Il regista pavese ha ottenuto il finanziamento dal ministero Presto la presentazione del suo ultimo lavoro con I Solisti
PAVIA. “Voglio far vedere un albero come se nessuno avesse mai visto un albero”, diceva il regista e produttore cinematografico tedesco Werner Herzog. Così, rendendo sua la citazione, dice anche Filippo Ticozzi, regista e produttore pavese. Tacozzi, infatti, ormai da anni lavora nel campo cinematografico con varie produzioni e ha ricevuto anche diversi riconoscimenti a livello internazionale. Ha da poco ideato un nuovo progetto: un film-documentario ambientato in Uganda ed intitolato “Moo-Ya”, prendendo il nome da una divinità indigena africana. «Il progetto è prodotto dalla casa cinematografica romana “Effendemfilm” di Federico Minetti, anche lui originario di Pavia», racconta. Ticozzi questa volta ha preferito, quindi, non servirsi della propria casa di produzione, La Città Incantata Produzioni Audiovisive, ma si è rivolto ad una più grande, specializzata in documentari. «All’inizio temevamo di non avere abbastanza fondi per realizzarlo – aggiunge – ma ad agosto, con molta gioia, siamo riusciti ad ottenere un finanziamento dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, così, massimo a fine gennaio, inizieremo le riprese». In cosa consiste esattamente questo docu-film? «In realtà non c’è una vera trama – risponde Ticozzi – Il protagonista è Opìo, un cantastorie ugandese di sessant’anni cieco che intraprende un viaggio tra le terre del suo Paese senza una motivazione apparente e senza destinazione». L’intento di Filippo Ticozzi è quello di descrivere attraverso un punto di vista nuovo dei luoghi conosciuti, dati per scontati, ma che attraverso le percezioni di un non vedente assumono significati inediti. «Opìo procede a tentoni in terre intrise di tradizioni a lui note, ma che non riesce ad afferrare fino in fondo perché gli sfuggono alla vista – spiega il ragista - Anche se io insinuo il dubbio che forse sia proprio lui a percepire qualcosa di più rispetto a tutti gli altri che vedono». La cosa interessante, inoltre, è che il protagonista del docu-film non è un personaggio fittizio: «Questo ugandese io lo conosco davvero e mi ha colpito talmente tanto che ho deciso di scrivere una sceneggiatura su di lui – rivela Ticozzi – Poi gli ho chiesto se era disposto a fare l’attore per il mio progetto e ha accettato». L’ultimo periodo è caratterizzato da grandi soddisfazioni per questo regista pavese, perché non solo grazie ai finanziamenti del MiBact potrà realizzare “Moo-Ya”, ma lunedì 21 dicembre presenterà anche al Teatro Fraschini di Pavia il suo ultimo film-documentario, questa volta meno “fuori dalle righe”; stiamo parlando del lavoro “Enrico Dindo e I Solisti di Pavia”. «È stato un grande piacere stare vicino al violoncellista Dindo per più di venti giorni, seguire i suoi concerti e ascoltare la sua musica – commenta – ma è certo che il tipo di operazione fatta è completamente diversa rispetto a quella che sarà la storia di Opìo». Comunque, anche se in maniera meno sperimentale Filippo Ticozzi in questo docu-film ha fatto un’analisi della carriera degli artisti di musica classica, attraverso una serie di interviste. «Racconto come sono nati i Solisti, dopo averli seguiti in alcune date, tra cui la tourneè in Sud America di quest’autunno e la registrazione del loro ultimo album», sottolinea. Questa volta sotto la produzione della Fondazione I Solisti di Pavia, il regista si è concentrato non tanto sugli aspetti del backstage, ma sulla musica e le prove in preparazione delle esibizioni. Un lavoro, dunque, non solo per amanti di buon cinema, ma anche della buona musica.
Gaia Curci (La Provincia Pavese, 10 dicembre 2015)
11 dicembre 2015
In Birmania il regista pavese filma il matrimonio gay
Il documentario “Irrawaddy mon amour” di Grignani, Testagrossa e Zambelli debutta alla rassegna di Amsterdam e partecipa al Torino Film Festival
PAVIA. Tre registi italiani, di cui uno pavese, raccontano uno dei primi matrimoni gay in Birmania, all’indomani della vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni legislative – le prime libere dal 1990 – dando voce a una comunità di persone per cui questa svolta democratica vale ancora di più. Sono le lesbiche, i gay, i bisessuali e transgender birmani, che finalmente possono sperare in un futuro diverso nel loro paese, e a loro è dedicato “Irrawaddy mon amour”, il film documentario di Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli e Nicola Grignani, quest'ultimo videomaker e videoattivista pavese, classe '77, con un ricco bagaglio di esperienze sulle spalle: a cominciare dalla laurea al Dams di Bologna con una tesi sul cinema cubano, passando per la fondazione del collettivo bolognese Teleimmagini nel 2002, e arrivando ad una lista di riconoscimenti in importanti docu-festival internazionali, che continua ad allungarsi.
Già autori, insieme, di “Striplife” (Italia, 2013, 64') – lungometraggio girato nella striscia di Gaza - i tre registi si preparano in questi giorni a due appuntamenti importanti per il loro “Irrawaddy mon amour”: il primo, il 22 novembre, ci sarà la premiere mondiale all'Idfa di Amsterdam (uno dei più importanti festival internazionali per il genere docu); il secondo, il 25 novembre, sarà la prima italiana al Torino Film Festival.
«Abbiamo voluto raccontare una delle prime unioni gay in Birmania e la coraggiosa scelta dei suoi protagonisti di affermare il diritto di amare, sfidando paure e rischi, in un paese in cui la libertà è stata finora una chimera – spiega Nicola Grignani – L'idea è nata da un viaggio di Valeria Testagrossa nel 2009, quando per caso, dopo essere salita su un camion che trasportava sacchi di riso, si è ritrovata in questo posto sperduto nel cuore della Birmania, un villaggio contadino che vive sull'Irrawaddy, il fiume navigabile da cui prende il nome il documentario. In mezzo a non più di 600 abitanti abita una comunità molto forte di gay, lesbiche e trans, pronti a rivendicare i loro diritti. Una cosa straordinaria, anche pensando al fatto che in quel paese non vedevano uno straniero da vent'anni. Nel 2014, con Valeria e Andrea siamo tornati lì e tra 2014 e 2015 abbiamo fatto le riprese. Adesso ci prepariamo per le due anteprime, non ci aspettavamo un successo così immediato quindi siamo, felici, ma di corsa». E’ attiva anche una campagna di crowdfunding su Indiegogo, raggiungibile digitando irrawaddymonamour.com.
Marta Pizzocaro (La Provincia Pavese, 12 novembre 2015)
PAVIA. Tre registi italiani, di cui uno pavese, raccontano uno dei primi matrimoni gay in Birmania, all’indomani della vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni legislative – le prime libere dal 1990 – dando voce a una comunità di persone per cui questa svolta democratica vale ancora di più. Sono le lesbiche, i gay, i bisessuali e transgender birmani, che finalmente possono sperare in un futuro diverso nel loro paese, e a loro è dedicato “Irrawaddy mon amour”, il film documentario di Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli e Nicola Grignani, quest'ultimo videomaker e videoattivista pavese, classe '77, con un ricco bagaglio di esperienze sulle spalle: a cominciare dalla laurea al Dams di Bologna con una tesi sul cinema cubano, passando per la fondazione del collettivo bolognese Teleimmagini nel 2002, e arrivando ad una lista di riconoscimenti in importanti docu-festival internazionali, che continua ad allungarsi.
Già autori, insieme, di “Striplife” (Italia, 2013, 64') – lungometraggio girato nella striscia di Gaza - i tre registi si preparano in questi giorni a due appuntamenti importanti per il loro “Irrawaddy mon amour”: il primo, il 22 novembre, ci sarà la premiere mondiale all'Idfa di Amsterdam (uno dei più importanti festival internazionali per il genere docu); il secondo, il 25 novembre, sarà la prima italiana al Torino Film Festival.
«Abbiamo voluto raccontare una delle prime unioni gay in Birmania e la coraggiosa scelta dei suoi protagonisti di affermare il diritto di amare, sfidando paure e rischi, in un paese in cui la libertà è stata finora una chimera – spiega Nicola Grignani – L'idea è nata da un viaggio di Valeria Testagrossa nel 2009, quando per caso, dopo essere salita su un camion che trasportava sacchi di riso, si è ritrovata in questo posto sperduto nel cuore della Birmania, un villaggio contadino che vive sull'Irrawaddy, il fiume navigabile da cui prende il nome il documentario. In mezzo a non più di 600 abitanti abita una comunità molto forte di gay, lesbiche e trans, pronti a rivendicare i loro diritti. Una cosa straordinaria, anche pensando al fatto che in quel paese non vedevano uno straniero da vent'anni. Nel 2014, con Valeria e Andrea siamo tornati lì e tra 2014 e 2015 abbiamo fatto le riprese. Adesso ci prepariamo per le due anteprime, non ci aspettavamo un successo così immediato quindi siamo, felici, ma di corsa». E’ attiva anche una campagna di crowdfunding su Indiegogo, raggiungibile digitando irrawaddymonamour.com.
Marta Pizzocaro (La Provincia Pavese, 12 novembre 2015)
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