23 novembre 2013

Allende resta il nostro mito realizzeremo il suo sogno

La leader del movimento studentesco Camila Vallejo: il Cile è pronto a cambiare FILIPPO FIORINI www.lastampa.it Sono passati solo pochi giorni dalla notte in cui Camila Vallejo ha smesso di essere il volto del movimento studentesco cileno ed è diventata deputato di una delle repubbliche più antiche al mondo. In queste ore, la ragazza di appena 25 anni, ha partecipato a talk show politici nelle principali reti nazionali, ha camminato per le strade dei quartieri poveri di Santiago che l’hanno votata, ha cullato Adela, la sua bambina di un mese. Camila, quanto è cambiata la sua vita negli ultimi tempi? «Molto. Diventare madre, la campagna elettorale, è arrivato tutto insieme e le 24 ore non mi bastano più. Però l’appoggio della gente è una buona ragione per tenere duro. Mi dà forza». Quando si è resa conto che sarebbe potuta arrivare così in alto? «Non so se sono arrivata veramente così in alto, comunque alla fine del 2011, con le piazze piene di studenti, ho capito che avremmo potuto combattere una grande battaglia. Poi però mi sono anche resa conto che scendere in strada e protestare non bastava. Bisognava prendersi la responsabilità e fare qualcosa per consolidare tutta quella forza». Si aspettava di vincere con tanto margine? «Ho sempre avuto fiducia nel lavoro fatto per strada. Siamo stati molto sul territorio, parlando faccia a faccia con le persone. Però il risultato ha superato le aspettative. Oggi il Cile si è svegliato e vuole cambiare. Questo va oltre la mia candidatura, ci sono gli altri deputati del Partito comunista o gli altri ex dirigenti universitari, i loro risultati sono tutti parte di questa voglia di cambiare». Ci sono stati molti giovani eletti, ma i giovani che sono andati a votare sono stati pochi. «Tra la gente c’è un po’ di sfiducia, un po’ di disinteresse e anche un po’ di ignoranza. Nel nostro Paese manca ancora molta educazione civica e questa è un’eredità della dittatura militare. Molte persone non sanno nemmeno cos’è un ministro, un senatore o un sindaco, e dicono: “Io non sono un politico e non mi interessa la politica”, però poi la politica irrompe nella loro intimità e si fa gli affari loro. Questo è un problema che si risolve a partire dall’educazione. Una questione che è stata posticipata per molti anni, visto che non interessava cambiare le cose. Eppure un miglioramento c’è stato: prima nessuno parlava di una nuova Costituzione e adesso la riforma è una delle priorità. Non è possibile vivere con una Costituzione ereditata dalla dittatura militare solo perché non siamo stati capaci di modificarla. Riprenderemo il progetto di Salvador Allende, che è stato interrotto ma non sconfitto. La dittatura di Pinochet ha lasciato una profonda ferita che ancora non è stata sanata. Ora si tratta di recuperare quello che ci è stato tolto». Con questi numeri in Parlamento, però non vi sarà possibile riformare la Costituzione. Non è così? «È una posizione troppo pessimista. Con la coalizione Nueva Mayoria (quella guidata da Michelle Bachelet, ndr) abbiamo ottenuto un numero di parlamentari sufficiente ad aprire un dibattito sull’argomento. È vero che la riforma dei principi fondanti della Costituzione richiede un quorum che non abbiamo, però è anche vero che quello che abbiamo fatto finora con il movimento studentesco supera quello che si considerava il limite del possibile. E allora perché non continuare ad avere fiducia?». Perché adesso il movimento studentesco la critica? «Questa è una caratteristica dei movimenti. Devono mantenersi indipendenti rispetto ai governi di turno. È proprio così che danno vita ai cambiamenti. Abbiamo bisogno di un Parlamento aperto alla partecipazione dei cittadini in generale, non che dica: “Questo è quello che vogliamo, dovete adeguarvi”, ma che sappia ascoltare tutti e io sono disposta a ascoltare anche chi mi critica».

3 novembre 2013

Responsabilità, parola che da noi non trova casa

di GIORGIO BOATTI Le colpe? Sono sempre degli altri. Gli oneri? Da qualche parte devono andare, purché non a casa nostra. E gli errori? Li fanno tutti, ad eccezione di noi stessi. C’è una parola, sull’attuale ribalta pubblica e privata italiana, di cui si sente fortemente la mancanza e questa parola si chiama “responsabilità”. Dunque ben venga la scelta di dedicarle la settima edizione del Festival dei Diritti, che si tiene a Pavia dal 5 al 30 novembre per iniziativa del Csv (Centro Servizi Volontariato, che associa oltre 100 associazioni non profit che operano sul territorio della provincia nei più svariati settori, dall’assistenza alla cultura, dalla sanità alla formazione, dall’ambiente al tempo libero, dallo sport al teatro). Certo può sembrare un controsenso che, in una rassegna che proclama di volersi occupare dei diritti, ovvero di ciò che ci spetta, come persone, cittadini e comunità, si orienti l’attenzione a un tema che se non sta di fronte – il dovere – sta senza dubbio a lato. Sta così a lato che, spesso e volentieri, si finisce col dimenticare che ci sia, o che cosa sia. A proposito, che cosa è la responsabilità? Gli organizzatori del Festival ne danno una così eccellente definizione che non si può che riprenderla in toto: “essere responsabili significa impegnarsi a rispondere, a qualcuno o a se stessi, delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano… La responsabilità è la possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e correggere lo stesso sulla base di tale previsione”. Decine di incontri, di spettacoli, di presentazioni di libri scandiranno in vari luoghi della città lo svolgersi del Festival, che fa la scelta saggia di iniziare, il pomeriggio di martedì 5 novembre, dalla questione della responsabilità dei e verso i più giovani. Perché responsabili non si nasce, si diventa: attraverso l’educazione, l’esempio, il coinvolgimento offerto dalla famiglia, dalla scuola, dal mondo che si frequenta. Certo, di questi tempi, la responsabilità non va molto di moda, soprattutto in Italia. Siamo un Paese in difficoltà – inutile riprendere ancora una volta i dati drammatici su disoccupazione, difficoltà economiche delle famiglie, ritardi della politica e dello Stato nel far fronte alle proprie responsabilità. L’ultimissimo capitolo su questo fronte l’ha scritto la decisione del governo di tagliare, per il prossimo anno, lo stanziamento di alcune decine di milioni di euro che era stato già deciso a favore delle università “virtuose”. Per la prima volta atenei che hanno saputo coniugare con saggezza risparmi nelle spese correnti con ottime performance nella ricerca – l’Università di Pavia è tra queste realtà virtuose e in buonissima posizione – avrebbero avuto una quota di finanziamenti superiore rispetto a realtà più spendaccione e meno capaci di distinguersi sul fronte della ricerca. La recente classifica dell’Anvur, proprio sui risultati, ateneo per ateneo, sul fronte della ricerca scientifica, serviva anche a determinare le priorità nell’assegnazione dei finanziamenti. E invece, all’ultimo momento, a Roma, strattonati da tante sollecitazioni di parte, si è deciso che non sarà così: si continuerà come si è sempre fatto. Ancora una volta i finanziamenti saranno a pioggia, indistintamente. Il merito e l’impegno, in una parola, la responsabilità, non avranno il riconoscimento che avrebbero dovuto finalmente avere. Inutile negarlo: la responsabilità è una pianta che fa fatica a crescere nella nostra penisola e, forse, nel clima latino. Non a caso se sfogliate un dizionario etimologico scoprite che, nel significato che ha assunto attualmente, il termine giunge a noi da lontano, dal termine inglese responsability che comincia a diffondersi, dopo la rivoluzione inglese del 1640-48. Il dizionario americano Webster le assegna il 1771 come data di nascita negli USA. Noi, purtroppo, presi da fanatismi rissosi e conformismi ideologici, dove determinare la rovina di qualcuno è assai più rilevante che perseguire il bene di tutti, veniamo da un’altra cultura e storia e abbiamo sempre faticato a cambiare strada. “Perché tutte e due le mani destinate a costruire città le tengono impegnate a maneggiare la spada contro nemici? Perché, buon Signore, non ne usano almeno una per edificare?”: se lo chiedeva, angosciato, Pierre Faber, il più fedele compagno di Ignazio di Loyola, il fondatore dei gesuiti, un secolo prima della rivoluzione inglese e qualche anno prima delle deliberazioni di quel Concilio di Trento che con la Controriforma cambiò non solo il cammino della Chiesa ma anche quello dell’Italia. Ora, seppur con una deviazione di qualche secolo, alla questione della responsabilità come elemento fondamentale di ogni effettiva cittadinanza, siamo arrivati anche noi. Che sia la volta buona? DRITTO E ROVESCIO - LA PROVINCIA PAVESE,3 novembre 2013