30 aprile 2013

110 e lode

Carissime, Carissimi,

lunedì scorso Laura Sarchi si è laureata in INGEGNERIA CIVILE E ARCHITETTURA con 110 e lode discutendo la tesi che ha avuto per oggetto la progettazione di un centro di recupero nutrizionale per bambini fino ai cinque anni, in un villaggio rurale, aldea, del Guatemala Centro Orientale. (Titolo: CENTRO DI RECUPERO NUTRIZIONALE IN GUATEMALA. MATERIALI E TECNICHE LOCALI PER UN PROGETTO DI COOPERAZIONE NELL’ALDEA EL RANCHO).

Ecco come laura spiega la nascita del progetto Tesi:

Il 29 settembre, siamo partiti in sei: Ruggero Rizzini, presidente di AINS Onlus, Marco Majocchi e Lorenzo Buratti, ingegneri dell’Ordine che hanno seguito il progetto, Simona Albani, infermiera, Giovanni Ferma, cooperante dell’associazione, ed io. Arrivati in Guatemala, siamo stati ospitati nella casa di Alvaro, alla Champa paesino adiacente a El Rancho, in cui si colloca l’area di progetto. Il presente lavoro di tesi ha per oggetto la progettazione di un centro di recupero nutrizionale per bambini fino ai cinque anni, in un villaggio rurale, aldea, del Guatemala Centro Orientale. La scelta di questo argomento deriva dall’interesse e dalla volontà di approfondire il tema della progettazione nei paesi in via di sviluppo, nell’ambito della cooperazione internazionale, ritenendolo formativo e stimolante, sia a livello progettuale che personale, per la compresenza di tematiche progettuali, ambientali, sociali e culturali. Quest’esperienza mi ha offerto la possibilità di apprendere le tecnologie locali e l’uso di materiali propri di un contesto diverso, conoscere una realtà ricca di contrasti, dove il contatto con le persone rappresenta il valore aggiunto di ogni esperienza e il fulcro di partenza per ogni progetto. Tema e luogo sono stati dunque dettati da esperienze reali e contingenti che ho avuto modo di conoscere a seguito di un Accordo Quadro di Cooperazione tra l’Università di Pavia e l’Ordine degli Ingegneri di Pavia, attraverso la Commissione Solidarietà Sociale e Cooperazione Internazionale. Quest’ultima, tra gli incarichi, ha all’attivo una collaborazione con l’associazione AINS Onlus per la realizzazione di un centro polifunzionale in Guatemala all’interno dell’aldea El Rancho del dipartimento di El Progreso. Il progetto si colloca in un lotto di terreno, di circa 30 per 40 metri, regalato da una donna dell’aldea al presidente dell’Asociaciòn Siervo De Dios Moises Lira Serafìn e referente locale di AINS, Alvaro Aguilar. Insieme a Ruggero Rizzini, presidente di AINS, i due hanno deciso di destinare l’area alla costruzione di un centro che integrasse attività di sviluppo e sostegno alle comunità della zona. A causa del grave problema di denutrizione infantile che colpisce il paese, AINS decise di inserire all’interno del lotto un centro nutrizionale; il dipartimento di El Progreso infatti appartiene al corredor seco, regione ciclicamente colpita da crisi alimentari, causate dalla siccità che danneggia i raccolti di mais e fagioli, alimentazione base della popolazione guatemalteca. Il centro intende dunque affiancare all’attività di recupero e riabilitazione dei bambini malnutriti e denutriti, circa la metà dei bambini guatemaltechi sotto i cinque anni, il lavoro con i genitori, attraverso la loro formazione, sia sulla questione agricola, che sulla microimpresa e manualità. Per questo motivo il progetto parte come centro polifunzionale, al fine di assicurarne l’autosufficienza, attraverso la presenza di una farmacia e un negozio-laboratorio per le famiglie della zona. Questi locali, insieme ad una sala conferenze e all’alloggio per il guardiano, erano le preesistenze a cui si sono aggiunte le aree di degenza e terapia del centro nutrizionale. Grazie quindi all’accordo tra Università e Ordine degli Ingegneri e all’associazione AINS, che mi ha accolto, ho avuto la possibilità (e la fortuna) di trascorrere un periodo di 15 giorni in Guatemala, nel dipartimento che ospiterà il progetto. Preliminarmente alla partenza è stato necessario raccogliere informazioni storico politiche, culturali e sociali del paese e contestualmente fare un’analisi sui materiali e sulle tecnologie costruttive locali. Ma conoscere e comprendere la realtà locale non è stato facile, il Guatemala appare come un paese “Assurdo, ma reale!” come lo ha definito Ruggero, “dove la donna non ha spazio e le famiglie non possono mandare i propri figli a scuola; dove la popolazione non si può permettere un'assistenza sanitaria di base; dove la violenza è quotidiana; dove le condizioni igieniche sono inesistenti; dove l'aumento di 20 centesimi di euro sul costo della carne mette in crisi migliaia di persone che vivono con stipendi sempre uguali e miseri da anni. Dall'altra, nel mondo dorato della capitale, è un marciapiede piastrellato che una donna con la pettorina della municipalità lava come fosse il pavimento di casa, tra ristoranti, negozi alla moda e banche”. Le storie di violenza, domestica, dovuta alla guerra civile o alla criminalità ordinaria, contrastano fortemente con l’accoglienza ospitale che ho ricevuto dalle persone, il cui incontro è stato fondamentale in questa esperienza. Parlare con Alvaro mi ha permesso di capire meglio la realtà quotidiana di chi vive in quelle comunità, le problematiche sociali e le esigenze, non solo sanitarie. Ci ha illustrato i requisiti di cui andrebbe dotato il centro nutrizionale, come la presenza di determinate funzioni, il numero di posti e la necessità di un muro di protezione in calcestruzzo, così come se ne vedono in Guatemala in tutte le strutture pubbliche o che necessitano privacy e sicurezza. La visita di alcuni cantieri e le stesse abitazioni, che in alcuni casi hanno l’aspetto di cantieri a vista, mi hanno permesso di farmi un’idea dei materiali disponibili e di come questi vengano impiegati. Gli incontri con Don Balda e Don Byron, costruttori locali, a cui è affidata la realizzazione del centro, hanno permesso di valutare quali soluzioni proposte fossero realizzabili, in termini di competenze e costi, e quali conoscenze e tecnologie fossero utilizzate nella progettazione antisismica. Nello specifico del tema progettuale, durante il mio soggiorno ho potuto comprendere meglio la natura del problema della denutrizione, le cause, gli effetti e gli interventi che questo problema richiede a livello ambulatoriale. Partecipare a una giornata di salute, durante la quale medici volontari visitano i membri di alcune comunità rurali, come Chanrayo, mi ha dato una parziale idea sull’entità e la grande diffusione di questo problema e sulla realtà quotidiana in cui vivono le persone, sulle loro abitazioni e sulle malattie più diffuse, in particolare tra i bambini. L’acquisizione all’interno del gruppo di tre volontari spagnoli: due infermieri e un educatore, mi ha inoltre permesso di porre domande e raccogliere dati da chi, da anni, è a stretto contatto con il problema della denutrizione e ha lavorato in centri nutrizionali dell’area. Visitare alcune strutture ospedaliere dell’area, l’ospedale di Guastatoya, la clinica di El Estor, vicino al lago Izabal e il centro nutrizionale di Teculutàn, a Zacapa, mi ha permesso di prendere coscienza dell’organizzazione, degli standard vigenti e delle esigenze degli ambienti ospedalieri dedicati ai bambini, oltre a permettermi di farmi un’idea delle criticità tanto della situazione generale che delle tecnologie utilizzate. Durante il soggiorno abbiamo anche effettuato altri spostamenti e visite, queste hanno riguardato le zone in cui l’associazione è impegnata in microprogetti, come il Liceo San Jose, l’hogar di Mazatenango per bambine che hanno subito violenza, la comunità del Poshte, le signore che producono shampoo a El Conacaste e una visita alla scuola sorta vicino alla discarica di Cobàn. Un weekend è stato dedicato alla visita di Antigua, in cui abbiamo potuto apprezzare l’architettura coloniale che l’ha resa Patrimonio dell’Umanità da parte dell’UNESCO.

29 aprile 2013

Due euro per il Guatemala

Due euro, il costo di una visita medica in Guatemala. E’ l’appello che Ains lancia ai pavesi chiedendo loro di sostenere il progetto “Giornate di salute”. Consiste nel dare la possibilità a chi non ha accesso a servizi sanitari e non può acquistare un farmaco di farsi visitare gratuitamente da un medico che si reca nei villaggi. Nei primi tre mesi del 2013 sono state visitate 428 persone di tutte le età. «Dietro ai numeri ci sono persone che hanno necessità e che crediamo debbano essere aiutate indipendentemente da dove vivono – spiega Ruggero Rizzini, presidente di Ains – . Noi ci rechiamo in Guatemala da 15 anni e, tra le tante necessità che l’associazione locale con cui lavoriamo (Moises Lira Serafin) ci ha segnalato, oltre al bisogno educativo, c’è quello sanitario. Soprattutto sulle montagne lo Stato è assente e si rischia di morire per una banale infezione delle vie respiratorie, per dissenteria, per parassitismo intestinale». Il costo per giornata è di 500 euro, 2 euro a visita, per allestire un triage improvvisato in una chiesa o in un’aula scolastica. Per informazioni è possibile consultare anche ainsonlus.blogspot.com.

(maria grazia piccaluga)
la provincia pavese, venerdì 26 aprile 2013

Guatemala, lista di morte per i sacerdoti che chiedono verità

Come sempre, nei momenti chiave della vita, monsignor Juan José Gerardi, non aveva una penna. «Fui io a prestargli la biro con cui annotò alcune frasi che avrebbe pronunciato nella presentazione», racconta il sacerdote José Luis Colmenares. Era il 24 aprile 1998 e il vescovo di Città del Guatemala si accingeva a rendere pubblico “Guatemala Nunca Más” (Guetamala mai più), il rapporto-verità sui 36 anni di guerra civile in cui furono massacrate 200mila persone. Il testo documentava nel dettaglio oltre 55mila episodi di violenza commesse per la maggior parte dall’esercito o dai gruppi paramilitari a questo vicini. La prova della fondatezza di quella denuncia arrivò 54 ore dopo: nella notte tra il 26 e il 27 aprile il cadavere martoriato di Juan Gerardi fu ritrovato nel garage della sua parrocchia.

Gli stessi resti che, quindici anni dopo, nella notte tra venerdì e sabato, sono stati trasportati a spalla dalla cripta – dove erano stati sepolti – nella Plaza de la Constitución e da lì nel cuore della cattedrale guatemalteca. Riposeranno nella cappella di San Sebastián insieme a quelli dell’arcivescovo Próspero Penados, amico di Gerardi e, come lui, storico difensore dei diritti umani, morto nel 2005. Ad accompagnare la processione c’erano migliaia di guatemaltechi. Cattolici ma anche di altre confessioni o non credenti, per cui monsignor Gerardi continua ad essere una luce di speranza. Ora come e, forse, più di 15 anni fa, il Guatemala è immerso nelle tenebre dell’impunità e dell’intolleranza. Non solo i mandanti dell’assassinio del vescovo sono liberi. Impuniti sono pure la gran maggioranza dei crimini del conflitto. Il tentativo di processare l’ex dittatore Efraím Ríos Montt per il genocidio di migliaia di indigeni è stato bloccato dalla magistratura. Che, proprio in prossimità della sentenza, ha annullato il giudizio: un nuovo procedimento comincerà in autunno. In teoria. Perché in pratica i settori vicini all’ex generale e ai suoi gerarchi stanno realizzando una violenta campagna per impedire che sia finalmente fatta giustizia.
Con denunce inventate e minacce contro chi difende i diritti umani. In primis quei sacerdoti che continuano l’azione di monsignor Gerardi. Vari documenti d’accusa, con nomi e fotografie di questi preti, vescovi, religiosi scomodi, e delle organizzazioni che hanno creato, vengono diffusi in Rete e per le strade del Paese. L’ultimo caso sono i due inquietanti rapporti di una non meglio precisata “Fondazione anti-terrorismo”. In cui vari religiosi e associazioni cattoliche sono indicati come «fomentatori d’odio» e «nemici del Paese». Naturale che gli attivisti siano preoccupati. In tanti ricordano che elenchi analoghi venivano diffuse ai tempi della guerra civile insieme allo slogan «sii patriota, uccidi un prete». Anche stavolta alle intimidazioni si accompagnano le violenze: tra febbraio e aprile sono stati massacrati otto leader comunitari, le aggressioni sono oltre 300.
«Assistiamo a un costante mancanza di rispetto verso la vita umana», ha denunciato in un comunicato la Conferenza episcopale guatemalteca letto al termine della Messa per monsignor Gerardi. A celebrare la funzione è stato l’arcivescovo Oscar Julio Vian. Che ha definito il vescovo assassinato un «martire della pace». Un esempio per il Guatemala attuale. In cui continua ad echeggiare il suo grido: «Nunca Más» (Mai più).

Lucia Capuzzi
Fonte: http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/guatemala-chiesa-nel-mirino.aspx

19 aprile 2013

SOLIDARIETÀ? È MEGLIO DIRE SOCIALITÀ

di Maurizio Ermisino


Non assistenzialismo, ma essere comunità dove il bene di tutti è il bene del singolo. È l’opinione di Giorgio Diritti, che nel film “Un giorno devi andare” racconta di una donna che viaggia in Amazzonia per aiutare il prossimo.
Un giorno senti che devi cambiare vita. Devi andare. Devi essere. Devi sperare. Sono le parole di Augusta (Jasmine Trinca), protagonista e voce narrante di “Un giorno devi andare”, il nuovo film di Giorgio Diritti. Reduce da un dolore enorme, come la perdita del bambino che aspettava e la notizia che non potrà avere figli, Augusta decide di partire per il Brasile. Per scoprire altri valori. Per scoprire la base. Per ritrovare un senso. Prima in una missione cattolica. Poi in una favela vicino a Manaus. Perché «per cambiare le cose devi andare dove le cose bisogna cambiarle». “Un giorno devi andare” è la storia di una crisi interiore,di una ricerca di se stessi che passa anche attraverso l’aiuto al prossimo. Sin dai suoi esordi, Giorgio Diritti ci ha sempre parlato di solidarietà. Quella che una piccola comunitàmontana negava a un uomo venuto da fuori (“Il vento fa il suo giro”), o quella di un’altra piccola comunità, che invece c’era,ma veniva spazzata via dall’assurda cattiveria del Nazismo (“L’uomo che verrà”). Diritti oggi ci dice che forse la solidarietà implica
un atteggiamento di assistenzialismo, del ricco che dona al più povero. Allora è meglio parlare di socialità, del provare cioè a essere una comunità dove il bene di tutti è anche il bene del singolo.
“Per cambiare le cose devi andare dove le cose bisogna cambiarle”. Il senso del film è in questa frase?
«È uno dei sensi del film. Sicuramente l’agire, il fare, il mettersi in movimento vuol dire avere l’atteggiamento propositivo, la presa di coscienza di una propria situazione di staticità che non è utile a se stessi e neanche agli altri. Se uno vuole veramente agire nei confronti della società, ma anche per trovare un senso delle proprie cose, deve andare lì dove le cose veramente hanno un loro perché, deve rimboccarsi le maniche facendo ciò che sente che è importante fare.»
La protagonista parte per lenire un suo dolore. Forse è provocatorio, ma possiamo dire che a volte l’impegno a favore degli altri parte da un bisogno nostro?
«Può essere così. Ma non è solo così. Certamente il dolore o la nostra incompiutezza ci possono smuovere, ci possono dare la spinta iniziale. Ma nel rapporto con gli altri, se uno ha sensibilità e voglia, c’è la possibilità di essere autentici, di non fare le cose solo perché sono la compensazione delle nostre difficoltà, ma perché diventino realmente qualcosa che costruisce un bene comune, in cui l’altro dà a te e tu dai all’altro. Agire vuole dire mettersi in una dimensione paritaria: mai da donatore, ma in uno scambio.»
I suoi protagonisti sembrano essere sempre degli esseri puri, o in cerca di purezza, che si scontrano con un mondo più duro di loro…
«Forse l’essere puro era Martina de “L’uomo che verrà”. Philippe de “Il vento fa il suo giro” è un uomo pieno di contraddizioni, che anzi nella sua visione del mondo ha un eccesso di protagonismo e non è capace di relazionarsi con gli altri, perché troppo preso dal suo sogno di realizzazione. In questo film credo si racconti un desiderio di ritrovare le priorità, di capirsi, di colmare qualcosa che manca, ma anche di affinare la relazione con l’altro, di riassaporare ciò che conta nella vita. Il suo è un viaggio che può essere anche il nostro.
Anche in questo film c’è attenzione per i bambini, per “gli uomini che verranno”. Come si rapporta con questo tema?
«Credo che sia il tema della vita. Se siamo sulla terra è perché qualcuno di noi, nelle precedenti generazioni, ha mandato avanti questo percorso. Riappropriarsi del rapporto con i bambini significa ritrovare la dimensione della semplicità: spesso ai giorni nostri si tende a far diventare troppo presto adulti i bambini. Invece nella loro ingenuità, leggerezza, fantasia, c’è qualcosa che ci deve richiamare a un senso di maggiore realtà. La relazione con i bambini inevitabilmente ti porta a un’esigenza e una relazione affettiva. È una cosa che la società di oggi ha bisogno di ritrovare.»
Nel film spicca il contrasto tra l’Occidente, ricco ma vecchio e incapace di relazioni, e il Sud del mondo, povero ma pieno di voglia di vivere. Come ha lavorato a questo aspetto?
«Il contrasto è evidente, basta andare lì e vedere la differenza. Da noi c’è una dimensione grigia, una grande difficoltà a rapportarsi alla quotidianità, un grande senso di fatica e di oppressione. Oggi la mancanza di lavoro e la grande crisi economica rendono molto evidente tutto ciò. Al di là di questo c’è forse un’abitudine a essere società ricca, che ha tutta una serie di bisogni non primari e che fatica a ritrovare il senso dei bisogni essenziali. Al Sud del mondo la relazione con l’avere figli, creare una famiglia è normale naturale e non ha sovrastrutture di alcun tipo. In questo c’è un’energia enorme, che fa sì che la società brasiliana sia molto giovane, piena di entusiasmo, propositiva, in cui l’analfabetismo è in grande diminuzione. Ricorda un po’ l’Italia del dopoguerra.»
In tutti i suoi film si parla di solidarietà. Che non nasce mai ne “Il vento fa il suo giro”, che c’è ma viene soffocata ne “L’uomo che verrà”. E poi quella di cui si parla qui. Lei cosa pensa in proposito?
«Credo che la parola solidarietà forse dovrebbe essere sostituita dalla parola socialità. Oggi c’è necessità non tanto di solidarietà, che rischia di essere l’atteggiamento di qualcuno più ricco verso qualcuno più povero, ma di socialità, cioè di far sì che siamo la stessa comunità, dove il bene di tutti è l’occasione del bene del singolo, dove la preoccupazione per chi è in difficoltà non è una preoccupazione assistenzialista, ma diventa una condivisione forte. Una vera attenzione nei confronti di qualcuno che per te è importante, e non beneficenza.»

Lavorerà con dei ragazzi a un progetto di documentari sul lavoro. Come affronterete il tema?
«Il progetto vuole andare a capire il rapporto tra giovani e lavoro, come cioè le capacità dei giovani si possano veicolare a soluzioni che rendano possibile, anche in una società come quella attuale molto chiusa e inscatolata, una possibilità.»
Cosa pensa del mondo del lavoro di oggi?
«Purtroppo stiamo non raccogliendo quello che non abbiamo seminato. Anni di politiche sbagliate oggi hanno portato a una restrizione del mondo del lavoro, e a una società che rischia di avere nella classe che dovrebbe essere il motore, i giovani, un gruppo di persone stagnanti. L’errore è stato fatto nel momento in cui, invece di incentivare l’occupazione dei giovani, si è preferito allungare l’età pensionistica. Seppure queste cose nell’ambito dei bilanci siano favorevoli, cosa comunque tutta da dimostrare, la vera scelta sarebbe stata mandare a casa le persone in funzione di un meccanismo certo di investimento per posti certi per le nuove generazioni. Seminare sui giovani vuol dire veramente far cresce una società vera, che abbia fiducia nelle energie nuove. Nella storia dell’umanità è sempre stato così.»

Tratto da “Reti Solidali” Anno XI numero 2 - marzo-aprile 2013