1 novembre 2008

Il consumismo non sia più il nostro stile di vita!”

Tra commercio equo-solidale e consumo critico, a Pavia l’appello del missionario saveriano padre Adriano Sella

di Daniela Scherrer

Nuovi stili di vita è stato il tema attorno a cui si è sviluppata la giornata di sabato scorso a Pavia, in via Vercesi, presso le ex-serre comunali dietro al Collegio Borromeo. Organizzata dalla Cooperativa Sociale La Piracanta e dal Csv, insieme ad Ains e al Crea, l’iniziativa ha voluto costituire una sorta di percorso guidato attraverso alcuni esempi di nuovi stili di vita, ovvero le buone pratiche per un quotidiano consapevole.
Dai Gruppi Acquisti Solidali di Pavia all’incontro con Bruno Contigiani, il manager trasformatosi nell’ideatore della “giornata mondiale della lentezza” sino alle tante rappresentanze di associazioni volontaristiche che hanno dato vita al mercatino sociale, ai visitatori è stata data l’opportunità di incontrare concretamente alcuni esempi di nuovi stili di vita.
Ospite d’eccezione della giornata è stato padre Adriano Sella, missionario saveriano, autore di libri di successo tra cui “Una solidarietà intelligente”, e “Miniguida dei nuovi stili di vita”. Da lui sono giunti spunti di grande utilità per alcune riflessioni collettive e anche individuali.
Eccolo nell’intervista.
Padre Adriano, perchè solidarietà intelligente?
Partiamo da un dato positivo. In giro c’è tanta solidarietà, tanta generosità. Ma chi ne è protagonista deve anche chiedersi se ciò che fa davvero riesca a rimuovere le cause che generano il male. Altrimenti si rischia di alleviare la sofferenza, ma il male resta e la solidarietà rimane a un livello assistenzialista. Un po’ come quando prendi un antidolorifico perchè ti fa male un dente. Ecco perchè è importante dare intelligenza alla nostra solidarietà.
Quindi i nuovi stili di vita della sua miniguida sono una conseguenza della solidarietà intelligente?
Esattamente. Direi che ne sono la risposta giusta. L’esempio lampante di questi nuovi stili di vita è il commercio equo-solidale: qualcuno che faceva solidarietà intelligente ha capito che non bastava raccogliere fondi per aiutare i produttori nelle zone povere. Il problema era combattere il commercio gestito dalle multinazionali (che non sono più di duecento in tutto il mondo), che davvero genera ingiustizia. E così si sono cominciati a tessere contatti stretti con i produttori, impegnandosi a pagarli giustamente per il loro lavoro. Con questo sistema oggi milioni di produttori nel Sud del mondo sono usciti dalla miseria. Per sempre. Non sono ricchi, ma hanno di che vivere dignitosamente.
Lei sostiene apertamente che i nuovi stili di vita devono essere un processo di cambiamento che parte dal basso...
In questi anni abbiamo visto i risultati ottenuti partendo dall’alto... Appelli, trattati, protocolli...nel 2000 i Grandi del mondo si sono impegnati a dimezzare entro il 2015 la povertà del mondo. Siamo nel 2008 e la Fao recentemente ha fatto sapere che nel mondo ci sono 852 milioni di poveri. Anni fa erano 830 milioni. Per guarire il mondo dalla povertà basterebbe investire un po’ meno nel commercio delle armi, ma non accadrà mai. Capisce perchè bisogna partire dal basso? Prendo ancora ad esempio il commercio equo-solidale, avviato da un gruppo di giovani olandesi e oggi diffuso in tutta Europa.
Perchè li chiama nuovi stili di vita? Significa che non ci sono mai appartenuti? Noi abbiamo innati degli stili di vita prodotti dall’economia di mercato attuale. Tutta la nostra vita, se ci pensiamo, è strutturata in un certo modo. Basti pensare al consumo di acqua minerale in bottiglia, che vede gli italiani al primo posto nel mondo con il 97%. Mentre invece potremmo aprire il rubinetto e mettere quell’acqua, oltretutto molto più controllata, nella brocca di casa. E’ solo un esempio di come ormai la pubblicità abbia invaso la nostra vita e le nostre teste, creando uno stile che costa molto anche al nostro portafoglio.
Nel nome del consumismo...
Chiaramente. Il consumismo è il nostro stile di vita. Abbiamo sete e fame di consumo, anche perchè chi non consuma alla fine quasi si sente in colpa perchè non sostiene il prodotto interno lordo...Vede a che punto ci fanno arrivare? Quando sono tornato dall’Amazzonia, nel 2003, una delle prime notizie che ho sentito in televisione fu che in Italia un’alta percentuale di famiglie è costretta ad affittare un box per depositare ciò che non ci sta più in casa...Ho pensato che stavamo diventando tutti matti! Mediamente in Europa si calcola che ogni famiglia ha diecimila oggetti nella propria casa. Siamo schiavi delle cose e non abbiamo più tempo per le relazioni umane. Ma tutto ciò fa male a noi e anche al nostro portafoglio.
Ma come si può concretamente diventare protagonisti in prima persona di un nuovo stile di vita?
E’ una domanda che mi viene posta spesso. Che cosa possiamo fare noi così piccoli? I nuovi stili di vita si basano su cose possibili a tutti, quotidiane. Non siamo alla ricerca di eroi nè di santi. Un esempio concreto: tutti facciamo la spesa. Quando acquistiamo un prodotto siamo mossi dalla pubblicità oppure ci chiediamo anche che cosa ci sia dietro quella marca? Il consumo critico è un nuovo stile di vita, attraverso cui non si comperano i prodotti di una certa impresa che fa danni in giro per il mondo. Quando conosci cominci a cambiare e spesso cambia anche il tuo consumo.
Lei parla anche di nuovi rapporti con le persone. In che senso?
Oggi viviamo in una condizione di grande povertà relazionale. In Brasile la gente è povera, ma ha una grande ricchezza relazionale: sono accoglienti, sorridono tutti, i volti sono pieni di gioia. Ogni volta che tornavo in Italia, invece, mi colpivano i volti tristi della gente, neanche i bambini sorridono più. Si parla tanto, troppo di malattie psico-mentali, di antidepressivi, di suicidi: è il segno di un malessere forte.
Nuovo rapporto con la mondialità: che significa?
Stiamo costruendo una società multietnica. L’obiettivo di fondo deve essere quello di instaurare rapporti positivi con queste culture affinchè l’interscambio diventi reciprocità positiva. Dobbiamo vincere le resistenze che ancora oggi sono invece molto forti.

ADRIANO SELLA, missionario saveriano, nato a Gambugliano (VI) il 28 aprile 1958, ha conseguito la licenza di teologia morale presso la Facoltà Teologica di Sao Paulo (Brasile). Dal 1987 al 1989, durante l'esperienza pastorale nella diocesi di Vicenza, si è impegnato nel settore dell'emarginazione a favore degli immigrati, degli zingari e anche dal lato dei tossicodipendenti attraverso la comunità terapeutica di San Gaetano di Thiene. 
Dal 1990 lavora in Amazzonia (Brasile) in un grande territorio di 84.417 kmq, chiamato Sao Felix do Xingu - PA, dove ha svolto l'atività pastorale in questi anni, ha accompagnato la ricca realtà delle comunità ecclesiali di base, si è messo a fianco dei tanti contadini che rischiavano di perdere la terra a causa della forte concentrazione della terra nelle mani dei pochi ma grandi latifondisti e ha potuto apprezzare e difendere la cultura e la vita molto interessante degli Indios.

Ora faccio l'infermiere, in passato mi sentivo infermiere

Ruggero Rizzini, quindici anni tra le corsie, confessa scetticismi e delusioni legate alla professione

di Daniela Scherrer

Quarantun anni, infermiere professionale dal 1993 (“per scelta”, sottolinea), Ruggero Rizzini ha alle spalle quindici anni vissuti tra le corsie d’ospedale e tantissime esperienze accumulate in reparti diversi: Oncoematologia Pediatrica, Malattie Infettive, Medicina, Chirurgia Gastroenterologica e Mammaria al San Matteo, quindi anche qualche parentesi al Mondino e alla Maugeri.
Ora è tornato alla Clinica delle Malattie Infettive del Policlinico, dove attualmente presta servizio.
Ruggero, come mai tutti questi cambiamenti nel curriculum lavorativo?
E’ stata una mia scelta, perchè credo che per un infermiere non sia proficuo restare nello stesso ambito per tutta la vita lavorativa. Personalmente ho sempre considerato la mia professione legata a filo doppio alla possibilità di fare il maggior numero di esperienze possibili, affinchè si possa arrivare un giorno ad avere quella esperienza necessaria per poter quantomeno gestire nell’emergenza quasi tutte le situazioni.
Dopo sei anni alla Chirurgia Gastroenterologica e Mammaria sei tornato a Malattie Infettive. Perchè?
Ho voluto ritornare in una Clinica dove c’è il cosiddetto operatore unico, che significa la presenza contemporanea in reparto di due infermieri professionali. Per quanto mi riguarda ritengo infatti fallimentare l’esperienza vissuta al fianco dell’operatore di supporto e non sono d’accordo con la scelta di introdurre questo soprattutto in certi reparti delicati. In passato mi sono trovato a gestire da solo, sotto il profilo infermieristico, ventotto malati, potendo contare solo sul supporto di un operatore che mi dava una mano ma senza responsabilità precise.
Quindi è vero che voi infermieri siete troppo pochi per garantire un’assistenza di qualità?
Sono due le considerazioni che vorrei proporre. In primo luogo indubbiamente nei reparti mancano infermieri e siamo costretti a turni spesso veramente usuranti. Secondariamente, però, aggiungo anche che il personale a volte è mal distribuito. Ad esempio fatico a capire come mai gli ambulatori possono contare sulla presenza tutto sommato equa di infermieri professionali, mentre nei reparti questo non avviene. Forse perchè l’attività ambulatoriale alla struttura sanitaria rende di più rispetto a quella nei reparti? Certamente peraltro non investire a sufficienza sul personale infermieristico per un ospedale significa automaticamente non essere in grado di garantire un’assistenza di qualità.
Tu sei un infermiere turnista. Come funziona il sistema?
Il turno ideale, secondo me, è quello che io sto ad esempio effettuando a Malattie Infettive, ossia una notte ogni cinque giorni. Il ritmo è questo: pomeriggio dalle 13 alle 21, poi mattina e notte (7-13 e 21-7), quindi riposo per quella giornata e per la successiva. E dopo ricominci. Significa una notte ogni cinque giorni. Da altre parti invece l’infermiere fa la notte ogni quattro giorni. E comunque spesso i turni saltano e sei chiamato a coprire orari non tuoi, che costringono a un sovraccarico forte.
E’ vero che di notte l’infermiere fa poco e può anche dormire?
Chiaramente il ritmo è ridotto rispetto a quello del giorno. Innanzitutto sei chiamato a preparare il lavoro per il collega che subentra la mattina successiva e poi l’attività è soprattutto quella del soddisfacimento delle richieste dei pazienti che suonano il campanello. I ricoveri notturni fanno parte dell’eccezionalità. Però alla lunga la notte diventa usurante, anche perchè non è vero che puoi dormire tranquillamente. Io faccio l’infermiere da quindici anni e difficilmente ho visto colleghi dormire la notte. Al massimo puoi riposare un po’ e chiudere gli occhi mezz’oretta.
E’ cambiato il tuo modo di vivere la professione oggi rispetto a quindici anni fa?
Molto. Quando ero più giovane mi sentivo infermiere, oggi faccio l’infermiere. Non è la stessa cosa. Continuo a svolgere questa professione perchè comunque mi piace, ma non ho più così tanti stimoli e lo stesso interesse. Sono fortunato perchè al di fuori dell’ambito sanitario ho trovato una grossa valvola di sfogo, che è l’appartenenza all’Associazione AINS. Fare volontariato mi consente di recuperare serenità, ha migliorato la mia qualità di vita.
Perchè oggi sei più scettico riguardo alla tua professione?
A livello sociale credo che quelle di insegnante, medico e infermiere siano le professioni più utili in tutto il mondo, se ben svolte. Ma devo essere sincero: non credo che il lavoro dell’infermiere, così impostato, sia davvero utile. L’infermiere oggi si tira il collo tutto il giorno tra lavori di manovalanza e burocrazia, senza potersi dedicare a quella educazione sanitaria che sarebbe invece compito prioritario. Invece non riusciamo nemmeno più a trovare il tempo per parlare con il medico, con lo stesso paziente e con i parenti.
Infermiere e sofferenza, addirittura morte. Un incontro quotidiano, vissuto strettamente. Quanto incide questo a livello interiore?
Moltissimo. Anche sotto questo profilo mi rendo conto di essere cambiato con il passare degli anni. Oggi più di allora mi pesa il clima di sofferenza, di dolore che si respira tra le corsie. Ho 41 anni e mi rivedo nei malati che stanno male e che lentamente si spengono. Poi c’è anche la difficoltà nell’affrontare la disperazione dei familiari.
Non venite preparati anche psicologicamente all’incontro col malato e con i parenti?

No e questa secondo me è una lacuna. Non c’è alcuna preparazione nè alcun sostegno psicologico dato all’infermiere, chiamato ogni giorno a incontrare nei reparti dolore e morte. Almeno una volta al mese sarebbe invece importante poter avere un colloquio con uno psicologo, per potersi sfogare e anche confessare stress, paure e sofferenze interiori. Altrimenti il rischio in agguato è quello di andare in “burnout”, con conseguenze sia per se stessi che per il sistema sanitario perchè non si rende più sul posto di lavoro.

Grazie a una Cooperativa ho ricominciato a vivere

Lorena, 47 anni, racconta il suo passato difficile e ringrazia la Cooperativa La Piracanta per l’aiuto ricevuto

di daniela Scherrer

Ha il coraggio e la voglia di tornare ad affrontare la vita che solo una madre può avere, quando tira fuori le unghie pensando al futuro dei propri figli.
Lorena Bendinelli, 47 anni, due figli, non abbassa lo sguardo nel parlare del suo passato, che ella stessa definisce “pesante”. Tossicodipendenza. Depressione. Un uomo al fianco che distrugge corpo e mente. Marchi che si imprimono a fuoco sulla pelle e soprattutto nel cuore. Che ti fanno alzare da un letto improvvisato, la mattina, con un solo pensiero: come arrivare alla fine della giornata. Fino al momento che ti rendi conto che hai toccato il fondo e che devi assolutamente cominciare a risalire la china perchè sei una madre.
Così Lorena ha trovato la forza di reagire alle intemperie della vita. Ha cercato di rialzarsi anche se, senza un diploma e con il famoso “marchio a fuoco”, bussare alle porte e sperare che si aprano è molto difficile.
Invece Lorena ha avuto la sua occasione e l’ha colta al volo: per lei si è aperta la porta della Cooperativa Sociale La Piracanta, di cui è presidente Alberto Moggi. Un portone, si può dire, più che una porta. Perchè all’interno della Cooperativa Lorena ha trovato non solo un lavoro part-time, che le consentisse di riconquistare almeno in parte quell’autonomia perduta, ma delle persone che l’hanno presa in carico globalmente e con amore. Una parola sconosciuta per Lorena.
Il suo “tutor”, in particolare, è Giulia Dezza, volontaria alla Cooperativa, con la quale Lorena è riuscita a instaurare un rapporto di amicizia e di grande fiducia. “Io non pensavo potessero esistere persone così –sorride Lorena- Giulia, insieme agli altri, si è occupata di me come persona a tutto tondo. Per la prima volta mi sono sentita capita, ho realizzato che potevo aprirmi e fidarmi di qualcuno. Che potevo tornare a sentirmi viva e considerata”.

Lorena lavora nel negozio della Cooperativa, in corso Garibaldi, che vende oggettistica prodotta da Cooperative che impiegano soggetti provenienti dal mondo del disagio.
E’ stata assunta nel giugno 2007, dopo un periodo di prova di sei mesi con borsa lavoro. Quattro ore per cinque giorni alla settimana. E la Cooperativa, che al momento non può permettersi un’assunzione a tempo pieno, la sta anche aiutando a trovare qualche altra piccola opportunità lavorativa per arrotondare.
Lorena ora è riuscita ad affittare un appartamento. E’ piccolo, ma per lei è un gioiello, anche perchè è qualcosa di suo. Il segno tangibile di una vita che ricomincia, partendo proprio da un tetto sicuro sopra la testa. E dalla consapevolezza che al suo fianco ci sono persone di cui potersi fidare. Che la ascoltano e la aiutano in questo percorso di risalita, duro ancora oggi ma molto meno scosceso di un tempo. Giulia aggiunge: “La Cooperativa ha fortemente voluto una donna per questo lavoro, perchè crediamo che per il sesso femminile sia ancora più difficile ricostruirsi una vita dopo un passato difficile. Al di là delle pulizie o della catena di montaggio non c’è nulla. Soprattutto quando devi districarti anche nella gestione dei figli. E siamo molto contenti di Lorena, che addirittura a volte, quando c’è bisogno, resta in negozio a fare la volontaria. Il nostro obiettivo è quello di renderla responsabile di questo negozio, in maniera tale che a sua volta potrà un giorno diventare lei stessa “tutor” di un’altra persona da reinserire”.
Lorena sorride. La prospettiva le piace particolarmente. “Sì- ammette- perchè è proprio tale prospettiva a dare un senso alla mia vita di oggi. Io ho sbagliato tanto e questa è la mia occasione di riscatto, che desidero sfruttare al massimo per aiutare altra gente a non sbagliare, e soffrire, tanto quanto me. Ora sento dentro di me una grossa carica. E’ bellissimo alzarsi dal letto la mattina sapendo finalmente che cosa fare. E ricominciare a fare progetti per il futuro”.

Il seme di Nasiriyah, la speranza dalla tragedia

A cinque anni dall’attentato in un libro la splendida storia di Giuseppe Coletta, una delle vittime

di Daniela Scherrer

Nella prima mattinata di un tragico 12 novembre 2003 le violente immagini di guerra entrano prepotentemente nelle case degli italiani. Un camion bomba colpisce la base di Nasiriyah, in Iraq. I morti sono diciannove, tutti italiani: dodici carabinieri e quattro soldati dell’esercito. Il più grave tributo di sangue dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Dolore e rabbia si mescolano nella gente, anche perchè tutte le vittime erano in Iraq per una missione di pace: “Antica Babilonia”. L’intento era quello di ricostruire, di aiutare la gente a ricominciare dopo la Guerra del Golfo. Tra le vittime c’è anche Giuseppe Coletta, carabiniere, un uomo dal cuore grande ma anche gonfio di dolore, che ha scelto di andare lontano per aiutare i padri e le madri a non soffrire per la morte dei loro figli. Lui che ha provato sulla sua pelle lo strazio di perdere il suo Paolo, colpito dalla leucemia. Nel giorno stesso dell’attentato le immagini di tutti i telegiornali che scrutano nel dolore dei familiari delle vittime mostrano una donna che tiene in braccio una bambina di due anni e mezzo e che tra le mani ha il Vangelo. E’ Margherita Coletta, dice a tutti che lei perdona chi ha ucciso suo marito, perchè è questo che insegna Gesù. Quelle parole colpiscono al cuore la gente che ascolta i telegiornali e anche chi, per lavoro, è dietro a un computer e sta scrivendo a raffica per preparare la nuova edizione del giornale. E’ Lucia Bellaspiga, giornalista di “Avvenire”, che si ripromette di intervistare al più presto Margherita per raccontare quella straordinaria vicenda di fede. Così avviene, qualche giorno dopo Lucia incontra la vedova Coletta e tra le due inizia un rapporto di fiducia reciproca destinato a sfociare in amicizia. A tal punto che per cinque anni Margherita rifiuta cortesemente l’approccio con qualsiasi altro giornalista e decide di affidare proprio a Lucia Bellaspiga la storia del suo amore con Giuseppe. Nasce così “Il seme di Nasiriyah”, edito dalla Casa Editrice Ancora, in libreria da pochi giorni, testimonianza di fede e di perdono a meno di un mese dal quinto anniversario dell’attentato. Ne abbiamo parlato con l’autrice del libro, Lucia Bellaspiga, già autrice di altri profili di figure di alto spessore umano, come Carlo Urbani, il medico che sacrificò la propria vita per combattere la Sars.
- Partiamo dal titolo: perchè “Il seme di Nasiriyah”?
“Sono passati cinque anni da quando, a poche ore dalla perdita del marito e col Vangelo in mano, Margherita Coletta ripeteva che Gesù ha detto di perdonare il nostro nemico. Ancora di più ha elaborato il lutto e ha capito che dal dolore doveva nascere qualcosa di grande, facendo sua la frase evangelica “se il seme non muore non dà frutto”. Margherita ha visto nella strage di Nasiriyah questo seme che muore e ha creato l’associazione “Bussate e vi sarà aperto”, che nel nome di Giuseppe ha già salvato la vita a famiglie indebitate, a ragazzi malati, a popolazioni in miseria. Il libro che adesso ha scritto insieme a me è intanto il mezzo per diffondere questo messaggio di speranza e di positività e poi lo strumento per raccogliere tanti fondi, visto che tutti i proventi andranno alla sua associazione. Ora, ad esempio, è stato costruito un grande orfanotrofio in Burkina Faso e il denaro servirà a riempirlo di tutto quanto necessario per farlo funzionare. Ma al di là dei soldi credo che davvero importante sia il messaggio di Margherita, una donna che il giorno della strage parla già di perdono. E aggiungo che questa donna aveva da poco perso il suo bambino di sei anni, morto di leucemia. E allora l’altro grande messaggio che passa è quello della fede. Margherita parla di una sola certezza nella sua vita. Dio non sarebbe Dio se non fosse amore. E se Dio ama non può volere male, quindi Margherita non comprende perchè le mandi queste disgrazie però si affida e ai fida perchè sa che sono per un bene più grande. “Io e Giuseppe siamo ancora insieme –dice Margherita- solo che lui è andato in cielo con nostro figlio, io sono rimasta quaggiù con l’altra figlia. Ma non lo dice nè da esaltata nè parlando da alcun pulpito. E’ una donna normalissima, che a volte mi telefona piangendo perchè le mancano da morire sia il suo bambino che il marito. Non è che non soffra, però si affida e soprattutto non cerca di capire ciò che non si può capire”.
- E’ stato più difficile affrontare il lavoro dal punto di vista umano o professionale?
“Ti aspetteresti forse che ti dicessi umanamente. Invece rispondo professionalmente, perchè non trovavo la chiave per descrivere una storia gigantesca e, nel contempo, piccolissima. Qui non parliamo di un eroe (Giuseppe) e di una santa (Margherita). Parliamo di due persone normali, del Sud, con tutte le grandi difficoltà che hanno dovuto vivere crescendo in un paese piccolissimo, con un amore contrastato, con litigi perchè entrambi avevano un carattere molto forte. Tutto però vissuto in un contesto di amore vero: lei aveva dodici anni e mezzo e lui diciassette quando si sono fidanzati e non si sono mai più lasciati. E’ stato difficile riuscire a rendere lo spessore di una storia senza lasciarsi cadere nella banalità, nell’idealizzazione dei due protagonisti oppure nella retorica del grande amore tipo fiction o telenovela. Bisognava essere asciutti nel raccontare una vicenda senza aggiungere commenti personali. E questa è stata la difficoltà professionale.
Umanamente invece è stato tutto molto facile grazie a Margherita, perchè lei è di un entusiasmo contagioso. Ha solo la terza media, ma racconta la sua storia con una sincerità e una trasparenza che sono davvero trascinanti. Allora se tu come giornalista ti affidi a lei sei a posto. Ed è questo il motivo per cui in copertina, come autrici, figurano entrambi i nostri nomi: è vero che il libro l’ho scritto io ma i contenuti sono tutti suoi. E’ come se ci fossimo sedute insieme al computer: lei che dettava, io che scrivevo”.
- Com’è il rapporto tra Margherita e Maria, la figlia rimasta, che adesso ha sette anni e mezzo?
“Per una donna normale sarebbe stato ovvio parlare di Maria come dell’unica grande forza rimasta. Invece per Margherita non è così. La sua grande forza è il Vangelo vissuto ogni giorno e anche Maria rientra in tutto questo. Poi naturalmente è una madre che letteralmente adora la bambina, anche perchè è l’unica cosa che le resta di Giuseppe e tra l’altro Maria assomiglia molto al papà, ha gli stessi suoi occhi, atteggiamenti identici come la caparbietà. Anche la bambina adora la mamma, come tutti coloro che hanno dovuto fronteggiare una disgrazia è cresciuta molto in fretta, è già una piccola adulta e sa tutto della morte del padre perchè Margherita non le ha mai edulcorato la “pillola”. Il loro è un legame molto forte”.
- Margherita ha perso un figlio e il marito. Ha mai fatto paragoni tra i due tipi di dolore?
“ Io le ho chiesto un giorno se fosse vero che il dolore per la perdita di un figlio supera ogni altro dolore. Mi ha risposto che per lei non è stato così. “Quando ho perso Paolo –mi ha raccontato- ero annientata dallo strazio, però eravamo in due a sostenere questo nostro dolore. Un figlio, se è figlio dell’amore, è parte di entrambi e quando muore in due si reagisce stringendosi ancora di più. Invece quando è morto Giuseppe ho avuto la sensazione di dover sopportare da sola un dolore che era peggio di una montagna caduta sopra di me”. L’unica cosa che ha potuto fare è aggrapparsi alla Croce e da lì è rinata”.
- Quali sono i messaggi forti che speri i lettori riescano a cogliere dal libro?
“Quelli che io stessa cerco di cogliere dal libro e dalle parole di Margherita. Innanzitutto l’invito a non avere paura. Personalmente ho molta paura del dolore, della sofferenza, ho il terrore di ciò che può capitare nella vita e di non essere in grado di superare una disgrazia. Ho conosciuto una donna che ha saputo reggere i dolori più grandi che possano capitare nella vita perchè si è affidata a Qualcuno di più grande. Ecco allora che il messaggio che spero arrivi è quello di non disperare mai nella vita perchè c’è sempre Qualcuno che può sorreggerci nel momento del bisogno. L’altro messaggio è il non vivere per noi stessi. Giuseppe ha cominciato ad andare lontano rischiando la vita dopo la morte di Paolo, ha sentito il bisogno di andare in quei posti dove la gente vive l’inferno sulla terra e dove i bambini muoiono continuamente perchè non ci sono incubatrici, soluzioni fisiologiche nè medicine. Lui da lì scriveva lettere disperate, si faceva mandare camionate di aiuti, organizzava staffette di aerei e camion da ogni parte dell’Europa. Queste erano per lui le missioni di pace. Diceva che doveva fare qualcosa perchè altri genitori non piangessero per la morte dei loro figli. E’ un invito a ricordarsi che il mondo non finisce tra le pareti di casa nostra e del nostro ufficio”.
- Prefazione e postfazione sono affidati a due grandi giornalisti: Toni Capuozzo e Ritanna Armeni...
“Mi dai l’occasione di ringraziare questi due grandi giornalisti: uno è l’inviato di guerra Toni Capuozzo, l’altra è Ritanna Armeni, donna non credente, di sinistra, quindi di posizioni diametralmente opposte. Dopo aver letto il libro ha scritto un testo bellissimo ripetendo tre volte “Io da non credente non avrei mai immaginato che fosse possibile una storia simile.” E Toni Capuozzo scrive: “C’è molto male in giro, ma anche il bene sa essere contagioso”. E’ un po’ la chiave del libro. Anche solo aiutare una persona in crisi fa capire che è valsa la pena scrivere questo libro. E Margherita sta già ricevendo lettere e mail di questo tipo. I giovani non hanno più esempi da seguire: c’è chi vuol fare la Velina, chi si innamora di Fabrizio Corona perchè è il massimo della vita, chi scrive lettere in carcere a Erika e Omar perchè hanno ammazzato e quindi sono eroi. Ma quando tu presenti queste figure esemplari, credimi, alla fine i giovani si innamorano veramente di loro”.