25 aprile 2009

associarsi?

Gli associati possono dare un contributo importante al sostentamento della nostra associazione. Abbiamo deciso di stabilire una quota minima di adesione di 10 euro annui che potete versare sul conto corrente postale n. 46330429 (causale: quota associativa)
Associarsi ad ains onlus significa promuovere una cultura di pace, solidarietà, partecipazione, collaborazione, pari opportunità e rispetto dei diritti e dei bisogni umani
diventa socio ains!
La quota associativa per il 2008 è di 10,00 euro
c.c.postale n. 46330429

fabiòla

Prima di ripartire per l'Italia, tra la sera del 26 e la mattina del 27 Gennaio, alcune ragazzine ospiti della Casa di Mazatenango - come è loro costume e abitudine - chiedono agli ospiti stranieri di fissare sui loro diari alcuni pensieri come gradito ricordo delle giornate condivise insieme a loro. Ecco i miei dedicati a Fabiòla 15 anni.

Fabìola è un nome da regina
nome solenne di un'Europa
barocca di reami e castelli
Se dalla "i" sposti l'accento sulla "o"Fabiòla diventa regina
ma d'una casa colorata
Fabiòla è una regina bambina
sogni tropicali
sogni di libertà
le farfalle multiformi e variopinte
continuano una rincorsa infinita
nel giardino dove crescono i fiori della Pasqua
sogni di libertà tra mura che sembrano di pan di zucchero
e profumo di farina di maìs
del poco che c'è e che sta insieme
lacrime di malinconia e abbracci profondi
come gli occhi neri
piccola immensa intensità
chicchi d'energia
riflessi regali
Fabiòla è un nome da regina
regina bambina
d'una casa colorata

Emanuele Chiodini, 26 Gennaio 2009

«A scuola meglio l'acqua del rubinetto»

PAVIA. Ogni giorno a Pavia vengono serviti nelle mense scolastiche 4 mila pasti circa, 3mila e 500 solo nelle scuole primarie e dell’infanzia. E ogni giorno si consumano 2.200 bottiglie di plastica da mezzo litro e oltre 200 bottiglie di plastica da un litro e mezzo, pari a circa 72 chili di plastica al giorno. Che per nove mesi di scuola fanno una montagna da scalare. E pensare che produrre acqua in bottiglia ha un costo fino a 2mila volte maggiore rispetto alla produzione di acqua del rubinetto. In America, si stima che fino a 54 milioni di barili di petrolio siano stati consumati nel 2007 per produrre i 33 miliardi di litri d’acqua che gli americani hanno bevuto (Environmental Research Letters). Perché non iniziare quindi a bere l’acqua del rubinetto anche a scuola? A Siziano già lo fanno e l’acqua di Pavia è stata giudicata la terza migliore d’italia. Da queste considerazioni è nato il progetto «Scuole sostenibili», promosso dal gruppo di Acquisto Solidale e dal settore istruzione del Comune a partire dall’inizio dell’anno scolastico. Più di 1.200 alunni delle elementari stanno imparando a conoscere l’acqua e le buone abitudini per non sprecarla. «E’ un progetto per promuovere i comportamenti sostenibili nelle scuole perché arrivino alle famiglie. Abbiamo iniziato quest’anno con una serie di iniziative per promuovere un consumo consapevole dell’acqua, nei prossimi anni ci occuperemo di mobilità e raccolta differenziata», ha spiegato Lorella Vicari, del Gas. Obiettivo: promuovere una mensa più sostenibile, cercando di capire se sia possibile inserire l’acqua del rubinetto al posto della minerale. Tra i partner del progetto ci sono Asm, Asl, Legambiente, Cafe, Altreconomia e Ains. «Abbiamo fatto un’inchiesta nelle scuole per capire come viene usata l’acqua durante il giorno. Poi abbiamo somministrato 3.999 questionari nelle scuole d’infanzia e primarie per indagare quale acqua consumano le famiglie pavesi, perché, se sono favorevoli o meno all’introduzione dell’acqua del rubinetto a scuola. I dati dell’indagine, alla quale hanno risposto il 72% delle famiglie, saranno presentati ufficialmente il 9 maggio al Castello Visconteo», ha annunciato Vicari. Il Comune valuterà poi se Pavia è pronta a saltare dalla plastica alla brocca.

[scritto da Anna Grezzi – La Provincia Pavese]

SCUOLE SOSTENIBILI

AINS, tra le altre attività, è impegnata a promuovere la diffusione di nuovi stili di vita improntati a creare un nuovo rapporto con l’ambiente e il mondo, dettato dal rispetto verso le cose, le persone, la natura che ci circondano.Uno degli strumenti per arrivare al cambiamento è partire dalla diffusione di azioni quotidiane che ognuno di noi può mettere in pratica; di particolare importanza risulta rivolgersi ai bambini e alle loro famiglie. Quest’anno, insieme ad altre associazioni nonché enti istituzionali (GasPavia, AltraEconomia, CAFE, Legambiente, ASL, ASM, Comune PV-Settore Istruzione), AINS ha promosso nelle scuole primarie di Pavia il progetto SCUOLE SOSTENIBILI, progetto pluriennale la cui finalità è quella di promuovere nella città di Pavia, partendo dalle scuole e arrivando alle famiglie, comportamenti improntati ai principi di Agenda 21 e quindi ai principi della “sostenibilità”, attraverso un processo partecipativo che coinvolga gli scolari, le famiglie, gli insegnanti e tutto il personale scolastico. Nell’anno scolastico 2008/2009 il progetto SCUOLE SOSTENIBILI si è focalizzato sulla possibilità di sostituire nelle mense scolastiche l’acqua in bottiglia con quella del rubinetto. Il progetto consta di due fasi più il concorso e la festa finale.
· La fase di mappatura dei comportamenti quotidiani ha previsto la distribuzione di 4000 questionari nelle scuole sia primarie che d’infanzia ed è stato compilato dal 72% dei genitori, di cui l’80% sono risultati favorevoli all’inserimento dell’acqua potabile nelle mense scolastiche.
· Nella successiva fase di sensibilizzazione sono stati realizzati dei laboratori nelle classi primarie a cui hanno aderito 55 classi, ovvero 1264 alunni.
· Sta terminando in questi giorni, invece, la realizzazione degli elaborati richiesti per il concorso ACQUOLINA che prevede la realizzazione di spot sull’acqua nonché la realizzazione di un volantino che inviti a bere l’acqua delle fontanelle pubbliche.A conclusione del progetto di quest’anno è stata prevista una FESTA FINALE in data sabato 9 maggio presso il Castello Visconteo a Pavia. Durante la festa verranno premiati i vincitori del concorso, resi pubblici i risultati dell’indagine attraverso una tavola rotonda e la distribuzione di un report, offerta una merenda ed effettuati laboratori/giochi legati ad un uso consapevole della risorsa acqua e alla diffusione di pratiche quotidiane, quali il recupero e/o riutilizzo di materiali di uso comune con idee per l’autoproduzione di giocattoli.

Il domani e il millennio di Josè Saramago

Qualche giorno fa ho letto un articolo di Nicolas Ridoux, autore di Meno è più. Introduzione per una filosofia della decrescita, e ho ricordato che alcuni anni prima, all’alba del millennio in cui siamo, avevo partecipato a un incontro a Oviedo in cui si sollecitavano degli scrittori a tracciare obiettivi per il millennio. A me sembrò che parlare del millennio fosse un po’ troppo ambizioso, per questo mi ripromisi di parlare soltanto del giorno seguente. Ricordo che portai proposte concrete e una di quelle è la stessa adesso spiegata da Ridoux nel suo Meno è più. Ho cercato sul disco rigido del computer, deciso a recuperare parte di ciò che avevo scritto allora e che oggi mi sembra ancora più attuale. Per quanto riguarda le visioni del futuro, credo sia meglio che ci si cominci a preoccupare del giorno di domani, quando, si suppone, saremo ancora quasi tutti vivi. In realtà, se nel lontano anno 999, da qualche parte in Europa, i pochi saggi e i molti teologi che c’erano allora avessero provato a prevedere come sarebbe stato il mondo da lì a mille anni, credo che avrebbero sbagliato su tutto. Nonostante ciò, credo che una cosa l’avrebbero più o meno indovinata: che non c’era nessuna differenza fondamentale tra il confuso essere umano di oggi, che non sa e non vuol chiedere dove lo portano, e la terrorizzata gente che, in quei giorni, temeva di essere vicina alla fine del mondo. In confronto, ci sarà un numero maggiore di differenze di tutti i tipi tra le persone che siamo oggi e quelle che ci succederanno, non tra mile, ma cento anni. In altre parole: è probabile che noi abbiamo, oggi, molto più in comune con quelli che hanno vissuto un millennio fa rispetto a quello che avremo con quelli che da qui a un secolo vivranno il pianeta…Il mondo sta finendo adesso, siamo al tramonto di ciò che mille anni fa stava appena sorgendo.

Adesso, mentre finisce o non finisce il mondo, mentre cala o non cala il sole, perché non dedichiamo il nostro tempo a pensare un po’ al giorno di domani, in cui quasi tutti noi saremo ancora felicemente vivi? Invece di queste proposte forzate e gratuite sul e per l’uso del terzo millennio, che, da subito, lui stesso si occuperà di trasformerare in nulla, perché non decidiamo di proporre alcune idee semplici e qualche progetto alla portata di qualsiasi comprensione? Queste, per esempio, nel caso in cui non ci venga in mente niente di meglio: a) Avanzare dalla retroguardia, ossia, avvicinare alle prime linee del benessere le crescenti masse di gente lasciate indietro dai modelli di sviluppo in uso; b) Creare un nuovo senso dei doveri umani, rendendolo correlato al pieno esercizio dei proprio diritti; c) Vivere come sopravvissuti, perché i beni, le ricchezze e i prodotti del pianeta non sono inesauribili; d) Risolvere la contraddizione tra l’affermazione che siamo sempre più vicini gli uni agli altri e l’evidenza che ci troviamo sempre più isolati; e) Ridurre la differenza, che aumenta ogni giorno, tra quelli che sanno molto e quelli che sanno poco. Credo sia dalle risposte che daremo a questioni come queste che dipenderà il nostro domani e il nostro dopodomani. Che dipenderà il prossimo secolo. E il millennio intero. A questo proposito, si torni alla Filosofia.
pubblicato su IL QUADERNO DI SARAMAGO

Mondo Oggi - Ecclesiale: Paese di violenze e squilibri, come possiamo dirci cristiani?

Fonte: http://www.dimensionesperanza.it/


“In Guatemala abbiamo una situazione paradossale: il 95% dei guatemaltechi si considerano cattolici (o cristiani), ma abbiamo anche l’indice più alto di disuguaglianze nella ripartizione dei beni. Se cristianesimo significa condividere, come mai c’è questo altissimo divario tra ricchi e poveri?”. Non usa mezzi termini monsignor Alvaro Leonel Ramazzini Imeri, vescovo di San Marcos, presidente della Conferenza episcopale del Guatemala, per descrivere la difficile situazione sociale del suo paese. Che si aggiunge a un dopoguerra che fatica a trovare un equilibrio tra esigenze della giustizia e della riconciliazione. E a una forte diffusione di violenza criminale e urbana.Monsignor Ramazzini il Guatemala è un paese inquieto. Ancora tanta violenza, forti squilibri sociali. Perché? Perché la vita non viene rispettata. Inoltre abbiamo una società molto conflittuale. La guerra vissuta per 36 anni ci ha condizionato in modo tale che non siamo più capaci di usare il dialogo e il ragionamento pacato per risolvere i nostri problemi. Ricorriamo alla forza, alla repressione, ai linciaggi. Io mi chiedo cosa facciamo, noi cristiani, per rispondere a questa violenza. Sul fronte sociale, c’è una disintegrazione molto forte della famiglia, a causa delle migrazioni in America del nord. Gli emigrati si creano nuove famiglie e credono di risolvere i problemi inviando soldi. Invece i bambini crescono da noi senza la presenza e la protezione dei padri. Questi segnali ci dicono che qualcosa non funziona a livello di pratica religiosa: molte persone cercano nella religione solo una sorta di guarigione alle malattie, ai loro problemi psicologici. Un tema scottante è l’impunità dei protagonisti della guerra civile, La Chiesa può fare qualcosa? Cerchiamo di fare qualcosa. Abbiamo uffici per i diritti umani che informano, formano, organizzano incontri per giustizia inefficiente, con giudici che si lasciano corrompere o che sono indifferenti, con processi che durano anni. È un problema serio: sappiamo che nelle istituzioni ci sono persone che hanno fatto cose molto gravi, ma continuano a vivere in tutta tranquillità. E le iniziative giudiziarie avviate in altri stati (Spagna, ndr) non funzionano perché si invoca il principio di sovranità del paese: li si ferma tutto, nonostante il Guatemala abbia ratificato accordi internazionali in materia. Non sono fiducioso in proposito. Il 9 settembre (2007 ndr) in Guatemala si vota per le presidenziali. Tra i candidati c’è anche il premio nobel per la pace, Rigoberta Menchù, leader del movimento Indigeno. Che valore ha la sua candidatura? È un buon segno, vuoI dire che c’è una maturazione politica all’interno dei popoli indigeni. Purtroppo in questo momento in Guatemala il movimento indigeno è molto disarticolato: le comunità non riescono ad agire insieme per raggiungere obiettivi comuni. Però temo che la candidatura della Menchù sia stata avanzata troppo in fretta. Avrebbe dovuto aspettare: negli ultimi anni è stata spesso fuori dal paese, di conseguenza la popolazione non la conosce abbastanza, soprattutto i giovani. In più non partecipa alle elezioni con un proprio partito, che sarebbe stato un fattore importante. Doveva cominciare a organizzare un partito a base indigena non esclusiva, ossia integrando altri settori sociali, e presentarsi alle prossime elezioni con una sua proposta. Spero di sbagliarmi, perché abbiamo bisogno di alternative, e un’alternativa dal mondo indigeno sarebbe interessante. Ma esercitare il potere è un lavoro di grandissima responsabilità, che richiede notevole preparazione, soprattutto in un mondo globalizzato, in cui la nostra economia dipende dagli altri e soggiace a pesanti condizionamenti esterni, soprattutto degli Stati Uniti. Lei ha partecipato alla quinta Conferenza dell’episcopato latino-americano ad Aparecida, in Brasile, Quali frutti principali ha prodotto? È andata molto bene. Abbiamo cercato di essere sinceri e obiettivi sui problemi più importanti della Chiesa e della società in America Latina. E’ stato molto importante riprendere il tema delle comunità ecclesiali di base e della scelta preferenziale ed evangelica per i poveri come esigenza da rivolgere all’intero popolo cristiano, compresi noi vescovi, per vivere davvero in atteggiamento di povertà, non rimanendo nella teoria. Abbiamo parlato anche della necessità di dichiararci in uno stato permanente di missione e pensare alla missione ad gentes, al di fuori delle nostre diocesi e paesi. In questo senso ci sono ottime aspettative. Ma saremo capaci di portare avanti questo impegno, o rimarranno parole sulla carta? E’ una sfida, credo ci sia la volontà di essere coerenti con gli impegni presi. Di cosa ha bisogno oggi il cristianesimo in America Latina? Bisogna tornare a ciò che è essenziale nella vita cristiana: essere discepolo e missionario. In molte occasioni siamo molto più attenti all’elemento istituzionale della Chiesa, ossia a non perdere fedeli e ad aumentare il numero dei battezzati, e dimentichiamo l’essenziale del cristianesimo. In America Latina e America del nord non è in crisi solo l’aspetto istituzionale della Chiesa, ma il cristianesimo stesso. Bisogna chiedersi quale pratica del cristianesimo conduciamo e proponiamo. Anche perché, se non ci fosse questa crisi, avremmo un continente con più pace, più giustizia, maggiore rispetto verso i migranti, e non contrasti e disuguaglianze tanto gravi. di Patrizia CaiffaItalia Caritas /Settembre 2007Problemi sociali gravissimi dopo 36 anni di guerra civileIl Guatemala, piccolo paese dell’America centrale, ha vissuto per 36 anni una guerra civile, finita con gli Accordi di pace del 1996, che ha lasciato dietro di sé 200 mila morti, soprattutto Indigeni discendenti dai maya, e un milione.e mezzo tra profughi, vedove, orfani e desaparecidos. Il 90% dei massacri sono stati compiuti dall’esercito, il resto dalla guerriglia. Rimane oggi un’eredità pesante di ingiustizie economiche e sociali a tutti i livelli, aggravata da una totale mancanza di giustizia nei confronti del responsabili dei crimini contro l’umanità, primo fra tutti l’ex generale dell’esercito Rios Montt, ancora coinvolto nella vita politica e in cariche istituzionali che gli assicurano l’impunità. Anche la Chiesa ha avuto i suoi martiri, tra cui i 77 catechisti del Quiché, per i quali è in corso a livello diocesano la causa di canonizzazione. Il più famoso è stato però il vescovo monsignor Juan Gerardi Conedera, ausiliare di Città del Guatemala, ucciso il 26 aprile 1998, due giorni dopo aver presentato un rapporto della Chiesa sulle responsabilità e i crimini commessi durante il conflitto. Il paese centramericano, che sarà chiamato alle urne a settembre per eleggere il nuovo presidente della repubblica, è un concentrato di gravi problemi sociali. Su 13 milioni di abitanti, l’80% vive al di sotto della soglia della povertà, il 13,5% con meno di 1 dollaro al giorno, mentre una ristretta oligarchia bianca detiene il potere economico e politico, il 22% della popolazione è malnutrito (il Guatemala è settimo tra i paesi con il più alto indice di denutrizione), la mortalità infantile è una delle più alte al mondo (43 ogni 1000 nati prima dei 5 anni), la sanità è troppo onerosa per i poveri, il tasso di analfabetismo è alto, migliaia sono i bambini di strada vittime di soprusi a Città del Guatemala, Violenza e criminalità continuano a fare registrare tassi elevatissimi: dal 2004 al 2006 sono stati commessi 2.400 omicidi. L’impegno CaritasLa Chiesa in Guatemala ha svolto un ruolo significativo nel processo di pace. Oggi è molto impegnata nel settore sociale, negli ambiti dell’educazione, dello sviluppo e dei diritti umani appoggiando le comunità indigene e lavorando con i movimenti sociali .Caritas Italiana sostiene alcuni progetti di Caritas Guatemala e di altri soggetti. La rete Caritas è anzitutto ancora impegnata nel programma di ricostruzione e riabilitazione, elaborato dopo le rovinose alluvioni causate, nell’ottobre 2005, dall’uragano Stan. Sostiene inoltre due progetti di recupero della memoria storica relativi a quanto accaduto durante la guerra civile, nella diocesi di San Marcos (progetto Remhi, in 29 municipi) e nella regione del Peten (progetto “Nuestra historia ldentidad futuro”, teso a ricostruire il tessuto comunitario dei popoli che convivono nella regione).Insieme alla Pastorale sociale Caritas della diocesi di Verapaz, si lavora per il rafforzamento dell’azione sociale a favore delle comunità indigene, mentre a Cobàn viene sostenuto un centro di orientamento per donne.Caritas Italiana infine, è presente in Guatemala con alcuni caschi bianchi e finanzia alcuni microprogetti.

«Il martire Gerardi dieci anni dopo»

di di Alvaro Ramazzini Imeri vescovo di San Marcos (Guatemala)
Fonte:http://www.missionline.org/

Il 26 aprile 1998, nella casa parrocchiale di San Sebastian a Città del Guatemala, veniva ucciso il vescovo ausiliare Juan Gerardi, 75 anni, personalità fortemente impegnata per la verità e la riconciliazione nel Paese (cfr. M.M., giugno-luglio 1998, pp.68-70). A dieci anni di distanza - e nel mese in cui si ricordano i martiri missionari - abbiamo chiesto di ricordarlo a monsignor Alvaro Ramazzini Imeri, vescovo di San Marcos in Guatemala, voce che in questi anni ha raccolto l'eredità di Gerardi.

Sono passati dieci anni dal brutale assassinio del vescovo Juan Gerardi. Lui è stato un buon pastore, convinto difensore dei diritti dei più poveri e degli indifesi. Uomini e donne che per anni non hanno potuto alzare la voce per reclamare ed esigere rispetto per la loro dignità umana e per la loro condizione di figli e figlie di Dio.Nell’assassinio premeditato e astutamente pianificato contro il vescovo Juan Gerardi e contro molti altri che come lui si sono fatti araldi del Vangelo della verità e della giustizia - come nella crocifissione e morte di nostro Signore Gesù Cristo, pianificata e voluta dalle autorità religiose ebraiche del tempo in connivenza con Ponzio Pilato, rappresentante dell’imperatore romano a Gerusalemme -, dobbiamo vedere, al di là degli elementi storici e delle circostanze, un significato storico più profondo, coerente, comprensibile solo dal punto di vista della fede.Gesù è passato per questo mondo «facendo il bene». Tutta la sua vita, le opere, le parole, sono un’espressione chiara e coinvolgente dell’amore di Dio. Perché allora è stato crocifisso? Qual è stata la ragione della sua morte?Sono le stesse domande che assediano i nostri pensieri a dieci anni dall’assassinio del vescovo Gerardi: perché è stato assassinato? Chi ha pianificato la sua morte? Che cosa speravano di ottenere con questo omicidio? È stato un atto di vendetta perché lui è stato un buon pastore che ha difeso il suo gregge? È stata una manovra politica il cui obiettivo andava al di là dell’uccisione del vescovo? Se c’è qualcosa che ha caratterizzato la vita del vescovo Gerardi è stata la sua passione per la verità, la giustizia, la libertà e l’amore per i poveri e gli esclusi. Questa passione lo ha portato a elaborare e sostenere il progetto denominato Proyecto de recuperación de la memoria histórica (Remhi). Infaticabilmente, fino all’ora della morte, ha cercato di aprire spazi che offrissero alla società guatemalteca un’alternativa di vita e non di morte, come invece faceva la repressione senza nessuna misericordia. Annunciava e difendeva il valore della vita umana, come parte essenziale del progetto di Dio, contro tutto ciò che la distruggeva: gli assassini extragiudiziari, le persecuzioni ai danni dei difensori della giustizia, la miseria e la povertà estrema che generavano fame e denutrizione nella sua terra. Il sogno immenso del vescovo Gerardi è stato quello di raggiungere una pace stabile e duratura nel quadro di una riconciliazione che aiutasse a sanare le ferite profonde che il conflitto armato aveva provocato con il suo tragico strascico di morte e di violenza. In America Latina sono tanti i laici e le laiche, i vescovi, i sacerdoti, i catechisti e le persone interamente consacrate a Dio che hanno versato il loro sangue per seguire Gesù in modo fedele e coerente. E questo è successo in modo particolare in Guatemala, dove quattordici sacerdoti sono stati assassinati durante il conflitto armato, insieme a numerosi cristiani che non hanno avuto paura di morire. Le parole di Gesù ratificate dal suo esempio - «non abbiate paura di chi uccide il corpo» - hanno orientato la loro esistenza, hanno animato il loro spirito, li hanno resi audaci e coraggiosi.
Il vescovo Juan Gerardi, col Progetto Remhi, ha cercato di rivendicare la memoria di questi uomini e donne fedeli al Padre nella loro scelta di seguire il Signore, dimostrando che le strategie usate per eliminare queste persone, il cui unico intento era quello di instaurare il Regno di Dio, sono state freddamente calcolate nell’oscurità dell’inganno, del fanatismo politico, delle rivendicazioni ideologiche e delle manipolazioni. È per questa iniziativa, per i suoi diversi e profondi significati e le conseguenze che ne sarebbero derivate, che questo pastore è stato chiamato a dare testimonianza della sua coerenza e integrità donando la sua stessa vita.Fin dall’inizio i cristiani hanno sofferto a causa di persecuzioni. Prima sono stati perseguitati dalle autorità ebraiche, poi dagli imperatori romani. Questi ultimi vedevano con timore e grandissima preoccupazione come il loro potere mondano, la loro autolatria imposta e i difetti di ogni impero venivano sovvertiti dalla forza della testimonianza di quanti, senza paura della morte, entravano nella vita eterna, mostrando il loro immenso amore per il Signore risorto.
L’esperienza esistenziale di essere amato e amare il Signore ha sostenuto e sostiene i martiri, che sono non solo testimoni della verità, ma soprattutto testimoni dell’amore. Sono i perfetti evangelizzatori. La storia della passione e morte di Gesù e dei martiri è una storia d’amore, perché «nessuno possiede amore più grande di chi dona la vita per gli amici». (Gv 15,13)Il vescovo Gerardi ha amato profondamente il suo popolo e ha sempre cercato il bene comune, che non si poteva raggiungere senza manifestare la forza della verità. Le ferite profonde che ancora oggi toccano l’anima dei guatemaltechi devono essere guarite col balsamo dell’amore. Chi ama veramente ha la capacità di affrontare la verità per correggere gli errori e orientare il futuro su percorsi di concordia. Il vescovo Gerardi, cosciente di tutto questo, non ha risparmiato sforzi affinché ciò si realizzasse. I martiri sono stati uomini e donne fedeli alla loro vocazione cristiana nelle circostanze storiche in cui hanno vissuto. Sono diventati santi vivendo in mezzo al mondo, senza essere del mondo. Il mandato di Gesù di essere luce del mondo e sale della terra non è possibile senza questo mondo e questa terra.
Questo presuppone anche un’incarnazione nella vita e nella realtà concreta del tempo. Non si tratta solo di annunciare il Vangelo della vita e della pace, ma anche di adattarlo alla vita quotidiana con uno spirito profetico. Così si portano allo scoperto i pensieri e i sentimenti più intimi, scoprendo tutto quello che si oppone alla volontà di Dio.Cosciente di questo, il vescovo Gerardi, due giorni prima di essere ucciso, presentando pubblicamante nella cattedreale di Città del Guatemala i risultati delle indagini sulla storia della violenza del Paese - raccolti in quattro volumi intitolati Guatemala nunca más (Guatemala, mai più) - diceva: «Vogliamo contribuire alla costruzione di un Paese diverso. Per questo abbiamo recuperato la memoria del popolo. Questo cammino è stato e continua ad essere pieno di rischi, ma la costruzione del Regno di Dio comporta dei rischi e solamente i suoi edificatori hanno la forza di affrontarli». Sì, un Paese diverso, un Paese in pace, con la pace vera che viene solo da Gesù Cristo, fondata sui pilastri della verità, della libertà, della giustizia e della carità. Era il Paese sognato da questo vescovo. Per questo Paese aveva corso il rischio di sostenere il progetto Remhi, arrivando fino alle ultime conseguenze. Non con le sue sole forze, ma con la forza che viene dall’alto, perché non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di fortezza.In questo contesto, l’assassinio del vescovo si è trasformato in una coraggiosa denuncia di un sistema che per anni ha spogliato i guatemaltechi della loro dignità e del loro diritto a vivere con gioia e tranquillità. Un sistema in cui si idolatra il denaro, il potere e il piacere, a detrimento dei più poveri e dei più deboli, cioè dei popoli indigeni e dei contadini. Il vescovo Gerardi conosceva molto bene la realtà indigena e contadina dai suoi anni giovanili come sacerdote e poi come vescovo di Verapaz e del Quiché. Le fede vissuta fino all’estremo nel dono della propria vita ci apre alla trascendenza di Dio e ci incoraggia ad assumere l’impegno a rendere presente nella storia l’utopia del Regno di Dio. I martiri e i testimoni della fede danno ragione alla croce di Cristo e rendono possibile la speranza di un futuro differente, di un’umanità rinnovata, di cieli e terra nuova. Hanno dato le loro vite affinché nei nostri popoli la speranza si mantenga sempre viva. Nella debolezza del loro corpo mortale hanno permesso che si rendesse presente la forza del Signore risorto, e così, anche se agli occhi dei loro assassini e persecutori la loro morte è stata inutile e ha rafforzato la loro arroganza e superbia, la verità è stata un’altra: loro vivono per sempre. Questa è la verità definitiva. Verità e storia definitive anticipate nella morte dei testimoni della fede: Oscar Romero, Juan Gerardi e tanti tanti catechisti e delegati della Parola in tutto il continente americano.
Finché esisteranno realtà che denigrano l’essere umano, negandogli il valore della sua dignità di persona creata a immagine e somiglianza di Dio, redenta dal Sangue dell’Agnello, i cristiani sono chiamati a testimoniare la loro fede, speranza e carità. La testimonianza sarà sempre scomoda per coloro che sono del «mondo». Se i testimoni sono perseguitati, attaccati o assassinati, il loro sangue sarà sempre seme di più numerosi e migliori cristiani. Gesù Cristo e lo Spirito Santo muovono la Chiesa e la invitano a intraprendere il cammino della spiritualità del martirio per testimoniare il Regno a partire dai poveri e dagli esclusi. Oggi, per la Chiesa universale e in particolare per la nostra Chiesa del Guatemala, la testimonianza del vescovo Gerardi e di quanti sono stati assassinati per la loro scelta a favore del Signore, è una sfida e uno stimolo a continuare il loro cammino: quello della costruzione di una società più umana, segno palpabile della presenza di Dio. Il sangue di monsignor Gerardi sarà seme di nuova vita e di fortezza per coloro che credono in Gesù, che è stato crocifisso, è morto e il terzo giorno è risorto e un giorno verrà a giudicare l’umanità intera.

(traduzione a cura di Alessandro Armato)

Tornano i fantasmi del passato

Minacce, intimidazioni, sequestri e assassinî politici si susseguono con ritmo impressionante, che ricorda gli anni più bui della repressione. Il braccio armato dei poteri occulti cerca di asfissiare la società civile con la violenza.

Dal nostro corrispondente Juan Hernández Pico.
Traduzione e redazione di Marco Cantarelli.
Fonte: http://www.ans21.org/

Il 20 Marzo scorso, verso le 18.30, vari uomini armati hanno fatto irruzione nella sede della Associazione per il Progresso delle Scienze Sociali in Guatemala (AVANCSO). Approfittando dell’assenza del guardiano, uscito per comprarsi la cena, gli assalitori lo hanno aspettato nei pressi e al suo ritorno lo hanno minacciato con le armi per farsi aprire il portone. AVANCSO ha sede proprio davanti al parco San Sebastián e alla chiesa omonima, dove fu assassinato ormai quattro anni fa il vescovo Juan Gerardi. Appena tre isolati separano questo edificio dal Palazzo Nazionale, dallo Stato Maggiore Presidenziale – cioè, i servizi (più) segreti –, dalla Casa e dalla Guardia presidenziali.Gli assalitori hanno colpito il guardiano con la sua stessa arma e si sono diretti senza esitazione agli uffici del dipartimento di ricerca sul campesinado, sfondando la porta. Quindi, sempre scardinando la porta, sono entrati nell’ufficio dove si impaginano le pubblicazioni del centro. Poi, hanno abbandonato l’edificio, senza portare via alcunché. In altre parole, si è trattato di un atto di mera intimidazione.Una settimana prima del fatto, AVANCSO aveva presentato il libro della storiografa Matilde González, dal titolo Se cambió el tiempo (Il tempo è cambiato). L’opera, frutto di un lavoro di sette anni, narra la storia di spoliazione prepotente delle terre comunali del municipio, a prevalente carattere indigeno, di San Bartolo Jocotenango, nel Quiché, a partire dalla riforma liberale del 1871. Il testo documenta la presenza opprimente in quel luogo dei grandi latifondisti, il ruolo dei contrattisti prima ladini poi indigeni, il ricorso agli indigeni contrattisti da parte dell’esercito che li utilizzò come commissari militari e, quindi, dal 1980 come capi delle Pattuglie di Autodifesa Civile (PAC); e poi ancora, i massacri, la schiavitù e le continue violenze ai danni delle donne superstiti perpetrate da quegli uomini, la continuità del potere militare nella zona per mezzo dei cosiddetti “vicari” dell’esercito che altri non sono che gli ex capi delle PAC...Lo stesso 20 Marzo, era apparso sul giornale El Periódico un’inserzione, firmata da AVANCSO e da altre 19 organizzazioni della società civile, che denunciava le calunnie e le minacce di morte contro il vescovo di San Marcos, Alvaro Ramazzini, e contro vari sacerdoti impegnati a fianco dei contadini. Nel comunicato si manifestava solidarietà con tutti i minacciati e si esigevano soluzioni alla problematica nelle campagne.Dopo l’irruzione, in vari comunicati apparsi sui media, varie organizzazioni della società civile hanno manifestato solidarietà ad AVANCSO e a quanti ricevono minacce per il loro impegno civico.È preoccupante che il clima di violenza sia peggiorato notevolmente, dopo e nonostante la riunione dell’11 e 12 Febbraio a Washington, del Gruppo Consultivo, alla presenza di rappresentanti della società civile guatemalteca, in cui il presidente Portillo ed esponenti del suo governo si sono impegnati a realizzare quelle riforme necessarie per migliorare la sicurezza civica ed eliminare l’impunità.Tra i crimini commessi dopo la riunione, almeno due omicidi “puzzano” di politico. Quello di César Rodas, testimone importante in un caso di produzione illegale di pubblicazioni, stampate nelle Tipografia Nazionale, contro il presidente della Camera di Commercio Jorge Briz, caso per il quale pende sul vicepresidente della Repubblica, che avrebbe autorizzato tale stampa, una richiesta di autorizzazione a procedere. E quello di Jorge Rosal, dirigente del nascente Partito Patriota, guidato dal generale in pensione Otto Pérez Molina, che tre giorni prima, insieme ad altri politici, fra cui Alvaro Colom probabile candidato alla presidenza nel 2003, aveva guidato una manifestazione civica per esigere la rinuncia del presidente e vicepresidente della Repubblica di fronte ai nuovi scandali di corruzione.Altro caso grave: un’operazione della sezione antinarcotici della polizia nelle vicinanze di Chocón, piccolo villaggio nel dipartimento di Izabal, si è trasformata in una battaglia durata vari giorni, con un bilancio di vari morti fra gli abitanti, in circostanze ancora confuse che alimentano più di un dubbio. A guidare l’assedio, secondo vari testimoni, sarebbe stato il “numero due” della sezione. A farne le spese, più che i narcotrafficanti, per ora sembrano essere stati tre contadini della zona, forse scomodi testimoni.D’altro canto, all’alba del 25 Febbraio, è stato sequestrato Lizardo Sosa, presidente del Banco di Guatemala. Personalità fra le più autonome dell’attuale governo, Sosa ha mantenuto fin qui fermezza nell’indagine amministrativa sulle cosiddette “banche gemelle”, di proprietà di Francisco Alvarado Macdonald, amico del presidente Portillo e gran finanziatore della sua campagna elettorale, nonché garante dell’affitto della sua elegante casa e proprietario della Mercedes Benz e di altri veicoli blindati della scorta del presidente, anche questi affittati. L’anno scorso, gli avvocati di Alvarado avevano accusato Sosa e altri funzionari della Giunta Monetaria, chiedendo di porre sotto sequestro i loro beni per rispondere dei danni presuntamente provocati dall’intervento sulle “banche gemelle”. Sosa si sta battendo energicamente per far passare quattro leggi di riforma del sistema finanziario, fra cui una che cerca di arginare il fenomeno del riciclaggio di denaro “sporco”. In breve, nessuno, in Guatemala, crede che il sequestro sia stato opera della delinquenza comune. Ancora una volta, il senso di tale reato è intimidatorio e politico.Sta di fatto che la mattina del 28 Febbraio, 72 ore dopo il rapimento, Lizardo Sosa è stato rimesso in libertà dopo il pagamento di un riscatto. Giorni dopo, volanti della polizia e – si presume – dell’esercito si sono incrociate nei pressi di una abitazione che si presume appartenesse ai servizi segreti. Nelle concitate e, al solito, confuse scene che sono seguite, una persona vestita civilmente, scesa dalla macchina dei militari, anch’essi in borghese, è rimasta sul terreno, nonostante (pare) gridasse di non sparare, sostenendo: «Siamo la stessa cosa di voi!...» I testimoni delle case vicine hanno dichiarato ai media che i veicoli erano impegnati nel trasbordare dollari – si suppone – provienienti dal riscatto pagato per Sosa. Il quale, dopo pochi giorni di riposo, ha ripreso la sua battaglia a favore delle leggi finanziarie proposte.Ancora: un incendio ha semidistrutto la casa parrocchiale di Nebaj, il più importante municipio del cosiddetto Triangolo Ixil, nel nord dell’altopiano del Quiché. L’incendio è scoppiato alle 3 del mattino del 21 febbraio e, secondo testimoni, la sua origine è dolosa. Non ci sono state vittime, dal momento che il parroco si trovava nel capoluogo dipartimentale e le due persone che dormivano nella casa sono riuscite a mettersi in salvo. Grazie ad esse, si sono salvati alcuni computers e non sono andati persi tutti i documenti parrocchiali. Tuttavia, le fiamme hanno bruciato, oltre ai libri dei battesimi e matrimoni, documenti originali della ricerca sul Recupero della Memoria Storica (REMHI) e altri appartenenti al gruppo di antropologi forensi che stanno realizzando gli scavi nel municipio. Durante il conflitto armato interno, quando le terribili operazioni di terra bruciata si accanirono contro i villaggi di tre municipi e specialmente Nebaj, nel Triangolo Ixil era notoria la presenza di Popolazione Civile in Resistenza.È noto anche il protagonismo della diocesi del Quiché e del suo vescovo Julio Cabrera nella preparazione del rapporto REMHI. Nonché il ruolo del sacerdote Rigoberto Pérez, parroco di Nebaj, nella Commissione di Pace e Riconciliazione della diocesi del Quiché.Otto giorni dopo, sono stati minacciati di morte antropologi forensi di tre organizzazioni di diritti umani. L’opposizione degli antichi membri delle pattuglie e, in generale, dei militari in servizio e di quelli in pensione, si è fatta sempre più dura contro le riesumazioni di quanti sono morti nei massacri di quegli anni. Nell’esteso, dettagliato e impressionante rapporto sul Guatemala di Amnesty International 2002, dal titolo L’eredità mortale del Guatemala, si documentano il passato di impunità e le nuove violazioni ai diritti umani. In esso, si legge come soldati e membri delle antiche PAC «avvertissero i possibili testimoni» di massacri nei processi intentati nella capitale contro l’ex presidente Lucas, l’ex capo di Stato Ríos Montt e membri dei loro governi: «Dimenticatevi delle ossa. Se volete denunciare ciò che è successo nel villaggio, rivivrete la stessa cosa».Sempre in Marzo, sono state reiterate le minacce di morte contro monsignor Ramazzini, vescovo di San Marcos. Tali minacce risalgono già ai tempi del governo Arzú, in coincidenza con la coraggiosa difesa fatta dal vescovo dei diritti dei contadini alla terra e dei braccianti ad un salario dignitoso. Esponenti della Associazione di Agricoltori e Allevatori di Guatemala, come l’ingegnere Gustavo Anzueto – accusato da molte testimonianze raccolte nel rapporto REMHI di prestare all’esercito i suoi aerei da turismo, che una volta dotati di bombe e mitragliere, contribuivano alla repressione –, e Humberto Pret, presidente della Camera dell’Agro, hanno denunciato Ramazzini di essere un «religioso marxista».Fin dagli anni ‘80, Ramazzini si batte contro le ingiuste condizioni di vita dei contadini. In quegli anni, visitò anche la Popolazione Civile in Resistenza nella Selva del Ixcán.Oggi, è incaricato della Pastorale della Terra nella provincia ecclesiastica di Los Altos. In passato, ha anche difeso il sacerdote José María Aldaz, anch’egli minacciato di morte per aver difeso le occupazioni di terre da parte dei contadini della sua parrocchia.Negli stessi giorni è stato anche minacciato anche Francisco Cuevas, sacerdote incaricato della parrocchia di Panajachel, ridente località turistica sul lago Atitlán...

Conversazione con mons. Alvaro Ramazzini

In Italia per una serie di incontri a Como, San Zeno di Colognola ai Colli (VR) e Milano, Monsignor Alvaro Ramazzini ha condiviso le sue preoccupazioni e le sue speranze di pastore e ci ha aiutato a conoscere meglio la realtà del suo paese.

Mons. Ramazzini è un uomo ottimista e positivo, capace di leggere un segno di speranza in ogni avvenimento, anche in quelli difficili che sta attraversando da decenni la sua patria, il piccolo Guatemala, incastonato nell’istmo centroamericano paradiso dalle mille bellezze per i turisti, per decenni inferno di violenza e morte per i suoi stessi abitanti.

Con semplicità e cortesia Mons. Ramazzini ha risposto a tutte le domande che gli sono state rivolte durante gli incontri con i giornalisti e con il pubblico. Ha condiviso momenti ufficiali e incontri informali con la stessa disponibilità e lo stesso sorriso aperto e cordiale.

LA SITUAZIONE DEL GUATEMALA.

Dopo la firma degli accordi di pace del 1996, che posero fine al conflitto armato tra esercito e guerriglia, il Guatemala non fa più notizia, Mons. Ramazzini afferma: “Credo che sia proprio così, quando faccio incontri in Europa e negli USA, vedo che i nostri problemi sono sconosciuti, e che l’attenzione va verso l’Africa, si parla molto meno dell’America Latina, e solo quando ci sono avvenimenti come le dichiarazioni di Chávez o l’elezione del nuovo presidente del Paraguay.
Normalmente non c’è molta attenzione dei mass media verso l’America Centrale”

D. Sono passati dieci anni dall’assassinio di Mons. Juan Joeè Gerardi. Come è cambiata la situazione in Guatemala? Si può parlare di un superamento della violenza e di clima di pace nel paese?

Ora abbiamo più morti che durante il conflitto armato, il tasso di omicidi è di 13-16 omicidi al giorno, quindi c’è una violenza molto alta, poi c’è anche molto narcotraffico e crimine organizzato, c’è molta violenza anche delle bande giovanili, aumentate in questi ultimi anni.
All’epoca del conflitto armato, c’era la violenza militare, ma adesso la violenza c’è perché ci sono bande di sequestratori e di narcotrafficanti, e tanti giovani che non hanno nessuna opportunità di vivere e trovare un lavoro, e si organizzano in queste bande.
Poi anche perché in Guatemala, come conseguenza del conflitto armato, si è perso il senso del rispetto della vita. Credo che questo sia normale nei paesi dove c’è stata la guerra, ci sono tanti poliziotti accusati di corruzione, che sono stati cacciati via dalla polizia, e loro sicuramente continueranno a comportarsi in modo illegale, sequestri, estorsioni, anche perché è un modo per vivere.
Adesso nella zona di San Marcos, ci sono stati 11 casi di sequestri, le persone vengono obbligate a pagare il riscatto, e abbiamo adesso due casi di donne che non si sa dove stanno, hanno pagato il riscatto ma non sono state restituite alle loro famiglie.
Abbiamo uno Stato ancora molto debole, appena cominciamo a vivere la democrazia, finora abbiamo avuto soltanto quattro governi eletti democraticamente, prima avevamo solo governi militari. E da non dimenticare il problema dell’impunità e di un sistema giudiziario molto debole: non si fanno ricerche per individuare i responsabili di tanti omicidi e delitti, poi abbiamo un sistema delle carceri dove non ci sono processi di recupero delle persone, tanti casi di sequestri si organizzano proprio dentro le carceri, e abbiamo un sistema dove l’impunità è la regola di tutti i giorni, i giudici non riescono a risolvere tutti i casi, anche perché non abbiamo una polizia che ricerca molto.
Nel mese scorso c’è stato un cambiamento dei capi della polizia, io spero che questo dia risultati perché c’erano delle voci che alcuni dei capi di prima erano coinvolti in casi di sequestri.
A questo livello della violenza, della povertà, e anche della mancanza di opportunità per i giovani, le cose sono adesso peggiori che durante il conflitto armato.
E poi la collego in modo diretto con la situazione di povertà, che è aumentata in Guatemala, è una situazione molto difficile, di disperazione per tante famiglie, quindi la tentazione dei soldi facili cresce, abbiamo tanti casi di persone che vanno alle banche a prendere dei soldi, e vengono poi derubati e anche uccisi.
Adesso la povertà è cresciuta in Guatemala, parliamo di un 80% della popolazione povera e un 60% in situazione di estrema povertà, e questo dobbiamo metterlo in rapporto con una popolazione in maggioranza giovane, la maggioranza della popolazione (73%) in Guatemala va da 1 a 24 anni.
Per me adesso la situazione del Guatemala è peggiore, sotto questo profilo della povertà, della violenza, del numero di omicidi, che abbiamo e poi anche perché non abbiamo avuto cambiamenti profondi della struttura economica nostra, il neoliberismo è la corrente economica che domina l’America Latina, continua a fare più poveri i poveri e più ricchi i ricchi e questo genera tra le persone anche un senso di delusione e di frustrazione. Quindi per noi adesso la situazione è molto critica.

D. Ci può parlare della riforma agraria, ci può spiegare meglio quali sono i contenuti e che cosa si chiede che venga fatto?
R. noi chiediamo un nuovo catasto, perchè ci sono molte estensioni di terre che non vengono coltivate, chiediamo che ci sia un ordinamento secondo il quale si possa verificare quali di queste terre non vengono usate e così si possa avere una disponibilità su queste terre, non dico di toglierle ai padroni, ma cercando un accordo, di comperare queste terre, non al prezzo del mercato, perché allora loro se ne approfittano. Abbiamo avuto anche questa esperienza, perché vendono le terre ad un prezzo molto alto, più alto di quello che hanno pagato la terra prima.
Poi insistiamo che ci sia un appoggio diretto a quella che noi chiamiamo “economia di sopravvivenza contadina”, cioè che ci sia veramente un appoggio ai piccoli contadini che sono la maggioranza, non solo nel senso di avere l’opportunità e la terra per lavorare, ma anche che ci siano dei crediti per loro, l’assistenza tecnica, trovare dei mercati per i loro prodotti. Poi vogliamo veramente che questo modello di esportazione (perché Guatemala vive dell’esportazione di caffé, banane, zucchero) venga sottoposto a una riforma delle tasse, che faccia una giusta distribuzione dei profitti. Perché in Guatemala non è stata fatta una riforma delle tasse, c’è una evasione delle tasse grandissima, Guatemala è il terzo paese in tutta l’America Centrale con in livello più alto di disuguaglianza tra l’ingresso dei profitti e la distribuzione verso la popolazione. Quindi il Guatemala è il paese dove c’è una concentrazione della ricchezza in mano di pochissimi, alcuni analisti parlano di 19 famiglie, non so se sia vero, ma alcuni dicono così, perché c’è un giro d’affari tra diverse famiglie.

D. Quali sono le zone più a rischio dove si verificano le maggiori violenze?
R. Adesso nella periferia di Città del Guatemala, ci sono certi quartieri dove le bande giovanili hanno il controllo, dove c’è gente che viene dall’interno del paese a vivere lì, sono le zone più a rischio. Poi anche nelle zone della Costa dove c’è il corridoio del traffico della droga, e adesso anche il nord del paese sono le zone più a rischio. Per quanto riguarda la costa, direi che sia la costa atlantica che quella pacifica, anche se la costa atlantica per noi è piccola, non abbiamo una uscita al mare così grande, ma nella zona di Izabal c’è molta violenza, perché si sa che c’è un giro di droga forte. Difatti tre mesi fa si sono uccisi tra loro capi della droga, e sono state uccise 14 persone, un po’ quello che succede in Messico, dove adesso si uccidono tra di loro

D. Un aspetto positivo sembra riguardare proprio le opportunità per i giovani, in particolare l’accesso all’educazione primaria è aumentato, è una cosa che corrisponde alla realtà?
R. Sì, anche perché adesso il governo ha iniziato a sviluppare un piano, chiamato trasferimento di soldi convenzionati, stanno individuando i municipi più poveri, e danno una certa quantità di soldi alle famiglie che devono mandare a scuola i figli, se vogliono ricevere i soldi, specialmente alle elementari. Credo che questo sia positivo, è vero l’aumento della partecipazione dei bimbi alla scuola elementare. Ci sono ancora gravi mancanze comunque, perché molte volte l’educazione finisce quando finiscono le scuole elementari, abbiamo anche moltissimi casi di bambini lavoratori, circa un milione e quattrocento mila bambini che lavorano, aiutano i genitori a raccogliere il caffé, fanno lavori sulla strada, il problema del lavoro infantile è un problema molto serio.

LA CHIESA IN GUATEMALA

Mons. Alvaro Ramazzini, bisnonni italiani, da 19 anni è vescovo di San Marcos, una diocesi al confine con il Messico, ha vissuto gli anni della violenza e ha accompagnato la sua gente alla ricerca della verità e della giustizia e continua nella sua opera di difesa dei diritti umani e di promozione sociale dei più poveri.
Figura prestigiosa della chiesa latinoamericana, per il suo impegno sociale e il suo coraggio, è uno dei testimoni privilegiati per aiutarci a leggere l’attuale momento storico che sta vivendo il Guatemala. Per due anni presidente della Conferenza Episcopale del Guatemala (CEG), è ora presidente della Commissione dei Migranti della CEG.

D. Ci vuole parlare della presenza della Chiesa, quali sono le attività principali che caratterizzano parrocchie e diocesi di fronte a questa situazione?
R. Noi insistiamo sul tema del rispetto della vita, in tutte le diocesi e anche nei vicariati apostolici. I Vescovi e i sacerdoti insistono, parlano, predicano su questo tema, poi cerchiamo anche di sviluppare maggiormente i nostri progetti di pastorale sociale, anche per dare un aiuto economico alle persone, ai problemi di tipo sanitario, e poi ci sono tanti programmi di borse di studio per bambini, appoggio alle donne.
Io credo che in tutto il Guatemala la Chiesa cerca di avviare progetti di pastorale sociale, che offrano un po’ di sollievo a questa situazione, non che noi abbiamo tanti soldi per poter aiutare, abbiamo rapporti con la cooperazione internazionale, per cercare di aiutare queste persone che sono a rischio di povertà e miseria. Credo che queste sono le nostre attività, cioè una spinta molto forte sui programmi di pastorale sociale, e poi un continuo e permanente stato di dichiarare, insistere, parlare delle responsabilità di essere cristiani, di vivere come cristiani, di rispettare la vita e così via.
Il fatto che noi siamo così vicini alla frontiera con il Messico e che abbiamo una frontiera così lunga, e anche l’influsso dei cartelli messicani, che sono così ben organizzati, ci ha fatto diventare un posto importante per loro. E poi non solo c’è il traffico della droga, ma in certe regioni del Guatemala, specialmente nelle zone dove io sto, San Marcos, si coltivano i papaveri, ci sono delle zone molto favorevoli per la crescita dei papaveri, sono delle montagne difficili da raggiungere, e quindi molti contadini sono stati contattati per coltivare la droga e lo fanno, e ricevono un mucchio di soldi, una quantità che mai potrebbero avere se continuassero a coltivare mais. Questo è abbastanza recente, quando sono arrivato io a San Marcos 19 anni fa, c’erano altre regioni, ma adesso questa zona del Tajumul, vicino al vulcano, hanno cominciato sei o sette anni fa, lì ci sono le zone dove l’esercito è entrato, e anche la DEA degli USA, tagliano tutto, marijuana, papaveri, poi se ne vanno, poi i contadini riprendono a coltivare, perché non ci sono programmi di sviluppo per questa gente, e ci sono grandissimi guadagni per loro.
Io parlavo una volta con un contadino, mi diceva che per un bicchiere pieno di latte che viene dal papavero, riescono ad avere 10.000 dollari, quindi per loro è una tentazione molto grande.
Sono tutti piccoli contadini, non hanno grandi estensioni di terra. E molti contadini non sanno il danno che fanno, difatti alcuni anni fa io ho conversato con il capo della DEA americana (che lotta contro il narcotraffico), e dicevo loro: voi dovete fare una pubblicità massiccia per fare capire ai contadini i danni dell’uso della droga in altri paesi.
La chiesa del Guatemala cerca di fare sensibilizzazione, ma io me ne accorgo che è più forte il bisogno e la mancanza di alternativa per loro che la nostra parola. Quando vado là, parlo in modo duro contro questa pratica, ma è difficile per loro, perché quelli che vengono coinvolti in questo tipo di attività non vengono in chiesa. Ma continuiamo a fare questo lavoro di sensibilizzazione.
Il Governo non ha fatto nulla, non ha previsto programmi e coltivazioni alternative. Io avevo parlato con il Ministro dell’Interno precedente, che purtroppo è stato cambiato, con lui avevamo detto che bisognava incentivare dei progetti di sviluppo per questa gente, ma poi non hanno fatto più niente.

D. La chiesa in Guatemala, come in altri paesi, ha pagato il suo impegno con il sangue di tanti suoi figli . Chi sono i “testimoni della fede”?
R. Sono sacerdoti e laici, in Guatemala abbiamo perso 14 sacerdoti che sono stati uccisi durante il periodo del conflitto, in diverse diocesi del paese. Nel caso della diocesi di San Marcos non abbiamo avuto sacerdoti uccisi, ma abbiamo avuto catechisti, laici, uomini e donne molto impegnati nel lavoro pastorale, sono stati difensori dei diritti umani, hanno lottato a favore della giustizia, in un periodo nel quale tutte le garanzie individuali delle persone sono state eliminate, perché era diffusa una politica di repressione contro la popolazione, quindi, in quel periodo, qualsiasi persona fosse a favore dei diritti umani, della vita, della giustizia sociale, era considerata nemico dello Stato.
I governi si basavano sulla teoria della sicurezza nazionale, avevano paura che in Guatemala fosse stabilito un sistema marxista comunista, e questo ha fatto sì che ci fosse questa reazione così brutale contro tante persone.
I “testimoni della fede” sono stati tanti catechisti, alcuni erano collaboratori molto vicini ai sacerdoti, e poi anche alcune suore, due o tre, la maggioranza erano sacerdoti i laici.
L’ultimo che è stato ucciso è stato il Vescovo Juan Gerardi, due giorni dopo la presentazione pubblica di quello che noi chiamiamo il Recupero della Memoria Storica, un rapporto in 4 volumi, intitolato Guatemala Mai Più, nel quale si è cercato di fare un lavoro in tutte le diocesi, per capire la stata la storia della violenza, chi sono stati i responsabili, quali metodi hanno usato, chi sono state le vittime, e poi le torture che hanno usato. Alla fine di questo lavoro si è stabilito che la maggioranza delle violazioni dei diritti umani avvenute durante il conflitto sono state fatte dall’esercito, una piccola parte dalla guerriglia: l’83% dall’esercito e il 12% dalla guerriglia. Il Vescovo Gerardi è stato l’anima, l’ispiratore di questo lavoro, che hanno fatto tutti i vescovi del Guatemala, realizzando delle interviste alle vittime.

D. Quale è la situazione attuale, ci sono ancora uccisioni di “testimoni della fede”?
R. Adesso no, piuttosto ci sono state minacce, ma non solo contro esponenti della Chiesa, come nel mio caso, ma anche contro gli attivisti dei diritti umani. L’ultimo caso di spicco è stato quello dell’agguato ad uno dei difensori dell’ambiente, l’organizzatore di una associazione che si chiama CALAS (Centro di assistenza legale per problemi di tipo ambientale) e hanno cercato di ucciderlo. Il suo nome è Yuri Melini, gli hanno sparato diverse volte. Due settimane fa è venuto con l’ambasciatore olandese a San Marcos e ci ha fatto una presentazione dove sono riusciti a dimostrare che alcuni articoli della legge sulle miniere sono contro la Costituzione. La Corte di Costituzionalità del Guatemala gli ha dato ragione, e può darsi che venga da lì l’agguato, non dico dalla compagnia mineraria, ma da qualche settore che è d’accordo con questa attività e non è d’accordo con l’atteggiamento di questa associazione.

D. Lei è stato vittima di minacce, quali sono i motivi e da chi provengono?
R. In Guatemala è difficile dire da dove possono provenire queste minacce. Ma in diocesi noi abbiamo fatto delle scelte ben precise, insistiamo sulla necessità di una riforma agraria nel paese. In Guatemala parlare di riforma agraria significa parlare di un tema tabù, potrebbe essere che vengano da questo settore. Noi nella diocesi sempre abbiamo fatto scelte in favore dei diritti della persona, quindi qualsiasi situazione che noi vediamo, che va contro i diritti umani delle persone, noi la denunciamo. E allora potrebbe essere che ci sono dei settori ai quali non piace che la Chiesa di nuovo assuma questo protagonismo a favore dei diritti umani della persona.
Poi adesso manteniamo una posizione molto critica contro l’industria estrattiva dell’oro e dell’argento, perché nella diocesi di San Marcos abbiamo una compagnia canadese che sfrutta l’oro e l’argento (una filiale della Gold Corp. Inc., la terza produttrice di oro e argento in tutto il mondo): non credo che le minacce vengano dalla compagnia, non ci credo, ma può darsi che ci siano dei settori economici ai quali interessa che questo tipo di industria si mantenga e può essere che le minacce vangano da parte loro. E un’altra possibilità è che queste minacce vengano dai narcotrafficanti, perché nella zona dove io sto abbiamo il problema del narcotraffico nella parte della costa del Pacifico, e poi abbiamo anche una zona dove i contadini hanno cominciato a coltivare i papaveri. Noi abbiamo denunciato in modo molto forte questa attività criminale dei narcotrafficanti. Ma loro normalmente non minacciano, ammazzano.
Quindi io direi che da questi tre settori potrebbero venire le minacce, ma è difficile da sapere.
Io ho avuto le ultime minacce il mese di marzo, poi da allora tutto è calmo e tranquillo. Questa volta una macchina si è avvicinata ad una religiosa che camminava per la strada, e un uomo dal finestrino ha puntato la pistola alla tempia della suora, e le ha detto: devi dire a quello là che i suoi giorni sono contatti. Questo è avvenuto a San Marcos , in mezzo alla strada. Purtroppo la suora si è spaventata e non ha visto la targa, mi ha subito telefonato, perché io ero in una riunione in una parrocchia per dirmi di stare attento. Alle volte vengono i poliziotti a casa mia a vedere che cosa succede.

D. Attualmente è sotto scorta?
R. Si. L’avevo lasciata, perché pensavo che tutto fosse ormai sparito, ma ho dovuto di nuovo prenderla, non tanto perché sia il mio desiderio, no, un po’ perché i sacerdoti e le religiose hanno insistito, io non lo vorrei assolutamente, perché se uno fa una scelta di vita deve essere coerente con questa scelta, quindi secondo me non è giusto che io abbia una scorta e ci sono altre persone che lavorano nel settore dei diritti umani e non hanno la possibilità di averla. Perciò io non sono d’accordo, ma mi vedo un po’ obbligato ad averla per questa pressione che mi fanno in diocesi.

IL GUATEMALA E IL MONDO

D. Che cosa si aspetta, se si aspetta qualcosa, dall’Unione Europea, e dal nuovo presidente americano nel caso fosse Barak Obama?
R. Nel caso del nuovo presidente americano noi ci aspetteremmo una riforma migratoria in favore dei nostri concittadini, e dei centroamericani in generale, che sono moltissimi negli USA, specialmente dell’Honduras, del Salvador e del Guatemala. Quindi io aspetterei da parte di Obama, se sarà lui presidente, una riforma migratoria dal volto umano, cioè che si tenga conto che si tratta di persone che hanno desiderio di trovare un lavoro giusto, degno, di guadagnare abbastanza per poter vivere, ciò che adesso non succede in Guatemala, perché la maggioranza dei migranti verso gli USA sono persone povere, a causa della povertà cercano di migrare, non importa anche correre il rischio di morire nel deserti dell’Arizona, non importa il muro che gli USA stanno costruendo, la povertà è qualcosa che spinge a queste persone ad andare negli USA attraverso il Messico.
E poi chiederei, anche se questo non dipende solo dal presidente americano, ma anche dal Senato, se fosse possibile rinegoziare il Trattato di Libero Commercio, che è stato firmato tra Usa e Guatemala. Credo che sia più difficile di fatto, anche perché è stato ratificato per dieci anni, e adesso abbiamo iniziato da solo due anni. Ma, secondo me, varrebbe la pena, se fosse possibile, una revisione, per capire quali sono gli effetti positivi di questo patto per la maggioranza della popolazione povera del Guatemala, non per i padroni delle grandi aziende, perché sappiamo che alla fine loro saranno i primi che approfitteranno di questo patto di libero commercio.
Per quanto riguarda la Comunità Europea, adesso si parla molto dell’Accordo di Libera Associazione tra America Centrale e Unione Europea. Per la UE sono importanti tre cose nel processo per arrivare all’accordo: 1) è importante per loro che ci sia una discussione molto ampia nella società civile dell’America Centrale, ma finora questa partecipazione ampia non esiste, le trattative sono solo a livello di governo, quindi questo non è un buon segnale per noi, 2) hanno insistito molto che si deve cercare di vedere come e quando di possa sviluppare una migliore cooperazione allo sviluppo, 3) ultima tappa la realizzazione di un patto di libero commercio tra Unione Europea e America Centrale.
Quindi, in ordine, al primo posto ci sarebbe l’aiuto allo sviluppo, poi il patto di libero commercio, ma io ho l’impressione che adesso la UE sta rovesciando l’ordine, adesso incominciano a parlare di libero commercio invece che di aiuto allo sviluppo, e io credo che questo sia uno sbaglio, perché noi abbiamo criticato fortemente l’accordo di libero commercio tra Usa e Guatemala per diverse ragioni, e non credo che debba essere questo il primo punto da discutere. Prima parliamo di come e quanto la Unione Europea può aiutarci nella cooperazione allo sviluppo. Allora io mi aspetterei che l’Unione Europea fosse coerente con quello che ha detto sin dall’inizio.

D. Per due anni è stato presidente della Conferenza Episcopale guatemalteca, e ora è presidente della Commissione per i Migranti della Conferenza Episcopale, ha presentato recentemente un documento delineando il profilo dei migranti centro americani che cercano di andare negli USA.
R. Attualmente la maggioranza di coloro che cercano di andare negli USA lo fanno a causa della povertà, prima era per il conflitto armato, poi per i disastri naturali. Ma oggi il motivo principale dell’emigrazione è la povertà. Sappiamo anche che la povertà è il risultato del sistema neoliberale, e vediamo la crisi negli Usa che dimostra come questo sistema è fallito.
In Guatemala la povertà crescente obbliga tantissime persone ad andarsene verso gli USA.
Si parla pochissimo del Messico, ma il governo messicano è uno dei responsabili che impedisce che tanti centroamericani possano passare attraverso il loro territorio verso gli USA. Siccome la politica migratoria tanto di USA che di Messico è così rigida e severa, questo fa sì che le persone, che sono in maggioranza contadini (è aumentato anche il numero delle donne) si vedono nell’alternativa di cercare vie più pericolose, perché si trovano il muro costruito dagli USA, ci sono i controlli, devono passare per il deserto, ci sono tanti rischi per la vita, ma comunque, questi ostacoli hanno un effetto, che loro cercano altre vie per passare, molto più pericolose. E difatti sappiamo di casi in cui molti sono morti.
E poi c’è un altro problema, quello della tratta delle persone, adesso cominciamo a dare visibilità a questo problema, perché oggi dopo la vendita delle droghe e delle armi, la tratta delle persone è uno degli affari più grandi del mondo. Noi non sfuggiamo a questo, abbiamo persone che si fanno pagare 5000 dollari per far passare i migranti verso gli USA. Cinquemila dollari sono tanti soldi, ci sono bande organizzate che hanno contatti in Messico, negli USA. Anche questo è adesso un problema.
E vediamo anche come le famiglie vengono disintegrate, molti uomini lasciano le famiglie in Guatemala, Salvador e Honduras, vanno negli USA e trovano un’altra donna, si sposano, poi vanno poi vanno via, lasciano la famiglia, non inviano più soldi, o anche li inviano ma si dimenticano dei loro bambini. Abbiamo una generazione che è cresciuta senza papà. E questo secondo me nel futuro causerà dei problemi.

D. Che ruolo hanno gli organismo internazionali in Guatemala?
Adesso noi abbiamo un rappresentate dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani, che fa un buon lavoro, anche perché informa, dice al governo che cosa succede, fa delle dichiarazioni, poi abbiamo il responsabile della Commissione Internazionale contro l’impunità, è uno spagnolo, di cognome Castresana, un mese fa ha fatto un rapporto al governo e al Congresso dicendo quali cose stanno succedendo e che cosa dovrebbe fare lo Stato. Hanno lavorato molto responsabilmente su proposte di nuove leggi, per evitare situazioni di impunità soprattutto. Quindi hanno fatto un lavoro eccellente, purtroppo lo Stato non da attenzione ai suggerimenti.

D. Quali sarebbero questi suggerimenti? Che cosa si dovrebbe fare in sintesi?
R. Ad esempio cambiamenti di certe leggi del codice penale, per fare si che i processi siano più veloci e più efficaci, poi hanno anche fatto delle modifiche alla proposta di legge sulle armi, quello che succede oggi è che un delinquente entra in carcere e dopo due giorni è fuori, e i poliziotti dicono che non fanno più niente, perchè loro portano in carcere, poi i giudici gli fanno avere la libertà dopo due giorni, e loro si chiedono a che cosa serve che rischiano, perché poi i delinquenti escono e li minacciano. Il responsabile della Commissione contro l’impunità ha dato dei suggerimenti, poi stanno lavorando sui alcuni casi molto importanti, ad esempio continuano sul caso Gerardi e altri casi così importanti, su cui non si sa niente, non si è fatta nessuna ricerca.

L’esempio di monsignor Romero a Tempi Dispari

di Pino Finocchiaro per Rai News 24

“Monsignor Romero non è mai stato un marxista. Si ispirava piuttosto alla Dottrina sociale della chiesa. Inevitabile quindi la sua opzione per gli ultimi, per i poveri”. Così è intervenuto a Rai news 24 il presidente della Conferenza episcopale del Guatemala, monsignor Alvaro Ramazzini nel corso della puntata dedicata al martirio dell’arcivescovo di San Salvador Oscar Romero, ucciso ventisei anni fa da un killer degli squadroni della morte al servizio dei latifondisti. Nel corso della trasmissione condotta da Carlo De Blasio, è intervenuta anche Ana Ortiz, sorella di un giovane sacerdote ucciso nel Salvador durante il mandato pastorale di Romero. Ana Ortiz ha offerto una ricostruzione commovente di quei giorni di tragedia e speranza. “Lo accusavano di essere un comunista – ha ricordato monsignor Ramazzini – ma questo capita a molti di noi. Ci accusano di essere dei vescovi rossi ma non è così. Abbiamo scelto semplicemente di stare dalla parte dei poveri. Ma non è una nostra scelta ce lo impone il Vangelo”. Tempi Dispari ha mandato in una ricostruzione del pensiero di Oscar Romero a cura di Pino Finocchiaro. Vi proponiamo il testo. Mons. Oscar Romero ebbe in sorte di essere considerato integralista dai sacerdoti ai quali chiedeva di dare per primi l’esempio rinunciando al peccato. Ed era considerato comunista dai latifondisti e dal sistema di potere che per loro conto governava il Salvador. Ecco cosa rispondeva Romero ai suoi detrattori. Cosa manca a certe tenute e poderi per chiamarsi piccoli stati sovietici? Vi si trovano proprio i frutti del sistema sovietico che tanto critichiamo: famiglia disorganizzata, distruzione della dignità individuale persa nella massa informe di lavoratori senza cultura, avviliti, praticamente uomini schiavi che lavorano e producono quasi esclusivamente per il benessere del padrone… Quando qualcuno critica queste crudeli ingiustizie sociali, immediatamente gli interessati lo tacciano di esser comunista, senza notare che sono piuttosto loro a fare, del piccolo ambito della proprietà, un comunismo pratico, un’autentica Unione sovietica. Monsignor Oscar Romero fu nominato arcivescovo di San Salvador il 22 febbraio del 1977. Il 12 marzo, il parroco Rutilio Grande viene assassinato insieme a due parrocchiani. Monsignor Romero celebra i funerali del fraterno amico e dei suoi fedeli. Queste le sue parole durante l’omelia. La dottrina sociale della chiesa dice agli uomini che la religione cristiana non è un sentimento esclusivamente orizzontale, spirituale che si dimentica della miseria che lo circonda, piuttosto si tratta di guardare Dio, e da Dio guardare il tuo prossimo come un fratello. Magari i movimenti sensibili alla questione sociale conoscessero questa dottrina. Non si esporrebbero alla miopia che permette di vedere solo le cose temporali, le strutture del tempo. Se il cuore non vive la conversione tutto sarà debole, rivoluzionario, passeggero, violento. Nessuna di queste cose è cristiana. A chi freme, a chi vorrebbe lavare col sangue il sangue versato, Romero indica la strada dell’amore. Saremo fermi nella difesa dei nostri diritti, ma con un grande amore nel cuore, perché difendendo con l'amore, cerchiamo anche la conversione dei peccatori. Questa è la vendetta del cristiano. 1979 l’arcivescovo è già leggenda. Chi parla del Salvador parla di monsignor Romero. Le critiche della Curia romana lo pongono al centro dell’attenzione mondiale. Tanto da far dire al consigliere per la sicurezza del presidente Carter, Zbigniew Brzezinski: “Non si può esigere il diritto di costituire sindacati a Danzica e negare al tempo stesso il diritto alla terra del contadino salvadoregno”. Romero vive il dramma della quotidianità. La tragedia degli attacchi ai parroci. Il 21 gennaio del ’79 celebra i funerali di padre Octavio Ortiz ucciso con cinque giovani parrocchiani che lo avevano sempre difeso. E ammonisce. Tutto passa. Quel che non passa è l’amore…La capacità di sentire fratelli tutti gli uomini. Le mie prediche non hanno carattere politico. Sono prediche che naturalmente toccano la politica, toccano la realtà del popolo, ma per illuminarle e dire loro cosa vuole Dio e cosa Dio invece non vuole. Non si possono servire due signori. C'è un solo Dio; e questo Dio o è quello vero, che ci chiede di rinunciare alle cose quando queste si trasformano in peccato, oppure è il Dio dei soldi che ci obbliga anche a voltare le spalle al Dio del cristianesimo. Oggi l’impegno della chiesa è: difendere l’immagine di Dio nell’uomo. 7 Dicembre 1979. Il vescovo scomodo è già nel mirino dei poteri occulti che governano El Salvador. Cinque giorni prima gli squadroni della morte hanno tirato a sorte chi sarà il suo killer. L’ambasciata Usa avverte il governo americano ma nessuno interviene. Mons. Oscar Romero è scomodo a tutti. Lo sa ma non lo vive come un cruccio. I momenti cambieranno, ma il progetto di Dio rimarrà sempre lo stesso: salvare gli uomini nella storia. Per questo la Chiesa, non può identificarsi con nessun progetto storico. La Chiesa non poté essere alleata dell'Impero Romano né di Erode, né di nessun re terreno né di nessun sistema politico né di nessuna strategia politica umana. Li illuminerà tutti,ma si manterrà sempre autentica come colei che annuncia la storia della salvezza: il progetto di Dio. 17 febbraio 1980. L’arcivescovo vede così la sua missione. Non è un prestigio per la Chiesa stare insieme ai potenti. Il prestigio della Chiesa è questo: sentire che i poveri la sentono come loro, sentire che la Chiesa vive in una dimensione terrena, chiamando tutti, anche i ricchi, alla conversione, alla salvezza dal mondo dei poveri, perché solo quelli sono i fortunati. E’ il 23 marzo del 1980. E’ la vigilia del suo assassinio. Sabato pomeriggio. Monsignor Romero parla come sempre a voce alta. Inconsapevole, ma forse… presagendo il dramma che s’appressa a volgere in tragedia, afferma deciso e sereno. Io non ho nessuna ambizione di potere, e per questo, in tutta libertà, dico al potere cosa è giusto e cosa è sbagliato, anche ai gruppi politici, dico cosa è giusto e cosa è sbagliato. E' il mio dovere. Il progetto di Dio per la liberazione del popolo è trascendente. La trascendenza dà alla liberazione la sua dimensione vera e definitiva. Tutte le soluzioni che vorremmo dare ai problemi della migliore distribuzione della terra, di una migliore amministrazione dei soldi in Salvador, di un'organizzazione politica che punti al bene comune dei salvadoregni devono essere cercate nell'insieme della liberazione definitiva. 24 marzo 1980. domenica pomeriggio. Nella cappella dell’ospedale, monsignor Romero celebra messa. In fondo alla chiesa, sul sagrato, c’è già il suo assassino con l’arma pronta a sparare. Il pastore cattolico del Salvador, l’uomo che accende la speranza degli ultimi va incontro al suo destino, come sempre, a testa alta. Il regno è già misteriosamente presente sulla terra; quando il signore verrà, si manifesterà la sua perfezione. Questa è la speranza che alimenta noi cristiani. Sappiamo che tutti gli sforzi compiuti per migliorare una società, soprattutto quando è così pervasa dall'ingiustizia e dal peccato, sono sforzi che Dio benedice, che Dio vuole,che Dio esige. Monsignor Romero chiude così la predica. Poi prepara l’altare. Il killer arma il fucile e prende la mira. Queste le ultime parole, profetiche di Oscar Romero. Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini, ci alimenti per dare anche il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per sé, ma per dare segni di giustizia e di pace al nostro popolo. Uniamoci, quindi, intimamente nella fede e nella speranza a questo momento di preghiera per la signora Sarita e per noi... Un colpo di fucile lo uccide.

Io straniero

Io straniero, affamato, impoverito, emarginato, escluso, immigrato e adesso anche criminale.

Cari occidentali,lasciatemi parlare un poco al vostro cuore, che non credo si sia impietrito così tanto da non battere più per la solidarietà e la giustizia.Io vivevo bene nella mia terra e sento forte la nostalgia adesso che sono lontano dalla mia madre patria. Perché io, come tanti altri milioni, abbiamo dovuto andarcene?Il mio bisnonno fece appena in tempo a comunicarmi che avevamo cominciato a perdere le nostre terre quando arrivarono i vostri conquistatori, trasformando così i nostri paesi in colonie. La loro politica imposta svalutò o addirittura distrusse le nostre agricolture locali, costringendoci a fare monoculture per l’esportazione, producendo non per il fabbisogno interno ma per l’export. E così ci avete affamati.Mio nonno mi raccontava spesso che sono stati i vostri governi a trasformare le nostre terre comunitarie in proprietà private, dando inizio al processo del latifondo come via per consegnarle nelle mani di pochi latifondisti, costringendo gli abitanti originari a diventare dei senza terra e a migrare in cerca della madre terra perduta. E così ci avete resi orfani.Mio padre mi raccontava che sono arrivate successivamente le vostre multinazionali, le quali si sono impossessate delle nostre tante ricchezze naturali. Le vostre sempre meno ma sempre più potenti transnazionali, sostenute e legittimate oggi dall’economia e dalla finanza globali di matrice neoliberista, stanno continuando a divorare tutte le nostre risorse anche con la complicità delle vostre superpotenze e dei nostri governi locali. Abbiamo perso così il controllo delle nostre tante ricchezze, oppure le dobbiamo, ancora oggi, svendere a prezzi irrisori. Tutto questo ci ha impoverito tremendamente.Mentre io mi ricordo quando sono arrivate anche le vostre industrie, mosse dalla delocalizzazione, che, affamate di manodopera a basso prezzo, ci hanno condotto nella vostre fabbriche facendoci lavorare ad un costo bassissimo e in condizioni a volte disumane, senza permettere di organizzarci in sindacati per difendere i nostri diritti. Le vostre imprese ci hanno costretto, innanzitutto, a lasciare le campagne perché siamo stati chiamati dalle sirene delle vostre industrie a vivere nelle baraccopoli delle città. E avete fatto di me uno dei tanti emarginati. Ma poi il vostro sistema capitalista ha generato la fase dell’automazione delle industrie e avete sostituito la nostra manodopera con le macchine, generando il fenomeno della disoccupazione, e così ci avete sbattuti fuori senza più lavoro, destinati a sopravvivere in una vecchia baracca nelle periferie delle nostre città. E così sono diventato uno dei molti esclusi.I nostri governi non si sono preoccupati tanto di noi, ma solamente di eseguire i vostri ordini perché costretti dai vostri meccanismi economici e finanziari, oppure dalle vostre interferenze politiche suscitando eventuali colpi di stato nel caso di governi che volessero distanziarsi dai vostri dettami.Oggi, le vostre grandi multinazionali del settore agricolo-alimentare controllano il prezzo del cibo aumentando i cereali del 40, 60 o addirittura 70%, affamando così altri milioni di noi poveri. Inoltre, i nostri contadini non riescono vendere i loro prodotti neppure nei nostri mercati, perché i vostri contadini, fortemente sussidiati dai vostri governi, riescono a mettere sul mercato mondiale prodotti a prezzi bassi, distruggendo le nostre piccole agricolture.E così anch’io mi sono trovato ad un bivio: continuare a vivere nella mia baraccopoli, patendo la fame e costretto ad entrare nella microcriminalità per poter sfamare la mia famiglia, oppure prendere la via dei flussi migratori, cercando altrove lavoro e un futuro migliore.Non ho avuto il coraggio di cominciare a rubare e per cui sono fuggito con grande sofferenza dalla mia terra, costretto a diventare un migrante. Eccomi oggi tra di voi: straniero, affamato, impoverito, emarginato, escluso ed immigrato. Ma giammai mi sarei immaginato di diventare anche un criminale, semplicemente perché non possiedo un foglio di riconoscimento. Amici occidentali, provate a fermarvi ad ascoltare i racconti dei vostri nonni, per scoprire nel vostro passato le fatiche e le sofferenze del nostro presente nei volti dei vostri numerosi emigranti. E allora ci sentiremo tutti pellegrini in ricerca di un futuro migliore in questa nostra grande e madre terra. Padova 8 giugno 2008

Adriano Sella *

(un missionario nei panni dello straniero per dar voce agli ultimi)

Passeggiata socratica al supermercato

Adriano Sella missionario e militante della giustizia e della pace

Oggi ho fatto una passeggiata socratica in un centro commerciale. Ho potuto capire che veramente tante sono le cose di cui non ho bisogno per essere felice.
Si tratta, più o meno, della stessa esperienza che ha fatto Socrate, il filosofo greco circa 2400 anni fa. Si racconta che quando Socrate andava per le strade di Atene, dove c’erano delle botteghe, veniva avvicinato dai venditori che gli chiedevano se voleva qualcosa, lui rispondeva: “No, sto solo osservando quante cose esistono di cui non ho bisogno per essere felice”.
In questa nostra società consumistica, dove sono stati altamente aumentati i bisogni e quindi anche le cose mediante una produzione che riesce a moltiplicare, anzi a triplicare o quadruplicare le cose, siamo continuamente sedotti da tantissime cose da comprare. Il consumare sta diventando un “obbligo” del cittadino, altrimenti, dicono, si blocca questo sistema economico che viene alimentato dal consumo.
Ecco, allora, gli appelli fatti da parte dei nostri governanti ai cittadini di consumare in modo da far accelerare l’economia. Ecco, quindi, i continui sondaggi sui consumi pubblicati dai media, che fanno capire come la riduzione dei consumi sia solamente un sinonimo di crisi economica, senza lasciare spazio a una riflessione più profonda che potrebbe far emergere la crisi di un sistema che non funziona più.
Oggi nei centri commerciali, stile occidentale, non sono più tanto i venditori che ti inducono a comprare. Questo metodo è ancora presente nei grandi mercati o negozi del Sud del mondo: ad esempio, mi ricordo bene in Brasile dove si era assediati dai venditori, perché la manodopera costa molto poco, per cui i proprietari dei negozi assumono molte persone che stanno addirittura all’entrata del negozio, invitando i passanti ad entrare e a comprare.
Il metodo occidentale, invece, non usa più la manodopera per far comprare, ma le cose stesse vengono presentate nelle vetrine, in maniera molto seducente, facendo uso delle moderne tecniche di marketing, in modo da coinvolgere emotivamente il consumatore che viene attratto dalla bellezza estetica delle cose e facendo suscitare in lui il bisogno di quella cosa: si tratta di un bisogno indotto che diventa una strategia per far vendere e soprattutto per far comprare.
Quelle poche volte che sono stato nei centri commerciali ho potuto capire la difficoltà che ha il passeggiante nel difendersi dalla seduzione del consumismo. Così come vengono presentate le cose, è davvero difficile uscire dal centro commerciale senza aver comprato niente! Bisogna essere quasi di ferro per non essere coinvolto emotivamente da quel fascinoso luccichio delle cose.
Ecco allora che bisogna prepararsi ad andare con un importante bagaglio sulle spalle. Sarebbe saggio, quindi, andare qualche volta solamente per fare una buona e sana passeggiata socratica, così come faceva il filosofo greco. Osservare quelle cose e percepire che non sono essenziali per essere felice. Riscoprire quindi quella sobrietà felice che non è la sobrietà intesa come rinuncia, sacrificio, vita spartana. Ma sobrietà che ti fa riscoprire quali sono le cose importanti della vita e quelle di cui possiamo fare a meno per essere davvero felici.
Fanno pensare quelle ormai varie inchieste che hanno rivelato come oggi abbiamo molte più cose di ieri, anzi ne abbiamo in abbondanza, però non siamo più felici. È sufficiente guardare il volto della nostra gente per capire che c’è più amarezza che gioia, più stanchezza che serenità, più preoccupazione stressante che impegno fatto col sapore creativo.
Mi hanno toccato molto le testimonianze di alcuni giovani che facevano emergere come non hanno bisogno tanto di cose ma soprattutto di relazioni umane calorose e solidali. Un ragazzo mi ha detto che uno dei regali più belli, avuti nel giorno del suo compleanno, è stata la lettera di sua madre scritta di suo pugno che gli manifestava tutto l’amore di mamma. Un adolescente mi ha manifestato la sua delusione quando ritornava a casa dalla scuola, perché aveva bisogno di comunicare con i suoi famigliari, per raccontare quello che aveva vissuto, invece trovava sempre la televisione accesa e non c’era spazio per il dialogo. Un giovane mi ha rivelato che quello che lo faceva soffrire molto nella sua vita era il fatto che non riceveva mai un abbraccio da suo padre.
Sono testimonianze vere di giovani che segnalano una esigenza importante: non sono le cose che fanno felici ma i rapporti umani.
Allora, se riuscissimo a realizzare qualche volta una passeggiata socratica nei centri commerciali, usciremo di là non più con tante cose ma con la convinzione, sempre più forte e profonda, che le cose possono essere necessarie, sì, ma non sono essenziali per essere felici. Alla fine, quello che conta è essere e non tanto avere.
E allora, più rapporti umani e meno cose, più relazioni di tenerezza e meno corse consumistiche, per poter raggiungere una sobrietà felice.

La sobrietà non è privazione ma liberazione

Tutti noi oggi siamo sommersi dalle tantissime cose che continuiamo ad accumulare e che assorbiscono tutto il nostro tempo, perché esse richiedono tutte le nostre ore quotidiane per poter comprarle, sistemarle, pulirle e metterle a posto.
È doveroso sottolineare che le cose, mediante il valore economico, ci hanno aiutato a liberarci dalla miseria del passato, quando eravamo poveri a livello economico a tal punto che la vita era diventata dura e disumana mettendo a rischio la dignità umana. In quel tempo, le cose sono state a nostro servizio per liberarci dalla miseria che creava molta sofferenza. La stessa che possiamo constatare oggi nel Sud del mondo.
Ma è altrettanto doveroso evidenziare che siamo cascati, oggi, nel lato opposto: abbiamo accumulato così tante cose che ci costringono ad essere noi al loro servizio, dedicando tutta la nostra giornata al lavoro per poter innalzare il nostro potere di acquisto in modo da riuscire a comprare il più possibile, anche quello che è veramente superfluo e dannoso. Anzi, il superfluo arriva nelle nostre teste, mediante la realtà mediatica, come necessario e per cui dobbiamo fare di tutto per poter averlo. In questo modo diventiamo funzionali al sistema che vuole che non pensiamo più, ma che diventiamo solamente dei tubi digerenti senza capacità critica.
È questo consumismo sfrenato che sta creando problemi seri e gravi alla nostra società di oggi. Innanzitutto, perché si tratta di un consumo che ci consuma perché alla fine della giornata, dopo aver corso tutto il giorno per soddisfare tutti i bisogni indotti dalle pubblicità, ci troviamo stanchi, sfiniti e svuotati. Ossia, consumati dai 10.000 oggetti che mediamente noi europei possediamo nelle nostre case (secondo un’indagine). E poi, tutto il nostro tempo viene assorbito dalla cose e quindi non abbiamo più tempo per le relazioni che sono i beni fondamentali della vita.
Allora, la sobrietà non deve essere intesa come privazione dalle cose, ma come liberazione da tutto quello che è superfluo e che ostacola la possibilità di vivere una vita felice.
La sobrietà non è ritornare ad una vita di austerità, ma costruire la qualità della vita che si basa non sulle cose che hanno un valore solamente di utilità, ma sulle relazioni umane che sono i veri beni essenziali della vita perché la persona umana è fatta di relazioni. Anzi è essenzialmente relazionale, questo significa che le relazioni sono l’ossigeno della vita, senza le quali la morte ci porterebbe via.
La sobrietà non è una vita di sacrificio, ma è la capacità di essenzializzare nel saper cogliere quali sono le dimensioni fondamentali di una vita felice, impostando la vita sull’essenziale e non sul marginale.
La sobrietà è la scuola che ci educa a saper distinguere le cose fondamentali e necessarie per la dignità umana da quelle che sono superflue e che sono generate da bisogni indotti.
È questa operazione etica che dobbiamo fare ogni giorno, perché in ogni momento siamo tempestati da messaggi, soprattutto pubblicitari, che ci condizionano e che ci conducono come delle marionette a comprare il più possibile.
L’abbiamo chiamata operazione zaino, cioè aver il coraggio di svuotare lo zaino della vita dove abbiamo inserito tante cose, proposte e dimensioni (a volte volutamente, altre volte in maniera condizionata o indotta) e iniziare il discernimento tra quelle che sono importanti e quelle che possiamo tranquillamente fare a meno. L’obiettivo di questa cernita è di riporre nello zaino quello che veramente è importante per la qualità della vita, ma anche il coraggio di gettare nel cestino tutto quello che viene considerato inutile e superfluo.
L’operazione zaino ci aiuta ad essenzializzare e a riportare la nostra vita sulla spiaggia della felicità e del gusto del vivere, liberandoci dallo stress quotidiano provocato dal continuo correre per soddisfare mille proposte oggi e altre mille domani.
La sobrietà è, infine, riscoprire l’essenziale della vita che sono i beni relazionali, i quali sono stati e vengono tuttora trascurati e non coltivati. Questa è la vera nostra povertà: quella relazionale e non quella economica. Infatti, in mezzo a noi c’è una povertà relazionale spaventosa che va dal bambino abbandonato davanti alla tv, al disagio giovanile, alla vita stressante e svuotante degli adulti, fino alla segregazione dei nostri anziani che vengono gettati nelle case di riposo oppure condannati alla solitudine.
Dobbiamo continuamente ricordarci che sono le relazioni umane i veri beni fondamentali della vita e per questo dobbiamo dedicarci tempo, per coltivarle e per custodirle come un grande tesoro. Questa sarà anche l’unica ricchezza che non riusciranno mai a portarci via, perché le relazioni umane sono carne della nostra carne. Ed è quindi una ricchezza che possiamo sempre, e in qualunque momento, riprendere dal baule della nostra vita e farla diventare realtà quotidiana.
La sobrietà è quindi liberazione e non più privazione. Per questo viene chiamata oggi sobrietà felice, oppure una nuova sobrietà, in modo da scrollarci di dosso quella concezione di sobrietà che ci parlava di austerità e di sacrificio.
E allora, liberiamoci da tutto quello che è superfluo e dannoso per riscoprire l’essenziale della vita: quello che dà senso e sapore al vivere quotidiano.
La sobrietà ci aiuterà a non cascare in quei pericoli dannosi che ha sottolineato il Dalai Lama quando gli hanno chiesto cosa l’aveva sorpreso di più dell’umanità: “Gli uomini: perché perdono la salute per fare soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute; perché pensano tanto ansiosamente al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente e né il futuro; perché vivono come se non dovessero morire mai e perché muoiono come se non avessero mai vissuto”.

E allora, lasciamoci condurre dalla sobrietà felice che ci conduce ad una vita di qualità e di liberazione, raggiungendo finalmente nuovi stili di vita che ci fanno assaporare il gusto del vivere e che generano un altro mondo possibile.

Padova, 4 aprile 2009

p. Adriano Sella
(adrianosella@virgilio.it)

Un libro su Nuovi Stili di Chiesa

Per una chiesa del Regno
Nuove pratiche per riportare il cristianesimo all’essenziale
Autore: Adriano Sella
Editrice: EMI
Prefazione della teologa Serena Noceti
Contenuti:"Perché non fare diversamente?". Se lo chiedeva già nel 1993 il teologo Bernhard Häring, guardando alla chiesa. Vedeva la necessità e l'urgenza di tornare ai fondamenti della vita cristiana, perché resti genuino il messaggio e risponda con efficacia alle attese e alle trasformazioni della storia. Meno messe, più Messa; meno maestri, più testimoni; meno pratiche di pietà, più scelte di vita; meno libri religiosi, più Bibbia…: sono alcune delle piste che anche l'Autore di questo libro suggerisce nella stessa preoccupazione di promuovere all'interno della chiesa il rinnovamento che molti invocano.
Pare importante togliere le incrostazioni accumulate nei secoli e restituirle la bellezza di altri tempi.
Dalle riflessioni nasce un percorso dove il lettore, passo dopo passo, viene messo davanti alla realtà ecclesiale di oggi e si sente stimolato a dare il suo contributo per il rinnovamento della struttura e del messaggio.
Modello e ideale resta quello del Vaticano II, che vuole una chiesa a servizio del Regno, immersa nella storia, e segno delle novità portate da Gesù; una chiesa presente nei testi ma non ancora pienamente nata; una chiesa da costruire, alla luce del Vangelo, in uno sforzo permanente, con la collaborazione e l'apporto creativo e positivo di ogni cristiano.
(Dalla prefazione)

Canzone per Annamaria

Ho conosciuto Annamaria tre anni fa in Guatemala, durante il mio primo viaggio in America Centrale. Quando abbiamo visitato la scuola, il ben noto Liceo San Josè, ho voluto conoscere la bambina a me affidata per il sostegno scolastico. Nel corso di questi anni ci siamo visti durante i miei "ritorni": siamo diventati amici, anzi, siamo entrati in naturale sintonia. Per me Annamaria è una sorellina a cui dedicare affetto, dedizione, cura, appoggio nelle sue esigenze. Annamaria ad agosto compirà 13 anni...il tempo passa.
A lei dedico queste righe.

Canzone per Annamaria

Piccolo coriandolo d'agosto
sogno d'arte lontano
sei entrata nella mia vita
hai sfiorato la mia mano
Ho volato sopra il mare
sensazione gigantesca
che fa smuovere i pensieri
di una vita troppo persa
a rincorrer la fatica
di un lavoro quotidiano
ingrananaggio di un sistem
ain cui tutti scivoliamo
Ho volato sopra il mare
con compagni d'avventure
con addosso tante idee
per un mondo più accogliente
con compagni d'avventure
con un'anima brillante
senza avere la pretesa
di salvare l'Universo
ma convinti che un aiuto
puo' cambiare prospettiva
alla vita di un bambino
puo' cambiarne l'espressione
ricreando sul suo viso
la bellezza di un sorriso
Ho volato sopra il mare
anche se questo è un tempo storto
è un giardino inaridito
la coscienza benestante
delle nostre società
ripiegate su se stesse
assetate di successo
ancorate alla ricchezza
ma svuotate d'ogni tipo di ricerca
senza limiti e spezzate
s'un altare frantumato
illusione svanita, presto dissolta
di un mito simulato
di benessere corrotto
Ho volato sopra il mare
non mi sono rassegnato
da cielo a cielo
in un villaggio ho ritrovato
un piccolo coriandolo d'Agosto
sogno d'arte lontano
messaggio sconfinato di una notte boreale
cielo stellato della volta tropicale
e il tempo si è fermato
stendendo la sua impronta
sui tuoi capelli sciolti sulle spalle
neri come gli occhi
incastonature d'oscurità vitali
presi a prestito dai mari del Sud
dove la vita è feconda nei suoi fondali
e il tempo si è fermato ad ascoltare
tra l'esilità delle forme
ieri bambina, oggi quasi donna
la tenerezza d'un abbraccio
l'energia del sangue che scorre
si è fermatoad ammirare
questo sogno d'arte lontano
coriandolo d'Agosto
che nel vento continuo a tenere per mano
come in un miraggio carico di poesia
note d'argento
Canzone per Annamaria.

e.c., 11 Febbraio 2009

Scopri una moneta d'oro dentro a una bomboniera...

Ci sono alcuni momenti della vita che si ricordano per la loro unicità. Quell'attimo, quell'ora, quell'istante dove ciascuno di noi diventa interprete di un fatto saliente e peculiare che va a caratterizzare una scelta di vita. In quei momenti non si mettono particolari ipoteche o gioghi al futuro: si cerca di viverli in pienezza pensando di aver fatto la cosa giusta come ovvia conseguenza di un determinato modo di pensare e agire.
Guardiamo, in queste righe, ai lati positivi della vita e ad alcuni passaggi che misurano il senso di questo "fare festa" che poi è un "fare festa", abitualmente, insieme a tanti altri in un'ottica di condivisione e compartecipazione della propria gioia. Partiamo dall'inizio: il nascere non rappresenta forse il momento più sublime della gioia? Quale ripieno di senso e sentimento sta alla base di questo evento. Il nascere, e l'essere accolti da mani sapienti e da amore condiviso è già una festa. Molti di noi sono inseriti in una tradizione cristiana che, in un cammino educativo, offre ai nuovi arrivati una serie di segni i cui significati intrinseci vanno a rappresentare una crescita del soggetto e delle proprie responsabilità nel contesto della comunità in cui si è chiamati ad operare. Battesimo, Comunione, Confermazione,...Matrimonio (per chi ci arriva...e riesce a viverlo in bellezza...). Momenti unici che la nostra tradizione ci fa conoscere anche nella sua dimensione di festa.Tuttavia, il nostro non vuole essere affatto un discorso esclusivo. Partiamo semplicemente dalla constatazione di un dato di fatto ancora generale pur sapendo che viviamo a contatto con profonde trasformazioni della società Occidentale dal punto di vista socio-culturale.Pari cittadinanza, dunque, ad altre tradizioni religiose, culturali o filosofiche, o ad altre scelte di vita non conformi, ma per questo non meno rispettabili, ad una determinata tradizione.
Un momento di festa, di per sè, non ha bisogno di essere incasellato da una divisa particolare.Un momento di festa, generalmente, viene ricordato anche attraverso alcuni oggetti, che rimangono a corredo della propria storia, non tanto per il loro valore specifico quanto per il loro aspetto simbolico. Una bomboniera, ad esempio
E qui arriva la proposta, cari amici e sostenitori di Ains e delle nostre iniziative di solidarietà in Guatemala.Avete mai trovato una moneta d'oro dentro a una bomboniera? Beh, noi potremmo farvela scoprire.Innanzittutto esiste un luogo dove questi oggettini carinissimi possono essere prodotti con dovizia di originalità e foggia semplicemente ricercata, è : ' "Il Mercatino" in Corso Garibaldi, 22 a Pavia.....Qui, insomma, si confezionano bomboniere doc con annesso talento d'oro. Intanto scegliere di "commissionare" una bomboniera in questo negozio, va da sè, è già un talento.Di più: per ogni bomboniera prodotta c'è la possibilità di donare parte della propria festa, del proprio momento di ricordo, a sostegno di una bella iniziativa di solidarietà. Anche con una bomboniera si puo' contribuire a dare una mano alla Casa d'Accoglienza di Mazatenango*, dove sono ospitate bambine e ragazze da zero a diciotto anni. Se scavate a fondo vedrete, tra le pieghe dei veli di tulle, dei nastri e della carta colorata, (o si lasceranno intravedere) tante monete d'oro: la generosità di una scelta, la responsabilità di un atto, il valore della sobrietà, la bellezza della solidarietà. Un ideale arcobaleno che dalle nostre realtà va a congiungersi direttamente in Guatemala là dove, all'origine dello stesso, è sempre pronta la pentola magica ad accogliere i nostri zecchini.Scegliere, per un giorno di festa, una bomboniera piena di confetti di solidarietà significa garantire tanti giorni - o forse tutta la vita - pieni di serenità a una bambina al di là del nostro mare.Una festa, un confetto, un bacio possono essere momenti d'oro.La solidarietà-tesoro contenuta in una bomboniera, al pari del riscatto di una bambina in Guatemala è già una moneta d'oro.

EMERGENZA A EL LIMON!

Le informazioni che giungono da Città del Guatemala sono piuttosto preoccupanti.
Come sapete a novembre 2007 don Piero Nota e la famiglia Lopez (che affiancava don Piero nella gestione dei vari progetti di solidarietà) sono dovuti scappare da El Limon, causa gravissime minacce, e si sono rifugiati a Torino.
Padre Mauro Verzelletti, che collaborava saltuariamente con don Piero, era stato nominato dalla curia di Città del Guatemala, parrocco vicario della parrocchia Cristo Nuesta Paz. Da marzo 2008 sono ripartiti alcuni progetti, tra i quali anche quello delle mense per i bambini più in difficoltà della baraccopoli, che il nostro Comitato sostiene da quasi 10 anni..
A febbraio 2009 Padre Mauro è stato sostituito da 4 nuovi sacerdoti (3 spagnoli e uno guatemalteco), appartenenti a una congregazione religiosa, con cui non siamo riusciti a comunicare per sapere quali fossero le loro intenzione rispetto al proseguimento del progetto "Un pasto al giorno per i bambini e le bambini di El Limon".
Abbiamo mandato a inizio marzo, una lettera (che riportiamo di seguito) a Padre Mauro, affinché potesse parlare ai sacerdoti e sapere se e a quali condizioni pensano di proseguire con il progetto delle mense. Per ora non abbiamo avuto risposta, anche perché i sacerdoti sono “andati a fare gli esercizi spirituali con la loro congregazione”.
Don Piero è un po' pessimista sui futuri sviluppi a El Limon e preoccupato della situazione di violenza e di aggressività delle bande fuorilegge (maras). L'ultimo grave episodio è capitato a fine febbraio, quando una banda ha ucciso un giovani catechista e, durante la veglia funebre, ha fatto irruzione in chiesa sparando e ferendo 10 persone, tra i quali un chierichetto.
Siamo dunque in attesa. Speriamo che la situazioni si sblocchi positivamente e in tempi brevi.
In attesa che ciò succeda, abbiamo deciso di congelare gli aiuti al progetto.
Pertanto invitiamo i donatori a non mandarci altre offerte, finché la situazione non sia chiarita e finché non ci siano le condizioni necessarie per ripartire con il sostegno al progetto delle mense.

Caro Padre Mauro
Ti inviamo un caloroso saluto, sperando che il tuo impegno pastorale a favore dei migranti prosegua senza troppi problemi.
Come sai, il nostro Comitato dal 2000 sostiene il progetto "Un pasto al giorno" che prevede il funzionamento delle due mense riservate ai bambini e alle bambine più in difficoltà della colonia El Limon. Il progetto è stato sostenuto da molte persone e anche da alunni di alcune scuole e dai loro genitori. Tutte queste persone sono sempre state aggiornate sul funzionamento del progetto.
Sappiamo che dopo la partenza di don Piero Nota e della famiglia Lopez, tu, insieme ad alcuni collaboratori laici, hai cercato di proseguire il progetto delle mense.
Abbiamo appreso che recentemente 4 sacerdoti sono arrivati a El Limon per seguire le attività pastoriali della parrocchia Cristo Nuestra Paz.
Visto che il nostro Comitato avrebbe intenzione di continuare, per quanto è possibile, a sostenere il progetto delle mense, ti chiediamo gentilmente di verificare se tale progetto sarà confermato e a quali condizioni.
In attesa di una cortese risposta, ti salutiamo con amicizia.
Il Comitato "SOS Guatemala" - Rivalta di Torino
COSA PENSIAMO DI FARE
NEL 2009….
…. aspettare notizie certe da El Limon e dai 4 nuovi sacerdoti, per verificare se ci sono le condizioni per continuare a sostenere il progetto delle mense per i bambini e le bambine.
DON PIERO CI SCRIVE
Torino, 4 aprile 2009

Alle amiche e amici di S.O.S. Guatemala.
Alle persone che lottano e si impegnano nella solidarietà con i poveri e marginati della parrocchia Cristo Nuestra Paz.
A chi crede ancora che un “altro mondo” e “un'altra chiesa” sono possibili.

Un cordiale saluto con un forte invito a camminare o a riprendere ancora il cammino sperando sempre contro ogni speranza. Anzitutto un grande grazie da parte mia, della famiglia guatemalteca con cui vivo in questo difficile ed obbligato esilio e da parte di tutti i poveri che ho avuto la grazia di conoscere e con cui convivere.
Grazie vive per la vostra generosa solidarietà e la vostra costante fedeltà, più significative in questo periodo di incertezze e di crisi a cui ci hanno portato promovendo un sistema marcio ingiusto e corrotto che distrugge ed esclude i poveri.
Pero stiamo vivendo anche una NUOVA ORA DI GRAZIA guardando i segni dei tempi che siamo chiamati a vivere, se siamo fedeli alla speranza di una TERRA NUOVA con un grande banchetto, come dicono i martiri, dove ci sia posto per tutti.
Per questo dobbiamo vedere la afflizione del popolo e metterci in ascolto del grido e della collera dei poveri e delle vittime che sta salendo da tutto il mondo.
Non lasciamoci paralizzare dalle politiche che promuovono e creano solo paure e violenze pur di stare al potere, criminalizzano il diverso promovendo il razzismo e creando nuovi muri.

Riprendiamo l'ira e l'indignazione profetica e scuotiamoci dal sonno, dall'intorpidimento, dall'indifferenza per non lasciarci appiattire o intontire dai vari poteri.
Circa il progetto in Guatemala devo dirvi che il cardinale Quezada ha affidato la parrocchia ai passionisti con tre sacerdoti spagnoli e uno guatemalteco. In questo ultimo periodo purtroppo le cose sono un po' precipitate, ritardando, con un nuovo atto di violenza, l'attività pastorale della parrocchia (la paura cambia i ritmi). Ora siamo in attesa di vedere come continuare i vari progetti: in primo luogo quello delle mense, tanto importanti.
Per le mense dei bambini più poveri, vere vittime di queste situazioni, stiamo aspettando nuovi segnali. La violenza causata e organizzata dal grosso crimine organizzato usano localmente i giovani delle bande (maras), che in fondo sono anche vittime usate per uccidere e che poi elimineranno quando non servono più. Io penso che il Signore ci chiami a un nuovo stile di vita e una nuova forma di solidarietà: i poveri, più che mai, oggi hanno bisogno della nostra solidarietà per non sentirsi abbandonati e dimenticati: essere fedeli nei momenti difficili anche se un po' oscuri: questo è amore. Vorrei solo dire, per esperienza diretta, che in situazioni come quelle non è facile prendere una decisione tanto rapida soprattutto da parte di chi, come i nuovi preti, non conoscono il sottobosco locale della violenza. Purtroppo devo dirvi che questo non succede solo al Limòn ma in tutto il paese; il problema che si apre è come accompagnare ed essere solidari con i poveri che vivono in conflitto e in realtà violente.
Certo per noi che siamo vissuti là, è uno strazio.
Grazie ancora della vostra solidarietà per la famiglia rifugiata con cui vivo: vi invito ancora a sostenerci in questa difficile esperienza di esilio.
Grazie di cuore di tutto: non scoraggiamoci, ma impariamo dai poveri a sperare sempre, a resistere, a lottare, sapendo che anche noi, come Dio, dobbiamo stare con loro.
Coraggio e speriamo di vederci e aggiornarci.

Don Pedro Nota