27 aprile 2015

IL DIRITTO AL DELIRIO di Eduardo Galeano


L’ultimo respiro di bellezza prima di morire


Dovendo esprimere il suo ultimo desiderio, una donna olandese, malata terminale, ha chiesto di essere portata al Rijksmuseum di Amsterdam. La ragione? Vedere ancora una volta i quadri di Rembrandt. L’Ambulanza dei Desideri, un’associazione che si occupa di esaudire le richieste di chi non ha più molto tempo da vivere, l’ha accontentata: nella foto si vede lei su una barella, in sosta davanti a un autoritratto del grande pittore olandese. 
C’è qualcosa di inattuale, forse, in un ultimo desiderio tanto piccolo e dimesso. Quando, anche per gioco, buttiamo giù la lista di ciò che vorremmo fare prima di morire – come Jack Nicholson e Morgan Freeman in un film di qualche anno fa, «Non è mai troppo tardi» – tendiamo a esagerare: imprese spericolate, desideri sopra le righe, sollazzi nel lusso. La signora di Amsterdam, invece, ha scelto una cosa da niente, che non ha bisogno di paracadute, di portafoglio, di azzardo. Bastano gli occhi, e una certa attitudine per la bellezza. Di più: una certa confidenza con la bellezza.

L’episodio sembra la versione dal vero di una storia raccontata da Proust nella sua sterminata Recherche. Un vecchio scrittore, Bergotte, si accorge che sta per morire. Prima di lasciare il mondo, vuole tornare davanti a un quadro di Vermeer, la «Veduta di Delft». Riavere davanti agli occhi per qualche istante quel «piccolo lembo di muro giallo» dipinto così bene, scrive Proust, da sembrare una preziosa opera d’arte cinese, «di una bellezza che sarebbe bastata a sé stessa». Poi Bergotte muore: «Morto per sempre? Chi può dirlo?» aggiunge Proust. E si avventura in una riflessione sull’arte che coglie e fissa l’«eterno segreto di ognuno», che sottrae – forse – un po’ di potere alla morte. Nella scelta della signora di Amsterdam c’è una verità che dimentichiamo ogni giorno, antica come questo pianeta: da qui, non porteremo via niente. Non una valigia, non un ruolo, non il conto depositato nel frattempo in Svizzera. Non c’è «quantitative easing» che migliori i nostri conti con la morte. O forse sì, e ha a che vedere con la bellezza. Con tutto ciò che di bello abbiamo visto, ascoltato, studiato, capito, sentito. La bellezza non ha salvato né salverà il mondo, e la signora di Amsterdam lo sa. Non salverà nemmeno lei. Tanto vale, allora, metterla in salvo noi. Correre a vedere di nuovo Rembrandt, riascoltare questa musica, questa canzone, rileggere questo libro, ancora un po’. Ancora un po’ di bellezza.

paolo di paolo (la stampa,6 marzo 2015)
 

23 aprile 2015

‪#‎ioleggoperchè‬!

Giovedì 23 aprile anche noi aderiremo alla giornata mondiale del libro e del diritto d'autore ‪#‎ioleggoperchè‬!
Dalle 12 alle 12,10 ci concederemo 10 minuti di "sospensione" da dedicare al grande scrittore guatemalteco Dante Liano...chissà quale suo libro troverete in negozio?
"Le ho dedicato i miei libri, le ho espresso la mia gratitudine nei prologhi, nelle prefazioni, nelle note di ringraziamento.
L'ho anche resa protagonista di un paio di racconti fortunati.
Si chiama Marjorie, mi ha accompagnato d'ovunque con la mia stessa ostinazione, è la mia compagna di vita e questo romanzo non avrebbe nessun valore se non riconoscessi che Marjorie è stata fondamentale per scriverlo."
[Il mistero di San Andrés - Dante Liano]

Come non amare uno scrittore che sa esprimere con tanta poesia e dolcezza l'amore per sua moglie?
 

21 aprile 2015

Joana e la forza di credere nei sogni

Negli occhi verdi di Joana si leggono la forza e la dignità di una donna che è riuscita a realizzare il sogno della sua vita senza mai scendere a compromessi. Quei compromessi assurdi a cui spesso sono soggette le ragazze giovani e belle come lei, che vengono da un Paese povero come la Romania e per le quali dietro a illusioni di una vita migliore alcuni connazionali senza scrupoli nascondono le insidie della strada. Oggi Joana ha ventinove anni, è una Operatrice Socio Sanitaria (OSS) alla Clinica Ortopedica del Policlinico San Matteo, mentre alcune sue amiche sono finite a prostituirsi in Italia o in Francia ed altre sono ancora in Romania a lavorare nei campi. Cosa che ha fatto anche lei, prima di decidere che la sua vita valeva molto di più.

A tredici anni raccoglieva le mele per finire quella scuola media dove era bravissima (ha chiuso con 9.13 di media generale), ma studiare era troppo costoso per una famiglia in cui il padre era alcolizzato e mamma doveva sfamare cinque bocche. Joana ha imparato presto che la realtà è diversa dai sogni, ma ha imparato anche a lottare forte per quei sogni. Voleva indossare un camice bianco per aiutare gli altri e, passando per dieci anni di battaglie, ce l’ha fatta. Aveva diciotto anni quando, nel 2004, dopo avere rifiutato “avances” e proposte poco nitide che non le interessavano decide di partire per la Spagna in cerca di fortuna; inizia come bracciante, poi frequenta un corso di assistenza per anziani e diventa badante. Joanna lotta e soffre, si innamora di uno spagnolo che ha il doppio dei suoi anni e che presto se ne va colpito da un tumore al cervello. Lei, che nonostante le notti in ospedale accanto all’uomo era stata sempre malvista dalla madre perché considerata come un’approfittatrice in cerca di documenti, viene cacciata via in malo modo con trecento euro in tasca. Torna in Romania, ma capisce subito che quella non può più essere la sua vita e riparte per l’Italia. Destinazione Villanterio, dove sua mamma lavora come badante. E’ la fine del 2006. Non parla una parola di italiano, cerca disperatamente un lavoro, accetta la proposta di un mese e mezzo a Madonna di Campiglio per accudire i figli di una famiglia benestante e impegnata tra alberghi e ristoranti (presso cui si trova benissimo), poi torna a Villanterio e si scontra con la burocrazia: per avere la carta di identità italiana ci vuole il permesso di soggiorno, per avere il permesso di soggiorno ci vuole un lavoro ma il lavoro nessuno te lo dà se non hai il documento di identità. E’ la solita storia del gatto che si morde la coda.

Ecco allora che, nel momento più buio in cui Joana si sente solo una mantenuta che vive con i soldi faticosamente guadagnati dalla mamma, arriva un raggio di sole: si chiama Luciano, inizialmente è il vicino di casa con cui confidarsi ma ben presto tra i due scoppia l’amore che ancora oggi è ben vivo. Luciano assume temporaneamente Joana come colf e questo le consente finalmente di ottenere la carta di identità italiana. La situazione lavorativa può sbloccarsi, anche se resta difficile. Joana viene assunta dalla Cooperativa Meridional, che ha l’appalto per le pulizie al San Matteo: quelle Cliniche che sogna di servire come infermiera può solo per il momento tenerle pulite, ma almeno è un primo contatto. Tre ore al giorno, uno stipendio modesto ma Joana ha imparato nelle difficoltà a trovare in tutto qualcosa di positivo: “Ero sfruttata e non considerata da nessuno, ma in qualche modo avevo fatto il mio ingresso nel mondo sanitario. Quando fai le pulizie non conti nulla, ma mentre lavavo mi veniva spontaneo ascoltare, imparare, interessarmi a tutto quel che dicevano gli infermieri perché ero attratta da quel lavoro”. E così qualcuno nota quella ragazza dalla mente fervida e spigliata. E’ una infermiera che la incoraggia a provare a crescere professionalmente, la sprona a fare la patente (che prende nel 2009), le presta il denaro per acquistare una piccola macchina. Joana diventa prima Asa dopo ottocento ore di lezione, poi si riqualifica con altre quattrocento ore e corona il suo sogno: diventare OSS. Siamo nell’ottobre 2010. Abbandona lo spazzolone, si licenzia dalla Meridional e, tramite la Temporary, viene richiesta da più parti: si succedono le esperienze all’Intra Moenia del San Matteo, poi in una Casa di Cura milanese e in un’altra a Pieve Porto Morone, prima di iniziare lo scorso agosto al Policlinico, con contratto da trentasei ore, tempo pieno. Un mese in Chirurgia Vascolare e poi la Clinica Ortopedica, nel settore femminile. “Un ambiente caotico, dove spesso come altrove si fatica per la carenza di organico –spiega Joana- ma mi trovo benissimo, sia con le colleghe (tutte donne) che con le pazienti. In questi sei mesi ho imparato molto anche perché è possibile la collaborazione tra infermieri e Oss. Il contratto scadrà ad agosto, poi non so dove andrò ma va bene tutto. Anzi mi piace cambiare ambito perché consente di crescere umanamente e professionalmente”.
La voglia di crescere è una costante della vita di Joana. Lo ha sempre desiderato e, caparbiamente, è riuscita. “Ora mi piacerebbe che progressivamente il ruolo dell’OSS venisse riconosciuto maggiormente e che potessimo fare ciò che in realtà già sappiamo fare. L’Operatore socio sanitario non è solo una figura legata all’igiene del paziente, è la prima interfaccia tra la persona ricoverata e la struttura di degenza. L’Oss è colui che per primo osserva il malato e deve capire se sta bene o male: dalle sue parole, dal volto, dal colore delle urine… Ecco perché penso che sarebbero utili corsi di aggiornamento anche per noi”.                            Negli occhi verdi di Joana si legge l’amore per il suo lavoro, la passione per la vita nonostante il percorso tortuoso. “Sono stata fortunata, ringrazio Dio perché penso che ogni cosa che mi sia accaduta abbia avuto un senso –conclude- tutte le esperienze, anche le più negative, mi sono servite a capire la gente. Ho visto la morte in faccia, ho perso tante persone care. Ma in Italia sto benissimo e gli italiani sono persone meravigliose”. Si adombra solo quando parliamo di una sua eventuale maternità, a conferma che il passato comunque lascia segni indelebili. “Per adesso non ne voglio sentire parlare. Ho paura di mettere al mondo un figlio, soprattutto una figlia. Non vorrei mai che dovesse un giorno passare tutto quello che ho passato io”.

Daniela Scherrer-IL TICINO, 17 aprile 2015

15 aprile 2015

Eletto il nuovo Consiglio Direttivo del Centro Servizi del Volontariato

Il Centro servizi volontariato ha eletto anche i sei nuovi componenti del consiglio direttivo: Ruggero Rizzini, 48 anni, infermiere al San Matteo e presidente di Ains onlus che coopera con il Guatemala; Monica Lazzarini, 41 anni, biologa proposta dall’associazione Amici dei Boschi; Maria Elena Rondi, 43 anni, tra le fondatrici della onlus “Sogni e cavalli” che si occupa di riabilitazione e integrazione di persone in difficoltà; Roberto Meregaglia, volontario Caritas diocesana di Pavia e segretario della commissione di valutazione del fondo diocesano nell’area della microfinanza, è stato proposto da Agape. E ancora Paola Fossati, 38 anni, specializzata in Artererapia e mediazione minorile è stata proposta dall’associazione Orti Sociali di Voghera. Infine Sergio Contrini, 60 anni, presidente provinciale del Centro sportivo italiano e fino allo scorso anno presidente dell’Asp, azienda servizi alla persona.

(Maria Grazia Piccaluga - La Provincia Pavese,13 aprile 2015)

Volontariato, meno soldi ma a proporsi sono in tanti

Alla selezione fatta dal Csv per conto della Regione, per reclutare volontari in vista di Expo, si sono presentati in 130: giovani ma soprattutto pensionati e disoccupati. E alla fine del colloquio la domanda era rituale: «E’ previsto anche un rimborso?». La crisi sta plasmando una nuova categoria di aspiranti volontari che si affianca allo zoccolo duro formato da alcune migliaia di persone che già da tempo gravitano attorno alle 700-800 associazioni presenti in provincia di Pavia. «Non sono pochi quelli che in questo periodo bussano alla nostra porta proponendosi per attività e servizi, pronti ad accontentarsi anche di un rimborso spese – spiega Isa Cimolini, presidente del Centro Servizi Volontariato – . Il bisogno è in costante aumento, indotto dalla crisi. Ma anche per noi, che da anni sosteniamo la rete di onlus e associazioni locali, sono arrivati tempi difficili». Nell’assemblea dei soci, che sabato pomeriggio si è conclusa con il rinnovo del direttivo, si è infatti parlato anche di bilancio. Gli impegni aumentano ma le risorse si assottigliano. Nel 2008 erano più del doppio di quelle entrate in cassa nel 2013-14. I trasferimenti dalle fondazioni bancarie sono sempre più magri. Nel 2014 circa 16mila euro in meno: il Csv ci ha messo una pezza, utilizzando fondi accumulati, e rimettendo a posto i conti. Ma ogni anno è in salita.

 «E’ così da qualche anno – ammette Cimolini – ma è la prima volta che ci capita una situazione così difficile. Abbiamo già ridotto il personale, ripartendo le competenze all’interno quando qualcuno lasciava, senza sostituirlo. Ora siamo a due dipendenti a tempo indeterminato, due part-time e un contratto. Per questo ringrazio molto staff e collaboratori che lavorano con passione e competenza e non si risparmiano nelle numerose occasioni in cui è richiesto esserci anche oltre il normale orario lavorativo». «Nel 2013-2014 abbiamo ricevuto 338mila euro dalle fondazioni – spiega la presidente – e ne abbiamo incassati altri 60mila circa per attività extra legge 266 sul volontariato. In tutto abbiamo chiuso un bilancio di 378mila euro. Ma stiamo attraversando una fase delicata di trasformazione che in Lombardia potrebbe portarsi presto a un ridimensionamento del numero dei Csv». Pavia potrebbe in un futuro non tanto lontano accorpare Lodi. «Cambiano le richieste dal mondo del volontariato e ai servizi statutari che il Csv offre alle associazioni, si aggiungono domande di consulenza e accompagnamento di altre tipologie di associazioni che ci individuano come un interlocutore significativo per conoscere il Terzo Settore e il territorio» dice Cimolini. Sono 116 le associazioni iscritte ma sono 1415 quelle presenti in banca dati a cui il Csv offre assistenza e consulenza. I numeri danno la dimensione di questa realtà che ormai da anni opera nel Terzo Settore: nel 2014 sono state fornite 1024 consulenze, promossi 25 corsi di formazioni con 753 partecipanti, gli operatori hanno organizzato 293 iniziative a cui hanno preso parte ben 36.684 persone. Da tempo il Csv è anche on line con un sito che lo scorso anno ha registrato 11694 contatti. «Ci possiamo dire soddisfatti perché abbiamo fornito più consulenza e più servizi – conclude la presidente – ma non perdiamo di vista il momento difficile che stiamo attraversando e che potrebbe chiederci, per il futuro prossimo, ancora nuovi sacrifici».

(Maria Grazia Piccaluga- La Provincia Pavese,13 aprile 2015)

14 aprile 2015

Eduardo Galeano, la storia in controcanto

America Latina. Lo scrittore uruguayano si è spento all’età di 74 anni in un ospedale di Montevideo. L’ironia e l’impegno civile, la passione per il calcio, l’arte di raccontare il sogno e la disillusione

scritto da Gianni Minà,
Il manifesto,

13 aprile 2015

È morto lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, aveva 74 anni.


                              
 

12 aprile 2015

Approvata la relazione 2014 del CSV Pavia ed eletto il nuovo Consiglio Direttivo


APPROVATA LA RELAZIONE ATTIVITA’ 2014 DEL CSV PAVIA E

NOMINATO IL NUOVO CONSIGLIO DIRETTIVO


Pavia – 11 aprile 2015. Si è tenuta sabato 11 aprile 2015, l’Assemblea dei soci del Centro Servizi Volontariato della provincia di Pavia, che si è riunita per l’approvazione della relazione dell’attività svolta 2014 e relativo bilancio consuntivo e per eleggere il nuovo consiglio direttivo del CSV Pavia.

La relazione dell’attività e il relativo bilancio sono stati approvati all’unanimità, alcuni numeri dall’attività 2014 del CSV:


I soci del CSV: 116

I contatti: 1392

Le consulenze: 1024

I corsi di formazione: 25

Le ore di formazione: 166

I partecipanti ai corsi: 753

Gli orientamenti al volontariato: 413

Le iniziative di promozione: 293

I partecipanti alle iniziative: 36684

Le richieste di sala e strumenti: 567

Le presenze del CSV sulla stampa: 177

I visitatori del sito: 11694

Le visualizzazioni di pagina: 46486

I volumi in biblioteca: 1721

I film e i contenuti multimediali: 176

Le associazioni in mailing list: 576

I singoli in mailing list: 1463

Le agenzie di stampa in mailing list: 86

Le associazioni in banca dati: 1415


“Il CSV di Pavia, così come gli altri, si trova in una fase delicata di trasformazione, cambiano le richieste dal

volontariato e ai servizi statutari che il CSV offre alle associazioni e che trovano sempre grande richiesta, si

aggiungono domande di consulenza e accompagnamento di altre tipologie di associazioni che individuano

nel CSV un interlocutore significativo per conoscere il Terzo Settore e il territorio. Dall’altra parte l’aspetto economico pesa sui CSV che gradualmente anno dopo anno vedono i fondi diminuire.” - Isa Cimolini Presidente CSV Pavia.

“Nel documento di programmazione biennale 2013‐2014, oltre che garantire i servizi, avevamo individuato come obiettivi principali:

‐ Promuovere cultura, competenze e consapevolezza

‐ Sostenere le reti

‐ Rafforzare rapporti e costruirne nuovi

Ci possiamo dire soddisfatti, perché si sono forniti più consulenza, più servizi, e anche per il 2014 si evidenzia l’importante attività di orientamenti al volontariato che, avvicinando la cittadinanza al Terzo Settore, da maggiore visibilità e quindi maggiore presenza sul territorio del CSV, delle Associazioni e crea occasioni per la costituzione di nuove associazioni. Si deve ringraziare molto lo staff ed i volontari del CSV che con passione e competenza lavorano per il volontariato e non si risparmiano nelle numerose occasioni in cui è richiesto esserci anche oltre il normale orario lavorativo” - Fiorenza Bertelli Coordinatore CSV Pavia.


Si sono svolte poi le elezioni per la nomina dei 6 membri del Consiglio Direttivo, che resteranno in carica per il prossimo triennio. Sono stati eletti nel Consiglio Direttivo: Sergio Contrini, Ruggero Rizzini, Monica Lazzarini, Roberto Meregaglia, Paola Fossati, Maria Elena Rondi.

4 aprile 2015

Il teatro in corsia

L’infermieristica teatrale porta l’esperienza del palcoscenico negli ospedali.
Da Bologna a Prato, viaggio nel percorso formativo che -nell'ambito del sistema di Educazione continua in medicina- ha già coinvolto, dal 2007 ad oggi, oltre 800 operatori. Un progetto di Andrea Filippini, già infermiere per vent’anni, tra ambulanze, pronto soccorso ortopedico, l’Afghanistan -in un ospedale di guerra- e il reparto di oncologia pediatrica al Sant’Orsola di Bologna

di Flavia Giampetruzzi
17 settembre 2014 - tratto da ALTRECONOMIA N. 162/2014 

“L’assistenza è un’arte; con la differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo, ma con il corpo umano, il tempio dello spirito di Dio. È la più bella delle Arti Belle”. Florence Nightingale, infermiera britannica nata nel 1820, e considerata la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna, definì così la sua professione.
Ed è proprio nell’intreccio tra assistenza e arte che nasce l’infermieristica teatrale: un progetto tutto italiano che propone il teatro nella formazione degli infermieri (infermieristicateatrale.it).
Si rivolge a coloro che dopo aver conseguito la laurea in scienze infermieristiche esercitano la professione dopo essersi iscritti a uno dei 103 collegi Ipasvi (Infermieri professionali assistenti sanitari vigilatrici d’infanzia, ipasvi.it) presenti in Italia. Secondo gli ultimi dati del ministero della Salute, riferiti al 2011, gli infermieri impiegati nel Servizio sanitario nazionale in quell’anno erano 264.378 su un totale di 398.007 iscritti Ipasvi. Oggi questo numero è aumentato, e nel 2013 risultavano essere 415.691 -il 77,3% dei quali è donna-.
 La loro formazione è assicurata dal sistema ECM (Educazione continua in medicina), che prevede un obbligo di 50 crediti annuali acquisibili con la partecipazione a corsi e laboratori. Ed è proprio in questo ambito che si inserisce l’infermieristica teatrale, che, dal 2007 a oggi, ha incontrato circa 800 infermieri attraverso corsi e laboratori.
Tutto nasce dall’esperienza personale di Andrea Filippini, che è stato infermiere per vent’anni, tra ambulanze, pronto soccorso ortopedico, l’Afghanistan -in un ospedale di guerra-, e poi nel reparto di oncologia pediatrica al Sant’Orsola di Bologna -dove ha lavorato per dodici anni-. Accanto all’infermieristica, Andrea ha un’altra grande passione: il teatro, iniziato all’età di 19 anni e mai più abbandonato. “Nella mia esperienza il teatro e l’ospedale si sono da sempre contaminati a vicenda. In ospedale, portavo la mia parte più artistica, interpretando personaggi con i bambini, usando le flebo vuote come cani al guinzaglio, improvvisando concerti; una volta, con degli anziani, abbiamo organizzato una partita di bocce nel corridoio, una delle partite più accattivanti della storia. Il fatto è che le bocce non c’erano. Abbiamo giocato per un’ora, fingendo. E a volte, anche l’ospedale ‘entrava’ in teatro, come quando alcuni piccoli dell’oncologia pediatrica venivano accompagnati dai genitori a vedere gli spettacoli fatti con la mia compagnia”.
“Non c’è una gran differenza tra il teatro e l’ospedale -spiega Andrea- in ospedale conosci le persone che si mostrano senza barriere. A teatro sei costretto ad interpretare una parte a metterti nei panni di un altro, a capirne le motivazioni per renderlo al meglio. In entrambi i casi hai a che fare con l’essere umano e con le sue emozioni”.
Così nasce l’idea di promuovere il teatro nella formazione degli infermieri: “I libri insegnano quanto sia un ottimo strumento per conoscere meglio se stessi, per imparare ad elaborare le emozioni, per migliorare la relazione con gli altri, fondamentale nella professione infermieristica. L’ospedale è un luogo pieno di umanità, si provano dalle emozioni più belle a quelle più dolorose”.
In un laboratorio di infermieristica teatrale, dopo un primo momento teorico, si passa alla parte pratica, con esercizi tipicamente usati nei corsi teatrali: come quelli per prendere coscienza del corpo attraverso il respiro, dello spazio che si vive, gli esercizi per la voce, quelli di improvvisazione, di concentrazione, di coordinamento in gruppo, di immedesimazione in una parte. Durante la parte teatrale del corso, l’infermiere rimane comunque presente attraverso continui richiami tra quello che si vive durante l’esercizio teatrale e quello che si può vivere in ospedale, durante il lavoro. Il risultato è una maggiore conoscenza di sé, un gruppo di infermieri più affiatato, e questo,  afferma Andrea Filippini, “non può che avere una ricaduta positiva anche nella relazione con il paziente e, in generale, su tutta l’organizzazione”.

Niente a che vedere, quindi, con la “clownterapia”, termine disprezzato dallo stesso Patch Adams, inventore del naso rosso in corsia. “Lo scopo non è portare allegria in ospedale per un giorno attraverso scenette teatrali -prosegue Andrea- né tanto meno quello di medicalizzare un bisogno istintivo dell’essere umano come quello di ridere, ma è fornire uno strumento in più di comunicazione e di conoscenza di sé e dell’altro all’infermiere come supporto nella sua professione quotidiana”.
Il progetto dell’infermieristica teatrale, oggi portato avanti da Andrea e da altri tre infermieri, è stato promosso nei collegi Ipasvi di Firenze, Cuneo, Vercelli, Como, Cremona, Campobasso, Isernia e Prato; attraverso laboratori per gli studenti nell’Università La Sapienza di Roma, Bicocca di Milano, di Modena e Reggio Emilia, degli studi del Piemonte Orientale. Ha collaborato, inoltre, con diverse associazioni come l’AISLeC (Associazione Infermieristica per lo Studio delle Lesioni Cutanee), l’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e il CNAI (Consociazione Nazionale Associazioni Infermieri). Il presidente dell’Ipasvi di Vercelli, Giulio Zella, spiega: “La strategia è fornire strumenti nuovi agli infermieri che siano d’aiuto nell’affrontare le dinamiche di assistenza. L’infermieristica teatrale insegna ad usare il corpo e sappiamo che gran parte della comunicazione è meta-verbale e che col corpo esprimiamo tantissimo. Da 3 anni collaboriamo con Andrea e la sua équipe, gli infermieri erano molto contenti e ci hanno stimolato a continuare. Abbiamo promosso 4 o 5 corsi diversi, dove il filo conduttore era sempre la comunicazione”.
“In un ambiente come l’ospedale tener conto delle emozioni dovrebbe essere scontato -racconta un’infermiera incontrata in uno dei corsi di infermieristica teatrale- ma in realtà si continua ad insegnare il distacco dal paziente, ad ovattare tutte le emozioni. Un giovane infermiere qualche giorno fa mi ha chiesto se in ospedale si può piangere. Così facendo il rischio di burn-out è altissimo.
Le emozioni non vanno represse ma vissute ed elaborate. Non è fare terapia, è condividere la nostra umanità”.
“Il punto -spiega Andrea- è che l’organizzazione dell’ospedale è sempre più scientifica e c’è sempre meno spazio per la relazione”. Nella sua storia infermieristica ha iniziato lavorando in “Ospedale” e ne è uscito che era “Azienda Ospedaliera”: “Nella pratica il peso dei soldi si sente molto di più e le emozioni vengono relegate a soggetti esterni; per ridere i clown, per piangere volontari che dedicano ascolto e si immagina l’infermiere come colui che deve semplicemente assistere il corpo malato. Non funziona così. Gli infermieri che lavorano a stretto contatto con le persone ammalate sanno quanto oltre alla iniezione o alla fasciatura, sia di conforto una parola, una battuta o, se necessario, anche il silenzio”.
Per Anna Gervasio, presidente dell’Ipasvi di Prato, “l’infermieristica ha adottato negli ultimi tempi un’impostazione basata sulla ricerca scientifica come strategia per aumentare i livelli di conoscenza e per aumentare lo status professionale. Spesso i dati dell’evidenza scientifica li crediamo assoluti e li applichiamo indiscriminatamente. Questa impostazione risulta limitata e restrittiva. L’assistenza infermieristica è inscindibilmente scienza, arte, tecnica, etica, così come sostengono i nostri precursori. Soddisfare i bisogni non significa unicamente eseguire degli atti tecnici, ma soprattutto entrare in relazione con l’altro. Ho trovato interessante il progetto di infermieristica teatrale quando mi è stato proposto: la prima volta che si guarda all’aspetto interpersonale con un approccio teatrale. E visto che mi sta a cuore la qualità dell’assistenza al cittadino, ma anche la salute dell’infermiere abbiamo pensato di supportare i nostri professionisti attraverso una formazione continua”.
L’infermieristica teatrale, ad oggi, si propone attraverso corsi e laboratori di uno o più giorni; il progetto nasce, però, come tesi di ricerca, ancora da attuare: l’obiettivo è trovare un ospedale dove si possa fornire al personale che vi lavora un corso di teatro per un anno e mostrare alla fine del percorso come questo migliori le relazioni tra colleghi e nell’assistenza, con l’auspicio che sempre più infermieri teatranti possano attivare un corso-laboratorio nel proprio ospedale.
 

3 aprile 2015

L’armadio dei pigiami,brevi considerazioni,un’idea, un progetto

 
In ogni reparto ospedaliero c’è un armadio dove si trovano i pigiami, lavati e stirati, che servono per quei malati che non ne hanno uno quando vengono ricoverati. Mi ricordo quando la guida di tirocinio (allora si chiamava così) mi diceva: “Vai a prendere un pigiama nell’armadio vicino alla cucina, dove ci sono le lenzuola.” Andavo ed eseguivo l’ordine senza pensarci troppo e soprattutto senza mai farmi la domanda sul perché in un reparto ospedaliero c’era un armadio dei pigiami (spesso c’era anche una lavatrice e un ferro da stiro, portato da casa da qualche Infermiera Generica, che di notte si metteva a lavare e stirare biancheria dimenticata da chi, dimesso, Tornava a casa). Altri tempi? Altra idea della professione? Non lo so!!!! Certo è che adesso, l’armadio dei pigiami è diventato ancora più d’attualità perché sono sempre di più le persone, soprattutto grandi vecchi (non solo i senza fissa dimora e i tossicodipendenti, come si è soliti pensare) che, ricoverate, non hanno un ricambio di biancheria. Lasciamo stare il fatto che spesso non sono neanche accompagnati da un parente e arrivano soli in reparto dal pronto Soccorso. Ma questa è un’altra storia che meriterebbe un approfondimento maggiore, se si avesse voglia, per entrare nello specifico di un problema (la solitudine delle persone) che sta sempre più aumentando. Apro e chiudo, immediatamente una parentesi: prima o poi si dovrà considerare, come professione, la povertà che affligge sempre più persone, riconsiderando l’assistenza infermieristica, i ruoli degli ospedali, costi, modi e tempi di ricovero, orari di ambulatori e organizzazione del lavoro. Perché la salute dipende anche da quanto si è poveri e non possiamo più permetterci di concentrarci solo su un sintomo. Dobbiamo considerare importante anche il contesto sociale di chi se lo porta addosso. Non so come ma bisognerà farlo, perchè sono sempre di più le persone dimenticate (giovani, bambini, anziani, donne...di tutte le fasce d’età e di tutte le nazionalità) che vivono da precari e in povertà. Povertà che fa aumentare malattie, ansia e senso di fragilità. Bisognerà pensarci, aprire la nostra mente, essere attenti ai cambiamenti sociali, perché noi Infermieri dobbiamo e possiamo dare il nostro contributo essendo una professione di utilità sociale, che sta 24 ore su 24 a contatto con le persone e il disagio che si portano addosso quando vengono ricoverate. Se non facciamo questo (lo possiamo e lo dobbiamo fare in rete con altre figure professionali: medici, assistenti sociali, dietisti, operatori di supporto, politici) continueremo ad essere una professione non attenta ai cambiamenti, come tante altre e soprattutto, intellettualmente povera. Ritornando all’armadio dei pigiami....la nostra associazione (AINS onlus), composta da infermieri del San Matteo, ha deciso, osservando quotidiane situazioni di precarietà dove, chi viene ricoverato è sprovvisto, appunto, di tutto (dallo spazzolino alle ciabatte, dalla saponetta ad una maglietta di ricambio), di attivarsi in rete con il mondo del volontariato, per dare il proprio contributo, per dare un segnale, per impegnarsi per e con chi ha bisogno. Come? copiando (perchè le belle idee vanno sempre copiate) un micro progetto dell’associazione volontari ospedalieri (AVO) di Mondovì che si è inventata un kit composto da asciugamano, saponetta, dentifricio e spazzolino, pettine e specchio, fazzoletti, salviette umidificate, carta igienica, tovaglioli, ciabatte, sciarpa e maglietta.... da consegnare a chi non ha nulla e viene ricoverato. Questo progetto, riadattato nel nostro contesto, ci ha permesso di metterci in rete con gli alunni delle scuole elementari e medie di San Martino Siccomario e i frequentatori di due APS di Pavia (Brusaioli e Borgo Ticino), per la raccolta del materiale; con il mondo infermieristico di Malattie Infettive e Malattie Infettive e Tropicali, per la distribuzione oltre che per la valutazione delle situazioni di precarietà. Il progetto è stata anche l’occasione per incontrarci (mondo infermieristico, mondo del volontariato e della cittadinanza attiva), discutere sull’utilità di un progetto come questo, confrontarci, arrivare ad un compromesso per poterlo realizzare, raccogliere materiale. Non nascondiamo che qualche problema c’è stato e, le domande che più spesso ci venivano rivolte, aiutandoci a capire dove stavamo sbagliando, erano:
Ma veramente non hanno un ricambio di biancheria?
Perchè sostituirci alla famiglia?
L’istituzione ospedale dov’è?
Perchè l’ospedale non fornisce quello che voi volete raccogliere?
Però, essendo che questo piccolo progetto cerca di rispondere a un’esigenza molto concreta, che quotidianamente si presenta, le difficoltà non ci hanno fermato. Per concludere, vogliamo sottolineare che il kit de “L’armadio dei Pigiami” (avendo tutte le autorizzazioni da parte della dirigenza Infermieristica e Sanitaria della Fondazione San Matteo) partirà tra poche settimane e, speriamo sia solo l’inizio di un percorso che dall’assistenzialismo, attraverso la distribuzione del materiale raccolto, si possa concentrare sulla formazione di noi Infermieri. L’Armadio dei pigiami, vuole essere un primo passo verso un progetto più ampio di educazione alla fragilità perché chi si trova in un letto d’ospedale ed è fragile (non ha un lavoro, è senza fissa dimora, pranza (cena....se è fortunato) in una delle tante mense per i poveri, è stato lasciato dalla moglie, ha una dipendenza alcoolica, di droga o tutte due) ha bisogno, di infermieri anche preparati alle sue fragilità.
Il kit è solo l’inizio.
Ruggero Rizzini
Infermiere in malattie Infettive e Tropicali San Matteo-Pavia
Presidente Ains onlus
Pubblicatu su INFERMIERE A PAVIA, 1-2/2015
 
 
 


“I nostri infermieri sono bravi, ma sacrificati sull’altare di un risparmio di spesa che mette a rischio pazienti e cure”.Intervista a Barbara Mangiacavalli, Presidente della Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi


Succede alla senatrice Annalisa Silvestro ed è la nuova presidente della Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi, di cui fanno parte 103 Collegi provinciali per un totale di 423.397 infermieri iscritti. Parliamo di Barbara Mangiacavalli, 46 anni, comasca di origine ma ormai pavese di adozione visto che vive e lavora a Pavia da dodici anni. E’ dirigente del Servizio infermieristico tecnico e riabilitativo aziendale (Sitra) presso la Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia.  Alle spalle una preparazione manageriale di tutto rispetto. Oltre alla laurea magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche all'Università di Milano, Mangiacavalli è laureata In Business administration alla Canterbury University nel Regno Unito e in Amministrazioni e politiche pubbliche all’Università di Milano.
La sua elezione si inserisce nel solco già tracciato da Silvestro, che ha guidato la Federazione per quindici anni, e dalla stessa Mangiacavalli, che ha fatto parte del Comitato centrale nei due precedenti mandati, prima come segretaria e poi come vicepresidente. Può essere tranquillamente considerata espressione della grande maggioranza, visto che il gruppo dirigente che l’ha eletta è stato a sua volta eletto dall’85% dei Collegi provinciali.
La prima domanda è d’obbligo. Lei si trova ad essere la presidente di oltre quattrocentomila infermieri di tutt’Italia. Un onore, un onere o ambedue le cose insieme?
“Prima di tutto è un onore. Essere la presidente di oltre 400mila infermieri però è anche una grande responsabilità, non un onere. Soprattutto in un momento come quello attuale di crescita della professione, avviata e decollata negli ultimi quindici anni, ma che ora, grazie proprio al lavoro della Federazione, sta compiendo un vero e proprio balzo avanti”.
La laurea anche per gli infermieri ha aperto la strada a una professionalità sempre maggiore. Resta il problema di consolidare anche a livello culturale questo fattore, sia nel medico che nell'infermiere stesso. Secondo lei quanto si può e si deve ancora crescere in questo senso?
“Direi che forse è proprio questo l’ultimo e più complesso nodo da sciogliere. Laurea, master, specializzazioni e competenze dell’infermiere appaiono ormai come un dato di fatto non solo nella forma, ma anche e soprattutto nella sostanza dell’assistenza di tutti i giorni. Il problema maggiore resta proprio quello culturale. Degli stessi infermieri, con alcuni colleghi (pochi) che si rifanno a modelli vecchi, prima della legge 42/1999 con cui si è abolito definitivamente il mansionario e la professione ha imboccato la strada della crescita e dell’autonomia. Dei medici, con una parte di loro che non vuole una vera riorganizzazione o nuovi modelli, ma crede di poter tenere tutto e fare di tutto. Ci vuole coraggio: nessuno invade il campo di nessun altro, siamo pronti a lavorare con tutti gli altri professionisti in un contesto organizzativo nuovo che si può e si deve realizzare. E’ necessario che tutti lo capiscano”.    
Come vede personalmente la figura di quegli infermieri che ampliano il raggio della loro professione anche ad esperienze che possono essere integrative a quella strettamente in camice? Penso a chi varca le frontiere dell'infermieristica teatrale, sociale oppure anche solidaristica in terre lontane?
“L’infermiere ha come obiettivo l’assistenza e questa spesso ha bisogno di forme di contatto che vanno al di là della clinica. Ne sono esempi la medicina narrativa, che consente al paziente di parlare di se stesso e dei suoi problemi contestualizzandoli in vere e proprie “storie” dalle quali il rapporto con chi si occupa di lui ne esce più che rafforzato. E sulla stessa lunghezza d’onda potremmo mettere quelle manifestazioni, come l’infermieristica teatrale ad esempio, che con un mezzo popolare di tutti i giorni vogliono trasmettere sensazioni e messaggi anche culturalmente evoluti sulla necessità di nuovi rapporti, di un nuovo “patto” con i cittadini, come l’abbiamo definito anche durante l’ultimo nostro congresso nazionale di inizio marzo. Per quanto riguarda invece l’impegno sociale e quello, come lei lo definisce, in terre lontane, non direi che c’è da stupirsi: la solidarietà è nel Dna dell’infermiere che sceglie questa professione. E la solidarietà si manifesta anche con il coinvolgimento nella vita sociale degli assistiti di tutti i giorni e quindi anche con l’aiuto che si può dare a chi ne ha davvero bisogno dove una vera e propria assistenza non c’è. A Pavia abbiamo un ottimo esempio di infermieristica sociale con l’associazione Ains (associazione italiana nursing sociale); cercheremo di capire quali possibilità di collaborazione si potranno sviluppare, in linea con il nostro programma di mandato”.
Infermiere: una professione con mille terminazioni differenti e quindi anche con molte problematiche diverse. C’è l'infermiere del piccolo ospedale sperduto in montagna, l'infermiere a contatto con l'anziano o il disabile, l'infermiere che va a domicilio. Come si può racchiudere tutte queste professionalità comunque differenti in una unica contestualità? E' possibile?
“Credo che la risposta precedente sia alla base della contestualità che lei descrive. La nostra è una  professione che non si occupa solo di curare, ma anche e soprattutto di  prendersi cura dei pazienti. E questo è il minimo comune denominatore di tutte le attività che descrive che, nei vari contesti sociali della vita di tutti i giorni, appunto, unisce la professione infermieristica in tutti i suoi aspetti nella grande famiglia della vera assistenza, soprattutto ai fragili e a chi ne ha più bisogno”.
Spenderei una parola particolare per l'infermiere sul territorio, che appare chiaramente come uno degli sviluppi essenziali nella società presente e futura, ma che spesso si riduce a una serie di mansioni confuse e volte a colmare i gap della sanità. Chi ritiene debba essere veramente l'infermiere del territorio?
“E’ vero: finora l’infermiere sul territorio è stato “usato” per colmare i buchi, anzi le voragini direi, di un sistema che fuori dell’ospedale lascia ben poche scelte ai cittadini. Abbiamo necessità di costruire un’offerta sanitaria  che risponda all'aumento della cronicità, della fragilità, della non autosufficienza e che si impegni per garantire la continuità ospedale territorio e tra i servizi territoriali. Per garantirla, abbiamo bisogno di infermieri in tutti i servizi sia di tipo ospedaliero sia - e soprattutto - di tipo territoriale e domiciliare anche per rispondere a un diritto di civiltà: il diritto alla salute e a un'assistenza dignitosa. L’infermiere sul territorio deve essere il vero referente, il case-manager del cittadino e dei suoi bisogni. Prima di tutto di salute, visto anche che secondo un’indagine Censis presentata al nostro congresso nazionale, oltre 8,7 milioni di italiani cercano prestazioni infermieristiche legate ai bisogni dell’età, alla non autosufficienza e a patologie croniche e la pagano di tasca loro oltre 2,7 miliardi l’anno, ricorrendo però spesso, proprio per la crisi economica del paese, a soluzioni tampone come le badanti o i propri amici e familiari e allungando così le file in pronto soccorso per errori spesso legati alla non professionalità. Ma l’infermiere sul territorio deve essere anche la persona che parla coi cittadini, per educarli rispetto ai bisogni di salute e per condurli per mano in quelle attività di prevenzione che sono i presupposti  di un corretto stile di vita”.
Un’ultima domanda. Che cosa pensa quando sente le notizie di infermieri che preferiscono lasciare l'Italia per cercare fortuna all'estero? E' semplicemente l'indicatore della crisi occupazionale oppure c'è dietro un malessere più ampio?  “I nostri infermieri hanno competenza, capacità, motivazione e una preparazione professionale che li rende richiesti all'estero, dove molti di loro si stanno recando depauperando il nostro patrimonio umano e professionale. Il problema è che loro, così come tanti altri professionisti del Sistema sanitario, sono sacrificati sull’altare di un risparmio che si fa, è vero, ma proprio a loro spese e a spese, spesso, dei pazienti che ottengono un’assistenza di qualità sempre più bassa e più carente. Direi che non c’è un malessere legato alla professione, ma proprio alla crisi occupazionale che da anni è provocata dai blocchi del turn over nelle Regioni e dall’assenza dei contratti. Lo diciamo da tempo ormai: la qualità dell’assistenza e perfino il risparmio economico che deriva dall’appropriatezza delle prestazioni è prima di tutto legata alla qualità del personale. Bisognerebbe che qualcuno aprisse finalmente gli occhi. Anche perché se mancano numericamente gli infermieri si mettono a rischio non solo gli outcome di cura, ma anche la stessa spesa: ricerche internazionali sugli effetti di organici insufficienti hanno messo in evidenza che questa porta a un aumento tra il 4 e il 10% del rischio di malattia e fino al 7% della mortalità. E con questi risultati la spesa è naturale che vada alle stelle”.
Daniela Scherrer
Il TICINO, 03 aprile 2015

 

De viaje. Corso di spagnolo


Un bonsai per ANLAIDS

Come ogni anno aderiamo alla campagna di sensibilizzazione di Anlaids, nata nel 1985 come Associazione Nazionale per la Lotta contro l' AIDS.
Ha come scopo la promozione di iniziative per lo sviluppo della ricerca scientifica nel campo della prevenzione, diagnosi e cura dell' infezione e su come affrontare correttamente i problemi sociali connessi alla malattia.
Il bonsai è stato scelto in quanto pianta delicata che ha bisogno di attenzioni continue come le persone colpite dal virus dell' HIV, per questo rappresenta l' Associazione da più di vent' anni.
In corso Garibaldi 16 a Pavia  (presso il negozio "Presi nella Rete") troverete in questi giorni diverse varietà di piante sia da interno che da esterno!