del Centro che Viazzoli ne è alla guida. Dal 1996 è anche presidente dell’Auser provinciale. «All’inizio erano nove circoli, ora sono 50 - spiega Viazzoli - Per questo ho deciso di ripresentarmi alla presidenza abbandonando la mia carica all’Ause, per avere più tempo e per essere più presente e condividere le scelte». Non solo. «Credo in questi mie nove anni di aver garantito autonomi all’associazione - aggiunge Viazzoli - E voglio mettere in rete le associazioni, per rendere più efficace il lavoro verso le persone in difficoltà». Ma la politica che gioco ruola nel mondo del volontariato? La destra sembrerebbe esclusa. «La destra si auto esclude - spiega Viazzoli - Ma noi giudichiamo le associazioni per quello che fanno non chiediamo dove stanno. Io però vedo, forse in funzione della crisi generale, un interesse eccessivo della politica. Lo noto e sono preoccupato. Le associazioni non possono essere distinte tra cattolici e laici, ma per quello che fanno. Fino a ieri erano i cattolici i “padroni” del volontariato, ora con i Centri servizi questo si è sfilacciato, anche se stanno cercando di riappropriarsene». Un riferimento anche al secondo candidato alla presidenza, Celestino Abbiati, legato ad Azione Cattolica, di cui è stato vice presidente pavese. Tra i ri-eletti, come il presidente Viazzoli, ci sono anche tre consiglieri: Riccardo Agostini, Isa Cimolini e Maria Elena Rondi.

di Marianna Bruschi, La provincia pavese, 29 marzo 2009

Volontariato, il nuovo consiglio

Scelti ieri i componenti. Ci sono Contrini e l’ex assessore Balzamo Torselli: «Il Csv è un punto di riferimento per tutto il territorio». Confermati Riccardi Cimolini e Rondi Tra i nuovi Rizzini Hanno votato 55 soci dei 71 aventi diritto

scritto da MARIANNA BRUSCHI, la provincia Pavese, 29 marzo 2009

PAVIA. Associazioni che si occupano di anziani, di giovani. Volontari che dedicano il loro tempo libero ai malati, o che organizzano attività culturali. Tanti i «giovani pensionati» che si mettono al servizio degli altri. Tutti riuniti ieri nella sede del Centro servizi volontariato di Pavia, per eleggere il presidente e i sei consiglieri. Riconfermato alla presidenza Giampietro Viazzoli. Tra i 71 soci con diritto di voto, ieri hanno espresso le loro preferenze in 55. Il Centro servizi volontariato è stato introdotto dalla legge 266 del 1991, per lo sviluppo del volontariato. Una legge che stabilì di finanziare i Centri con dei fondi speciali regionali costituiti da una quota pari a un quindicesimo dei proventi delle Fondazioni di origine bancaria. Cifra che ammonta a circa 679mila euro per il Csv della provincia di Pavia. Quella di ieri non è stata solo la giornata di elezione del consiglio e del presidente. La direttrice, Nicoletta Marni, ha anche presentato la relazione sulle attività del 2008, divise tra formazione, orientamento, comunicazione e promozione. Sono oltre 11.800 i partecipanti alle iniziative di promozione tra cui incontri, percorsi e mostre. E quasi 900 i volontari «formati». Veniamo alle elezioni. Resta in carica come presidente, con 31 voti, Giampietro Viazzoli, 67 anni, sindacalista della Cgil, presidente dell’Auser provinciale dal 1996 e del Centro servizi volontariato dal 1999. Celestino Abbiati, l’altro candidato proposto dall’associazione Amici oratorio san Mauro, ha preso 21 voti. I consiglieri sono stati scelti tra 12 candidati. Pinuccia Balzamo, ex assessore alle pari opportunità e all’ambiente, ha ottenuto 29 voti. Secondo consigliere, in ordine di preferenze, Maria Elena Rondi, 14 voti. Ha 36 anni, è tra le fondatrici dell’associazione «Sogni e cavalli Onlus». Poi con 12 voti Riccardo Agostini, psichiatra e volontario nell’associazione Club degli Alcolisti. Ruggero Rizzini, 10 voti, è presidente dell’Associazione italiana nursing sociale ed è infermiere al Policlinico. «Mi sono candidato per imparare - ha spiegato - e poi per dare il mio contributo di idee e di tempo al mondo del volontariato pavese». Carla Torselli è stata eletta con 9 voti. E’ stata presidente dell’Anffas Pavia fino al 2006. «Credo molto nella funzione che il Centro ha avuto in questi dieci anni - ha spiegato - E’ un punto di riferimento per il territorio, per il reperimento e la formazione dei volontari». Infine a parimerito con 7 voti, sono stati eletti Sergio Contrini, proposto dal Csi, il Centro sportivo italiano di cui è presidente provinciale, oltre ad essere presidente del Consiglio di amministrazione dell’Azienda per i servizi alla persona, e Isa Cimolini, presidente dell’Avis comunale di Pavia.

6 marzo 2009

Hogar Santa Maria de Jèsus – Mazatenango, Guatemala, 2009 - Progetto di Sostegno Economico

Carissime amiche ed amici, carissimi sostenitori,

Una delle tappe principali del viaggio del Gennaio scorso è stata la Casa d'Accoglienza di Mazatenango "Santa Maria de Jèsus".Cos'è questa struttura? E' un luogo dove vengono ospitate bambine e ragazze provenienti da situazioni di grave disagio familiare e sociale, o peggio, perchè vittime di abusi e violenze di diversa natura e gravità.
L'età delle ospiti, attualmente, è compresa tra i 7 mesi (c'è una neonata con sua mamma) e i 18 anni.
La Casa è ubicata nella periferia agricola della città di Mazatenango – Nord/Ovest del Guatemala, Costa del Sur, non lontana dall'Oceano Pacifico, prossima al confine col Messico - ed è immersa in un contesto ambientale molto ricco caratterizzato dal tipico verde brillante della foresta tropicale.Questa casa è gestita e diretta dalle suore della Carità di Maria Immacolata, con le quali collaboriamo ormai da diversi anni e di cui conosciamo la serietà e l'affidabilità; in particolare vogliamo riferirci a Madre Antonietta Leon Coloma responsabile della struttura e nostra referente per questo tipo di progetto.La situazione attuale.Nel Gennaio scorso abbiamo registrato una situazione di forte difficoltà per quanto attiene la gestione economica della Casa. Principalmente per due motivi: da un lato l'estrema precarietà nel garantire la continuità dell'appoggio finanziario di alcuni benefattori locali impegnati da anni a sostenere l’Hogar, negli ultimi tempi sempre meno disponibili;
dall'altro, la presenza di 40 ospiti, ad oggi numero massimo di soggetti ricevibili, ha comportato un aggravio nelle esigenze di ogni giorno e nei costi generali di funzionamento. Il resto l’ha causato la crisi economica generale i cui morsi si fanno sentire in misura molto più accentuata nei paesi cosiddetti poveri.
Per cominciare a porre un rimedio a questa stretta le quattro suore lì assegnate conferiscono in una cassa comune il loro stipendio (1000 quetzal mensili pari a 100 euro circa) oltre ad uno stipendio straordinario conferito da Madre Antonietta e frutto del suo lavoro presso la fondazione C.F.C.A. (2.900 Quetzal mensili sono 290 euro circa).Diminuzione delle entrate, conseguente aumento delle bambine ospiti rispetto agli anni passati, risultato: problemi. Problemi per quanto riguarda la mensa, ovvero la quantità e la qualità di cibo somministrato almeno tre volte al giorno, quest'anno decisamente impoverito. Problemi per quanto attiene la reperibilità del materiale necessario all'igiene personale; problemi nel reperire materiale didattico sufficiente per coprire i bisogni di tutte le ragazze le quali frequentano, a seconda dell'età, un preciso grado scolastico. Problemi nella manutenzione generale della Casa. Insomma, tanti problemi.
Gli obiettivi "minimi" che proponiamo per dare una mano a questa comunità.
Alcune cifre.
Questione mensa:
Con 0.50 euro si garantiscono tre pasti al giorno a una bambina, con 15.00 euro tre pasti al giorno per un mese, con 90.00 euro per sei mesi e con 180 euro per un anno. L'obiettivo minimo che ci prefissiamo è di raggiungere il traguardo di 7.000 euro nel corso del 2009 per poter continuare a garantire un'alimentazione decente a queste bambine e ragazze.
Questione scuola:
con 0,15 euro si acquista una penna o una matita, con 0,05 euro un temperino, con 0,10 euro una gomma per cancellare, con 0,25 euro un quaderno di 40 pagine , con 0,35 euro un quaderno di 80 pagine, con 1,50 euro si acquista un libro di geografia e con 4,00 euro un libro di lettura.

L'obiettivo "massimo" è di raggiungere 30.000 euro necessari per coprire i costi di funzionamento annuali della Casa (costi generali, trasporti, manutenzioni, scuola, vitto, alloggio, mensa, custode, varie ed eventuali...).
Questo obiettivo è anche finalizzato a creare un circolo virtuoso tale per cui, con questo appoggio più oneroso, la comunità possa approntare in un futuro prossimo progetti che consentano di avviare forme di autofinanziamento come l'apertura di laboratori o di piccole attività commerciali.
Per iniziare, ovviamente, serve un fondo che incoraggi l'impresa.

Si può aderire a questo progetto, con un contributo volontario, nelle seguenti forme:
Versamento su ccp. 46330429 intestato a Ains onlus- c/o AISLeC, via Flarer n. 6 - 27100 Pavia
Causale: Progetto Mazatenango Lasciando un'offerta libera presso l' Edicola Chiodini - Via Roma, 118 a San Martino Siccomario - tel: 0382490338Grazie a tutti per l'attenzione e la collaborazione

Otto Marzo, una festa di solidarietà

Domenica prossima sarà di nuovo l’otto marzo, data riconoscibile in tutto il mondo perchè dedicata, dalla comune tradizione sociale e civile, al ricordo dell’affermazione della dignità del genere femminile. In parole più usuali e correnti, un’altra «Festa della donna». Ci siamo abituati ormai a vivere questi appuntamenti di natura «civile» in modo piuttosto vuoto, ruotinario, senza più operare un pensiero compiuto sul «perchè» di queste ricorrenze e sul «come» attualizzare il significato di cui sono portatrici. Del peso specifico e del complesso di valori che sottendono, come nel caso dell’otto marzo, le lotte e le battaglie, le sofferenze e le conquiste, a più di un secolo di distanza dalla prima celebrazione della Festa della donna, e che hanno portato nel corso del tempo ad assicurare alla galassia femminile il giusto ruolo in una società finalmente affrancata da logiche patriarcali. Anche l’otto marzo trova la sua radice di pensiero e di azione nel concetto di uguaglianza. Un concetto, oggi, forse a torto dimenticato. E oggi, appunto? E’ sufficiente un ramoscello di mimosa? Una serata in pizzeria, o peggio ancora, in discoteca? Ha senso accontentarsi del lato ludico per ricordare le conquiste di svariate generazioni? Certo, il senso della festa come simbolo; ma noi vorremmo - come desiderio - che si recuperasse anche il valore più profondo di questa data. E allora noi ci sentiamo di entrare nel concreto e di proporre, in particolare, a tutte le donne che leggeranno queste righe un atto di solidarietà. Siamo tornati dal Guatemala solo un mese fa e, nel corso di questo viaggio, abbiamo visitato e siamo stati ospiti per una settimana presso una Casa d’accoglienza per bambine vittime di violenze e abusi. Bambine e ragazze che escono da una realtà infelice e piena di problemi: povertà, abbandono, sfruttamento, ignoranza. Donne. Donne meno fortunate di noi tutti.Alla Casa di Mazatenango abbiamo trovato una situazione poco confortante per le quaranta ospiti lì assegnate: scarsità nella qualità e quantità del cibo e difficoltà legate alla conduzione quotidiana della casa; andare a scuola, vestirsi, lavarsi, mantenere un decoro accettabile, lì davvero, è ancora una battaglia di tutti i giorni. E, vi possiamo garantire, non è splendido quello che abbiamo visto e vissuto. Così, rientrati in Italia abbiamo deciso di proporre un progetto di solidarietà e di sostegno economico alla struttura. Queste le richieste: per dare da mangiare tre volte al giorno, in misura normale, ad una bambina in Guatemala occorrono euro 0,50. Per un mese sono 15 euro, per sei mesi 90 e per un anno 180. Queste sono proporzioni di un mondo decisamente sproprozionato. Non trovate? Forse varrebbe la pena rinunciare a un ramoscello di mimosa e a una fetta di pizza e contribuire, con un piccolo atto consapevole, a migliorare la vita di una piccola nata al di là dell’Oceano, che altrimenti diventerebbe essa stessa vittima inconsapevole di un sistema, il nostro, indifferente e ipocrita. Sì, forse varrebbe la pena. Non trovate?