21 luglio 2013

Il lavoro di una donna. La realtà distorta di una giornalista freelance in Siria

di Francesca Borri


traduzione di bernardo parrella

Finalmente si è fatto vivo. Dopo oltre un anno che lavoravo per lui come freelance, periodo in cui mi sono beccata il tifo e un proiettile nel ginocchio, il mio editor avrà visto le ultime notizie e, pensando che fossi tra i quattro giornalisti italiani brevemente rapiti a inizio aprile, mi ha mandato una mail chiedendo: “Riesci a connetterti? Puoi mandare tweet sulla situazione?”
La sera stessa sono tornata nella base dei ribelli che mi ospita, nel bel mezzo dell’inferno che è Aleppo, e tra la polvere e la fame e la paura, speravo di trovare un amico, una parola gentile, un abbraccio. Invece mi aspettava soltanto l’ennesima mail da Clara, che sta trascorrendo le vacanze a casa mia in Italia. Mi aveva già mandato otto messaggi con il titolo “Urgente!”. Oggi non riesce a trovare la mia tessera per la sauna, così da andarci gratis. Le altre mail erano del tipo: “Ottimo pezzo oggi; brillante come il tuo libro sull’Iraq”. Peccato che il mio non era un libro sull’Iraq, bensì sul Kosovo.
La gente coltiva quest’immagine romantica del giornalista freelance che ha barattato la sicurezza dello stipendio fisso per la libertà di seguire quelle storie che l’affascinano di più. Ma noi non siamo affatto liberi; piuttosto, l’esatto contrario. La verità è che l’unico lavoro che oggi mi sia capitato è quello di trovarmi in Siria, dove non vuole andarci nessuno. E non si tratta neppure di Aleppo, per essere precisi; è la linea del fronte. Perché gli editor in Italia non chiedono altro che il sangue, gli scontri a fuoco. Io parlo degli Islamisti e della loro rete di servizi sociali, le radici del loro potere – un articolo decisamente più complesso da costruire di un racconto in prima linea. Mi arrovello per spiegare al meglio, non solo per commuovere, per colpire chi legge, e mi sento rispondere: “Cos’è 'sta roba? Seimila parole e non c’è nessun morto?”
In realtà avrei dovuto capire come stavano le cose quella volta che il mio editor mi chiese un pezzo su Gaza, perché, come al solito, era lì che piovevano le bombe. Ecco cosa mi ha scritto: “Conosci Gaza a occhi chiusi. Che importa se ora sei ad Aleppo?” Giusto. La verità è che sono finita in Siria dopo aver visto le fotografie di Alessio Romenzi su Time, il quale era riuscito a raggiungere Homs seguendo le condutture dell’acqua, quando nessuno aveva la più pallida idea di dove fosse Homs. Guardavo le sue istantanee al suono dei Radiohead, quegli occhi che mi penetravano, gli occhi delle persone massacrate dall’esercito di Assad, una dopo l’altra, e nessuno aveva mai sentito parlare di un posto chiamato Homs. Una morsa che mi stringeva la coscienza: dovevo andare immediatamente in Siria.
Ma per gli editor non fa differenza se scrivi da Aleppo o da Gaza o da Roma. Tanto ti pagano la stessa cifra: 70 dollari. Anche in Siria, dove i prezzi triplicano per via della speculazione diffusa. Per esempio, solo dormire in questa base dei ribelli, sotto il fuoco dei mortai, con un materasso sul pavimento e l’acqua infettata da cui mi sono presa il tifo, costa 50 dollari a notte; 250 dollari al giorno per una macchina. Anziché ridurre i rischi si finisce così per massimizzarli. Non soltanto non puoi permetterti alcun tipo di assicurazione – quasi mille dollari al mese – ma neppure un aiutante o un traduttore sul campo. Ti trovi completamente sola nell’ignoto. Gli editor sanno bene che con 70 dollari a pezzo sei costretta a risparmiare su tutto. Sanno pure che se dovesse capitarti di essere ferita gravemente, emerge quella strana speranza di non sopravvivere, perché non puoi permetterti neppure di essere ferita. Però ti comprano lo stesso l’articolo, pur se non si sognerebbero mai di comprare un pallone di calco della Nike fatto a mano da un bambino pakistano.
Le nuove tecnologie della comunicazione ci inducono a credere che velocità equivalga a informazione. Ma ciò si fonda su una logica auto-distruttiva: i contenuti vengono standardizzati, e il nostro giornale o la nostra rivista non offre più una sua specificità, e non c’è più alcun motivo per avere un reporter stipendiato. Come ben sappiamo, per seguire le notizie basta Internet – e gratis. La crisi odierna riguarda le testate d’informazione, non i lettori. C’è sempre chi ha voglia di leggere, e diversamente da quanto ritengono molti editor, si tratta di lettori intelligenti che chiedono semplicità senza semplificazioni. Vogliono capire cosa succede, non solo conoscere i fatti. Ogni volta che esce un mio pezzo di testimonianza diretta sulla guerra, ricevo decine di mail da gente che dice, “Sì, bel pezzo, ottimo quadro, ma io vorrei capire quello che sta succedendo in Siria”. E mi piacerebbe tanto rispondere loro che non posso proporre un pezzo d’analisi perché gli editor non farebbero altro che cestinarlo e direbbero, “Ma chi credi di essere, ragazzina?” – anche se ho tre lauree, scritto due libri e trascorso 10 anni in vari conflitti bellici, prima come funzionario per i diritti umani e ora come giornalista. Per quel che vale, la mia gioventù è finita quando ho visto schizzarmi addosso pezzi di cervello di gente uccisa in Bosnia, avevo 23 anni.
I freelance sono giornalisti di seconda classe – anche quando sono tali soltanto qui in Siria, dove si combatte una guerra sporca, una guerra del secolo scorso; ribelli e lealisti si fronteggiano in trincee così vicine che possono urlarsi addosso mentre si sparano contro. La prima volta in prima linea, incredibile ma vero, che vedo le baionette nominate solo sui testi di storia a scuola. Nei conflitti odierni si usano i droni, qui invece si combatte metro per metro, strada per strada, ed è davvero terrificante. Eppure gli editor italiani ti trattano come una ragazzina; una tua foto conquista la prima pagina e ti dicono che hai avuto fortuna a trovarti nel posto giusto al momento giusto. Riesci a fare un servizio esclusivo, come quello che ho curato nel settembre scorso sulla città vecchia di Aleppo in fiamme, uno dei siti dichiarati patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, mentre i ribelli e l’esercito siriano se ne contendevano il controllo. Sono stata il primo reporter straniero sul posto e gli editor mi dicono: “Come possiamo giustificare il fatto che il nostro corrispondente non è riuscito ad arrivarci e tu invece sì?”. Ecco cosa ha scritto un editor sul mio pezzo: “Te lo compro, ma lo pubblichiamo con la firma del nostro corrispondente”.
E poi, ovviamente, c’è il fatto che sono una donna. Di recente, una sera il bombardamento era incessante e io me ne stavo seduta in un angoletto, con l’unica espressione possibile quando sai che la morte può arrivare in un istante, si avvicina un giornalista, mi squadra dall’alto in basso, e fa: “Questo non è un posto per donne”. Cosa puoi mai rispondere a un tipo simile? Idiota, questo non è un posto per nessuno. Se tremo di paura è perché sono sana di mente. Perché ad Aleppo ci sono solo armi e testosterone, e sono tutti traumatizzati: Henri, che parla solo di guerra; Ryan, imbottito di anfetamine. Eppure, ogni volta che vediamo un bambino maciullato, vengono tutti da me, la “fragile” donna, a chiedermi come sto. E mi verrebbe da rispondergli: sto proprio come te. E quelle sere in cui ho l’espressione ferita in realtà sono le sere in cui proteggo me stessa, scacciando via ogni emozione e sentimento; sono le sere in cui riesco a salvarmi.
Perché la Siria non è più la Siria. È un manicomio. C’è l’italiano disoccupato che decide di far parte di al-Qaeda, mentre la madre lo cerca per tutta Aleppo per dargli una sana bastonata. C’è il turista giapponese che va in prima linea perché dice di aver bisogno di due settimane di “brividi”; il diplomato in legge svedese che è venuto a raccogliere le prove dei crimini di guerra; i musicisti americani con la barba come quella di bin Laden convinti così di poter passare inosservati, pur se sono biondi e alti quasi due metri. (Si sono portati dietro medicinali anti-malaria anche se qui la malaria non esiste, e vogliono distribuirli mentre suonano il violino). Non mancano poi i vari funzionari delle tante agenzie ONU, i quali, quando li informi di un bambino affetto da leishmaniosi (malattia infettiva causata da un parassita trasmesso dalla puntura della cosiddetta mosca della sabbia), i cui genitori hanno bisogno di aiuto per portarlo in Turchia a curarsi, rispondono che non possono far nulla perchè si tratta di un unico bambino, e loro si occupano soltanto “dell’infanzia” come collettività.
Ma in fondo siamo reporter di guerra, non è vero? Una banda di fratelli (e sorelle). Rischiamo la vita per dare voce a chi non ha voce. Abbiamo visto cose che la maggior parte della gente non avrà mai occasione di vedere nella vita. Abbiamo una mole di storie da raccontare a cena, gli ospiti in gamba che ricevono inviti da tutti. Eppure lo sporco segreto è che anziché essere uniti, diventiamo i nostri peggiori nemici; e la motivazione dietro ai 70 dollari ad articolo non è che non ci sono soldi, perché i soldi si trovano sempre per un pezzo sulle ragazze di Berlusconi. La vera ragione sta nel fatto che se tu chiedi 100 dollari, c’è qualcuno pronto a farlo per 70. Vige la concorrenza più feroce. Come Beatriz, che oggi mi ha dato le indicazioni sbagliate in modo da poter essere l’unica a seguire una certa manifestazione, e grazie al suo raggiro mi sono ritrovata davanti a una postazione di cecchini. E tutto per scrivere un pezzo su una manifestazione come centinaia di altre.
Eppure fingiamo di essere qui in modo che domani nessuno potrà dire: “Non sapevo nulla di quanto stava accadendo in Siria”. Quando in realtà siamo qui solo per accaparrarci un qualche premio giornalistico, per conquistare visibilità. Ci azzuffiamo l’uno con l’altro come se ci fosse in ballo un Premio Pulitzer, quando invece non c’è assolutamente nulla. Ci troviamo schiacciati tra un regime che ti dà il visto solo se sei contro i ribelli e questi ultimi che, se stai dalla loro parte, ti fanno vedere solo quel che vogliono loro. La verità è che abbiamo fallito. Tra due anni i lettori ricorderanno a malapena dove si trova Damasco, e il mondo descriverà istintivamente con “un gran caos” quel che succede in Siria, perché nessuno capisce nulla di questo Paese – soltanto sangue, sangue, sangue. Ed ecco perché oggi i siriani non ci sopportano più. Perché facciamo vedere al mondo foto come quella del bambino di sette anni con la sigaretta e il Kalashnikov. Si tratta chiaramente di una foto artificiale, ma a marzo è apparsa su giornali e siti web di tutto il mondo, e la gente si è messa le mani nei capelli: “Questi siriani, questi arabi, che barbari che sono!”. Quando sono arrivata qui, i locali mi fermavano per dirmi: “Grazie perché mostrate al mondo i crimini del regime”. Oggi un uomo mi ha fermato dicendo: “Vergognatevi”.
Se avessi davvero capito qualcosa della guerra, non mi sarei fatta distrarre dal tentativo di parlare dei ribelli e dei lealisti, dei Sunniti e degli Shia. Perché l’unica storia da raccontare in tempo di guerra è come poter vivere senza paura. Basta un attimo e tutto può finire. Se l’avessi capito prima, allora non avrei avuto paura di amare, di rischiare, nella mia vita – invece di ritrovarmi qui, adesso, in quest’angolo buio e puzzolente, a rimpiangere disperatamente tutto quel che non ho saputo fare, tutto quel che non ho saputo dire finora. Tu che domani sei ancora vivo, cosa aspetti? Perché non ami un po’ di più? Tu che hai tutto, di cos’hai paura?
Con l’eccezione di Alessio Romenzi, i nomi presenti in questo articolo sono stati cambiati per motivi di privacy. Articolo originale inglese pubblicato il 1.o luglio 2013 sul sito della Columbia Journalism Review con il titolo Woman’s Work. The twisted reality of an Italian freelancer in Syria . Le foto sono di Alessio Romenzi. Da segnalare i moltissimi commenti in calce all’articolo, in inglese ma anche da parte di giornalisti e cittadini italiani.



Francesca Borri è su Twitter: @francescaborri

tratto da: http://www.lastampa.it/2013/07/12/blogs/voci-globali/il-lavoro-di-una-donna-la-realta-distorta-di-una-giornalista-freelance-in-siria-1LdkqBQFPBdmStyynsxymL/pagina.html

Freelance italiani di guerra. La testimonianza di Barbara Schiavulli


Nel dibattito sollevato dalla denuncia di Francesca Borri interviene una collega a raccontare la sua personale esperienza. Facendo nomi e cognomi (e cifre)


di Barbara Schiavulli


Mi è stato chiesto un commento sul pezzo scritto da Francesca Borri e che ha suscitato una montagna di polemiche nel mondo giornalistico. Parla di essere freelance in Italia, di giornalismo di guerra in Italia, di dolore e rabbia. Premetto che non la conosco e non so come scrive, ma mi è stato chiesto di parlarne, perché faccio il mestiere di Francesca da quasi vent’anni.
Sono una giornalista di guerra
Ho letto il suo pezzo e alcuni commenti. Srotolare un giudizio non mi importa, e non lo farò, ma il tema mi interessa perché parla anche di me. Sono una giornalista freelance di guerra. Non per scelta, ma perché nessuno mi ha mai assunto, nonostante lo volessi con tutta me stessa e abbia fatto tutto quello che secondo me, sia stato professionalmente possibile. Ho avuto la presunzione di pensare che se fossi stata abbastanza brava, prima o poi qualcuno mi avrebbe voluta. Col tempo ho scoperto che qui non funziona così.
Ho scritto per quasi tutti i quotidiani italiani, ho collaborato con molte radio e tv. Ho scritto due libri, sto per fare uscire il terzo, e ho vinto premi. Non per vantarmi, ma per dire che non sono stata con le mani in mano. Non ho mai mollato, nonostante sia stata in equilibrio sul baratro diverse volte, invece sono ancora qui, perché amo questo lavoro. Perché non c’è niente di più importante che sapere che si sta facendo la cosa giusta. E chi dice che è una mia scelta, dico che non si sceglie di essere se stessi, lo si è e basta.
Mi ritengo molto fortunata perché fin da piccola sapevo quale fosse la mia strada. Detto questo, non sono una missionaria. Come ha detto qualcuno, il fatto che mi piaccia fare questo mestiere, non significa che non debba essere rispettata e trattata in modo adeguato. È un lavoro, è una professione e come tale pretendo che gli altri lo considerino. Offro un servizio, garantisco quello che il lettore legge, mettendoci sotto il mio nome. E allora partiamo dall’inizio.
Cosa significa essere freelance oggi
Il giornalismo è una professione, come fare il medico, come fare l’avvocato o l’idraulico. Non metterei mai in mano il mio lavandino a un idraulico della domenica, così come non lo farei con una notizia. Ma dobbiamo fare i conti con il paese in cui ci troviamo dove la qualità e la professionalità, ha smesso da lungo tempo ad essere la priorità dei giornali e forse di qualsiasi altra cosa. Gli Esteri contano sempre meno. Gli Esteri non fanno vendere. Dunque, gli Esteri non contano. Così come in genere la cultura. Nessuno comprerà un giornale, a meno che sia mia madre o mio padre, perché io ho scritto un pezzo su qualche crisi nel mondo.
So che se mi occupassi di cose locali, o magari di politica o gossip, avrei vita più semplice, ma quelle non interessano a me, ci sono persone molto più brave di me che lo fanno già. L’informazione internazionale non dovrebbe essere tra le pagine dei giornali perché vende, ma perché dovrebbe essere il fiore all’occhiello di un giornale. Perché dovrebbe essere uno dei servizi che un quotidiano offre. E non tengo informato il lettore sul mondo perché vende, ma perché fa parte del bagaglio culturale di una persona. Perché lo rendo partecipe di quello che accade, perché questo è il cuore del significato del giornalismo.
Se no, avrebbero ragione tutti quelli che si accontentano dei report di twitter, o delle agenzie giornalistiche che fanno un lavoro santo, ma non sufficiente a spiegare quello che accade, o i bravi cittadini che comunicano quello che accade, ma non hanno filtri professionali che invece ci vogliono se vogliamo essere ben informati. Se pretendessimo di essere ben informati.
I giornali ora, non hanno quasi più inviati, e quelli che sono rimasti sono frustrati quasi quanto i freelance perché non vengono mandati quasi più in giro. Quando ho cominciato io, negli anni ’90, non esistevano molti freelance, ero una specie di mosca bianca, qualcuno pensava che fossi dei servizi, qualcun altro mi detestava perché traboccavo di energia, qualcun altro mi guardava senza ben sapere che io ero il tragico futuro del giornalismo estero.
Gli americani e gli inglesi, invece, erano già da anni abituati a noi, di solito all’estero funziona come qualsiasi consulenza, si viene ingaggiati per una storia, si viene pagati, si viene assicurati e quando si finisce, tutti amici come prima. In genere, all’estero, i freelance sono grandi giornalisti, è gente che prende molto perché è in grado di offrire qualcosa che il reporter normale non fa o non può fare. In Italia è l’esatto contrario. I freelance non hanno uno straccio di contratto, non hanno una lettera di accredito, non hanno un’assicurazione. E non hanno un tariffario, sono i giornali che decidono quanto ti pagano.
All’inizio essendo un po’ l’unica, sono stata molto fortunata. I giornali mi hanno pagato bene. E io scrivevo molto, visto che la guerra costa. Durante l’assedio a Sadr City, un quartiere di Baghdad, ho preso anche duemila euro da un settimanale per un reportage, più o meno, mille quando sono entrata da sola a Kandahar, in Afghanistan per parlare con i talebani. Quando finivo i soldi che erano sempre miei, ci sono stati colleghi e colleghe che mi hanno aiutata, alcuni mi hanno offerto un pranzo, qualcuno ha ospitato nella sua camera, con altri ho condiviso il traduttore o la macchina.
A volte è stato umiliante perché non valevo meno dei miei colleghi, altre volte ho apprezzato l’amicizia, perché in cambio per qualcuno, la mia presenza, conoscendo bene alcuni posti, ha fatto sì che si facesse un lavoro migliore. Quando andavo da sola, lavoravo come una matta per scrivere il più possibile calcolando che se scrivevo cinque pezzi al giorno per i quotidiani, aggiungendo qualche radio e settimanale, potevo farcela. Di giorno lavoravo e la sera scrivevo fino alla nausea. Ma ci riuscivo. I conti tornavano. Facevo la vita di cinque giornalisti, ma la facevo. Ero fiera di me.
I quotidiani, fino a qualche anno fa, pagavano tra i 150 e i 200 euro, con un picco di 450 per La Stampa che mi ha fatto scrivere delle paginate bellissime. La mia competizione era con i colleghi assunti e devo dire che mi piaceva. Poi le cose hanno cominciato a cambiare. Una crisi finanziaria e anche mentale dentro i giornali e nel paese. Ora i giornali pagano poco, e se non accetti non scrivi. Questo è un fatto. Non ci sono vie d’uscita. Nessuno è indispensabile. Via uno, sotto un altro. Il giornalista è l’unico mestiere che può fare chiunque, se non si chiede un alto livello.
Ammetto di avere un carattere non facile. Non sono una vittima, anche se a volte mi deprimo profondamente. Sono una stronza idealista che ama quello che fa, e accetta la giungla che la circonda fino a un certo punto. Infatti oggi, diciamoci la verità, non scrivo quasi più.
La prima collaborazione che ho perso è stata quella di Avvenire, per loro avevo scritto per tre anni seguendo tutte le zone a rischio tra il 2002 e il 2005 quando venne chiesto ai giornalisti italiani, dopo il sequestro di Giuliana Sgrena di non tornare in Iraq. Io non accettai, per me era un dovere professionale essere in Iraq e raccontarlo insieme ai colleghi del resto del mondo, sapevo che era rischioso, sapevo che ero sola più che mai, ma sapevo che non mi sarei mai perdonata di aver abbandonato una storia perché me lo chiedeva lo Stato, la Farnesina, in questo caso.
Al direttore di Avvenire venne un coccolone, suppongo gli sia stato chiesto di non farmi scrivere e mi ricordo che mi telefonava dicendomi che sarei morta e che sfidavo Dio. In realtà avevano paura che se mi fosse accaduto qualcosa, si sarebbe ritorto contro il giornale. E io, donna orgogliosa, ho detto, va bene per voi non scrivo e vado avanti anche se perdevo la collaborazione principale. E sono andata in Iraq, in continuazione, fino a quando non sono tornati, anni dopo, anche gli altri colleghi.
Sono andata avanti, piano piano, a testa bassa, collaborando con chi mi voleva, soprattutto per l’Espresso, credendo per una volta di aver trovato il giornale che sognavo. Mi sono impegnata come non mai, nonostante alle spalle di fatto, non avessi un giornale, lavoravo come fossi la loro inviata, ho sputato sangue, ma ho scritto, fatto e sono andata in posti che da pura illusa pensavo valessero l’assunzione. E invece no, io per un giornale valevo di più se restavo fuori. Ma mi andava bene lo stesso, perché scrivevo, ero nel pieno della Storia, guadagnavo ed ero riconosciuta come giornalista.
Poi è iniziata la crisi, i giornali hanno cambiato direttori, redattori, molti sono andati in prepensione e qualcosa di tremendo è successo: è mancato chi il mestiere lo avesse macinato oltre la scrivania. All’improvviso si doveva pagar meno, non importava chi e come scrivesse. Nel 2009 ho smesso di scrivere per l’Espresso perché la guerra o io, non interessavamo più. Dio solo sa, quanto ho pianto. Gli avrei dato il sangue e invece, non li ho mai più sentiti.
L’eco di Bergamo dove scrivevo ogni giorno e abbiamo fatto delle storie stupende, non mi ha più chiamata forse perché prendevo 150 a pezzo e loro volevano pagare meno. Poi ho scoperto che una mia cara amica, aveva preso il mio posto, prendendo un po’ meno. A Il Messaggero prendevo 200 euro, poi sono passati a 150 ma si vergognavano a dirmelo e allora hanno smesso di chiamarmi, quando ho accettato quella cifra, ho scritto un po’ (e parlo di prime pagine e fatti di rilevanza) e poi il direttore nuovo ha spedito una lettera dicendo che dovevamo stringerci tutti intorno alla crisi e che ancora decurtavano il compenso a meno di 100 euro.
A quel punto ho pensato davvero a chi cavolo me lo facesse fare. Ho scritto a quel direttore che non conoscevo, ho spiegato che non potevo garantire un buon pezzo, la sicurezza mia, quella dei miei traduttori, che lavorare in guerra è costoso. Non avrei scritto più, avrei lasciato il mio posto a chi poteva permettersi di prendere meno, perché sapevo che qualcuno ci sarebbe stato, ma non avrei ceduto di un euro. E lui ha capito e mi ha comunicato che il mio compenso sarebbe rimasto lo stesso. Vittoria. Anche no, visto che non ho più scritto per Il Messaggero, nonostante abbia collaborato per 10 anni.
E ora vengo alla peggiore collaborazione di sempre, quella col Fatto Quotidiano. Ho cominciato a scrivere dal numero zero, strappando un compenso da 150 euro a pezzo, mi sono lanciata, loro credevano in un nuovo giornale e volevo crederci anche io. Dopo nove mesi e tante storie tra Afghanistan, Yemen, e vari altri posti, non mi avevano ancora pagata. Apriti cielo, non avevo neanche di che far la spesa. Ho chiamato, scritto, litigato, poi mi hanno mandato la richiesta di fattura sbagliata.
I pezzi non erano conteggiati a 150 euro come d’accordo con il capo degli Esteri, ma naturalmente meno. Solo a ripensarci, mi sale la rabbia. Ho ancora scritto, litigato e alla fine ho convinto Padellaro a pagarmi. E ho detto “mai più”. Dopo un anno mi hanno ricontattato, mi hanno detto “Eddai, non riaccadrà”, non mi ricordo in che parte del mondo fossi, ma avevo bisogno e ho ceduto, ho scritto ed è ricominciato tutto da capo, ogni mese era una tragedia farsi pagare i conti giusti e ho detto “basta” di nuovo. Ma i miei “basta”, costano tanto che io non sto scrivendo come vorrei e dovrei.
Non riesco a pagare le mie spese e tanto meno a partire, a quarant’anni mi sento come chi ha perso un lavoro senza mai averlo avuto, senza alcuna agevolazione perché non ho mai avuto un contratto. I freelance sono peggio degli immigrati clandestini. Nessuno ci vede. A chi obietterà, “perché non vai a fare qualcos’altro, nessuno ti costringe”, io rispondo con un sonoro No. Per quanto questa vita mi distrugga perché il sistema non funziona, io amo questo mestiere.
So come dovrebbe essere fatto, so come potrebbe essere e credo che la cultura sia un servizio fondamentale come mangiare, avere una casa, fa parte dei nostri diritti, ma anche doveri. Perché io? Questo non lo so, non credo di essere più brava di altri, o più portata o talentuosa, ma sfido chiunque a sapere perché vuole fare il medico o il pittore. Perché se un medico dice che vuole salvare la vita delle persone, va bene? E se io dico che voglio che non si dimentichi la vita o la morte delle persone, sono un’egocentrica? Sono egocentrica, dunque. Non sono perfetta, e credo che lo sia chiunque voglia qualcosa con la forza della passione e abbia il coraggio di non abbandonare.
Come dovrebbe funzionare in un mondo perfetto
E allora, no, non me ne vado, provo a cambiare il sistema, anche se il mio “no” è solitario, anche se la guerra per me è qui, e non nei paesi che racconto. Bisogna essere costruttivi e allora pongo delle questioni dove ognuno sceglierà da che parte stare. Sapere significa anche non poter più far finta di nulla. Francesca parla di competizione sfrenata tra colleghi, io sono favorevole a questo purché si basi sulla qualità e l’onestà. Riconosco e rispetto i colleghi in gamba. E ce ne sono.
E ora chiedo ai lettori, volete leggere il pezzo di una che si è letta tutto quello che era possibile leggere su un posto, che ha parlato con cani e porci, che ha vissuto in quel posto, che si è immersa in quello che accade o nell’inviata assunta perché raccomandata da un politico che piglia un sacco di soldi e si fa scrivere i pezzi magari da qualcun altro?
Temo che oggi neanche Hemingway verrebbe preso in considerazione. Figurati la Schiavulli o la Borri che prende 80 euro sul Fatto, e che sospetto, abbia preso il mio posto, e non la invidio per niente. La brama di scrivere e di fare il tuo mestiere, ti fa toccare il fondo. D’altra parte penso a quando ho scritto su Il Messaggero, un pezzo che cominciava in prima pagina e poi un amico di Venezia, mi ha detto “Ti ho letto sul Gazzettino di Venezia”. Io però non avevo scritto sul Gazzettino di Venezia, sul quale non scrivo, da quando mi venne fatto 15 anni un fatto un torto per me grande (è il giornale dove ho cominciato) e sul quale non avrei più scritto.
Sono andata a controllare e ho scoperto che quando scrivevo su Il Messaggero, uscivo anche sul Gazzettino e il Mattino di Napoli perché erano la stessa proprietà. Nessuno mi aveva detto niente, nessuno mi dava una lira in più per uscire tre volte e non potevo neanche decidere di non uscire su un giornale sul quale non volevo uscire. C’è da mettersi le mani nei capelli. Un altro problema sono i prepensionati, che buttati fuori a 57 con pensione e contratto di collaborazione continuano a scrivere fino a che non muoiono.
Lo capisco, a 57 anni sei nel fiore della tua maturità professionale, scrivere non ha età. Ma io non posso competere con uno che viene pagato per scrivere e ha pure la pensione. E come me, nessuno ancora più giovane, a meno che sia figlio di qualcuno molto ricco, io non lo sono e nemmeno molti come me. Ora vi dico come dovrebbe essere nel mio mondo perfetto.
I giornali dovrebbero avere dei collaboratori fissi, dovrebbero scegliere tra i migliori, come accadeva una volta, dovrebbero pagargli un fisso e rimborsargli delle spese quando vanno fuori. Dovrebbero pagare l’assicurazione da freelance per il tempo che stanno fuori e bon. Ho visto inviati di quotidiani prestigiosi farsi rimborsare la prostituta facendola passare per un traduttore e io non riesco a farmi pagare neanche un traduttore vero.
I costi per una giornata in Afghanistan oggi sono 150 euro un traduttore buono (il mio mi fa bene, perché lo conosco da 10 anni ed è bravissimo), un 50 euro al giorno per l’autista, 20 euro per mangiare (ci tocca), 70 euro per un alberghetto in tempi tranquilli, 200 per andare in quelli super protetti quando i tempi sono duri. In Iraq, ci sono stati momenti in cui la strada per l’aeroporto (20 minuti dall’albergo) mi è costata 550 dollari perché la gente saltava come popcorn, quanti cavolo di articoli avrei dovuto scrivere per recuperare 3 settimane di Baghdad?
Se no, un giornale può decidere di non fare Esteri, di dimenticare i tempi dei grandi inviati e dei grandi reportage, di pensare ad un giornalismo diverso, di pensare che alla gente non interessa o non è necessario che sappia. Ma è questo il tipo di giornale che si vuole avere o dirigere? Penso a Terzani, a Robert Fisk, a Bernardo Valli, a Domenico Quirico, a Mimmo Candito, penso a pezzi di amici e di sconosciuti che ti tengono avvinghiato al mondo che ci circonda.
Io non posso farne a meno, non voglio farne a meno. Dovremmo davvero leggere solo le traduzioni della rivista Internazionale per sentire parlare di esteri come si deve? Noi non siamo capaci come americani, inglesi, russi o africani? Altro problema al quale non sono mai riuscita a dare risposta: perché se lavoro con un fotografo professionista, facciamo un reportage insieme, foto e testo, dove in genere il giornalista trova la storia, trova i contatti, si fa in quattro, lui viene pagato quattro volte di più. “Occupiamo più spazio in pagina”, mi dice un collega divertito, ma che vuol dire?
Che si può fare?
Intanto i freelance dovrebbero mettersi d’accordo, come hanno fatto i traduttori a Gaza, che si fanno pagare tutti allo stesso modo, rompendo la concorrenza. Ci vuole un minimo oltre al quale il giornale non può scendere. Se vuoi una storia, la devi pagare, il giornale deve pretendere l’esclusiva e pagarla. Se avessi un giornale, vorrei storie che nessun altro abbia, invece, ora ti dicono di scrivere per più contemporaneamente proprio per pagare meno.
Ci vuole serietà, non si paga a tre, quattro, dieci mesi. Si paga a 30 giorni come ogni fattura, se no, scattano gli interessi e se no, si viene multati (sempre se ci fosse un Ordine o un sindacato). Se no, fai schifo. Sono stufa dell’omertà dei miei amici colleghi, che per paura di non scrivere, non dicono niente. Non sto parlando da vittima, ma da frustata sì, le cose devono cambiare. E preferisco non scrivere piuttosto che vendermi. I miei articoli sono in vendita, io no.
Se avessi un giornale prenderei i pezzi con le proposte migliori e nel caso di un evento avrei il mio giornalista freelance di fiducia, e lo vorrei sempre aggiornato nel suo campo. I ragazzi dovrebbero capire che valgono quanto prendono, se consenti a qualcuno di pagarti 2 euro, stai distruggendo te stesso e la categoria. Se tutti cominciassero a dire “no”, o in redazione se lo scrivono da soli o verrebbero a patti, e siccome le redazioni sono sempre meno affollate, non hanno altro modo che chiedere a noi.
Sono stata lunga, ma l’argomento è spinoso e centrale per la vita di tutti. Non ho parlato di pericoli, di guerra, di cosa accade quando siamo in giro, perché questo è qualcosa che spetta a noi gestire. L’importante è che io la sera porti il mio pezzo a casa e lo possa mandare. Laggiù il problema è mio e me lo gestisco io. Qui, invece, è di tutti, è un problema di sostanza e futuro.
La vastità di Internet fa credere di avere un sacco di informazioni, di cui però nessuno è sicuro, perché manca la professionalità di chi poteva garantire una notizia. Si perde la voglia di approfondire, di godersi un articolo scritto bene che ti trasporta lì dove le cose accadono, ci si nutre di politica e di pettegolezzi, ci si abitua a non pensare e a non chiedere. Ci si abitua a dimenticare e a fare finta di niente. E io e tutti quelli come me, moriamo. Ci crepa l’anima.
Mi dicono che ci si deve riciclare, che bisogna essere aperti ai cambiamenti, che bisogna trovare altri modi, perché alla fine quello che conta è pagare il mutuo. Le rate della macchina non si saldano con i sogni o con l’impegno che abbiamo preso verso il mondo che vorremmo. E io sono, appunto, a quel bivio: devo continuare a credere che fare cultura sia importante anche quando nessuno la vuole, per essere quel tarlo che si insinua e rende comunque la vita più ricca, o mollare per non piangere più sui soldi che mancano sempre? Rottamarsi da soli, riciclarsi, dimenticare. Ingoiare la pillola amara dell’ignoranza e fare finta che non ho scritto sperando che le storie tremende che ho trovato, non si ripetessero di nuovo.
Dovrei essere seria. Pensare a me. Ma sull’orlo di un paese in crisi, invece di trovarmi un lavoro concreto, vorrei fondare un giornale. Inguaribile, mi dico, come fosse un insulto. I sogni te li conficca il diavolo. E senza soldi, senza sponsor, senza nessuno che condivida un’idea, sono solo una malata terminale. Io e tutte quelle storie che potrebbero non essere mai più raccontate.

tratto da: http://www.valigiablu.it/freelance-italiani-di-guerra-la-testimonianza-di-barbara-schiavulli/










Il caffè corretto speranza

A fine 2013 saranno 5 i container importati. Il ruolo dei torrefattori
Dal Guatemala all’Uganda, la rete solidale in espansione della cooperativa Shadhilly a sostegno della filiera equa

di PIETRO RAITANO ALTRECONOMIA, LUGLIO/AGOSTO 2013

AMILCAR HA LO SGUARDO SIMPATICO SOTTO IL CAPPELLO BIANCO PANAMA. Nella nostra redazione di Milano ci racconta di El Bosque, il villaggio a 80 chilometri circa da Città del Guatemala e a 1.500 metri di altitudine, dove, da sempre, si produce caffè. Quello che beviamo non è il suo, ma non se la prende. E ci racconta di come, nel 2003, lui e il gruppo di produttori coi quali lavora, stanchi di svendere il raccolto per pochi dollari al quintale, fondano una cooperativa e la chiamano “Nueva Esperanza del Bosque”. Oggi Amilcar (Amilcar de Jesùs del Aguila Mejia) ne è presidente. “All’epoca molta gente pensava di emigrare, i costi di produzione erano alti, i ricavi bassi. Poi, attraverso il sacerdote Oscar Victorio Sandoval, i primi contatti con il commercio equo italiano”. Quel commercio equo si concretizza prima nella collaborazione Equoland-Mondo Solidale e con la prima visita alla comunità di El Bosque nel 2002, Poi prosegue nelle Marche con Mondo Solidale. Nel 2004 il presidente di Mondo Solidale Massimo Mogiatti, visita il Guatemala e la cooperativa di Amilcar; da allora inizia una feconda collaborazione, che porta in Italia, nelle botteghe del commercio equo, e non solo, il caffè di El Bosque. Da un anno questa collaborazione si è intensificata e ha portato nuovi frutti. “Nei nostri viaggi continuavamo a incontrare produttori che ci chiedevano di poter entrare nel circuito del fair trade. Per questo motivo abbiamo deciso di dare vita a una nuova esperienza, che abbiamo chiamato Shadhilly”. Il nome è quello di una figura leggendaria legata alla scoperta del caffè, Alì Bin Omar Al Shadhilly, in molti paesi ancora considerato “santo patrono” dei coltivatori e dei consumatori di caffè. A maggio la cooperativa Shadhilly (www. Shadhilly.com) ha compiuto un anno. “A fine 2013 avremo importato 5 container di caffè: 3 dal Guatemala – da El Bosque, da La Union e da Quezaltepeque – e 2 dall’Uganda”. Il caffè ugandese arriverà in Italia anche grazie alla collaborazione con Sos Missionario di San Benedetto del Tronto, con la Ong ugandese Tweyanze Development Agency (TDA) e Mondo Solidale, in un progetto coi produttori dei villaggi del distretto di Luwero. Il caffè importato da Shadhilly sarà destinato intanto alle botteghe ma non solo. “Quando importi 5 container è difficile pensare di smaltirli tutti solo con la vendita al dettaglio. Allora ci siamo rivolti direttamente ai torre fattori. Scoprendo tra l’altro delle sensibilità anche tra gli imprenditori, dove forse un po’ meno te l’aspetti”. Ad esempio con la torrefazione Pascucci di Montecerignone (Pu) che oggi acquista diversi dei caffè importati da Shadhilly. Pascucci aveva già avviato un progetto di solidarietà, in collaborazione con la Cooperativa Gino Girolomoni, con i produttori di caffè della Cooperative Cafeiere Cacaoyere du Nord Ouest (Cocano) di Port de Paix ad Haiti. Un progetto di commercializzazione del caffè crudo coltivato e raccolto dalle famiglie contadine, con metodi completamente naturali, nel rispetto dell’agricoltura biologica. Nell’ottica di questa collaborazione, ha chiesto a Shadhilly da un lato di curare le relazioni con il produttore e comprendere le sue necessità, dall’altro monitorare in tutte le sue fasi l’importazione. “Per questo nel 2014 i container da importare saranno 6 “ spiega Massimo. Per quelli del 2013, “contiamo di torrefarne uno e mezzo, che finirà tutto nelle botteghe del commercio equo attraverso Mondo Solidale, Libero Mondo, Equomercato, Unicomondo ed altri partners. Una parte del caffè crudo verrà acquistato da altre realtà: dall’associazione fiorentina Tatawelo al collettivo Malatesta di Lecco, dalla cooperativa la Melagrana di Trieste all’associazione Sedimenti di Lecce”. Il fatturato 2013 previsto di Shadhilly è è di 520mila euro. I 22 soci della cooperativa hanno raccolto un capitale sociale di 65mila euro, e lavorato il piano finanziario in collaborazione con la filiale di Ancona di Banca Etica. Grazie al commercio equo e solidale e alla garanzia di un “giusto prezzo”, la cooperativa Nueva Esperanza ha potuto strutturarsi, eseguire una parte del processo di lavorazione e gestire direttamente l’esportazione del caffè; la comunità di El Bosque ha nel frattempo aperto una sezione della scuola media, poi ampliata con una biblioteca, e un piccolo ma fondamentale ambulatorio con la presenza giornaliera di un’infermiera che, nel primo anno, ha assistito oltre 1.500 persone tra residenti e lavoratori stagionali. Oggi la preoccupazione di Amilcar ha il colore della ruggine. “Hemila vastarix” è il nome del fungo che causa la malattia delle piante di caffè nota in Centro e Sud America come “Roya del Caffè”. La Roya (ruggine) è tra le malattie più temute dai cafeteleros, difficile da individuare in tempo per tentare qualche rimedio. La Roya ha fatto la sua comparsa in Guatemala nel 2012, riducendo le esportazioni. “Ma è per il 2013 che temiamo il peggio” spiega Amilcar. “Il Governo stima un calo della produzione fino al 40%. Vorrebbe dire il tracollo per un Paese la cui economia dipende per il 50% dal caffè”. Per questo motivo una quota di 15 centesimi a pacchetto del caffè El Bosque di Shadhilly sarà destinata a sostenere l’emergenza legata alla Roya. E non solo. L’unico modo per sconfiggere la Roya è estirpare la pianta e sostituirla con una nuova – che però non diventa produttiva prima di 7 anni – Shadhilly e Mondo Solidale hanno lanciato una campagna di “adozione” di piante di caffè: con una donazione di 3 euro si può diventare simbolicamente proprietari di un “pezzetto” di piantagione in Guatemala, finanziando l’acquisto e la posa di nuove piante, e il loro mantenimento per i seguenti tre anni.

20 luglio 2013

Il razzismo di Calderoli e la figlia del ministro....Lettera alla Provincia Pavese

UNA LETTERA AL GIORNO
IL DIRETTORE

Caro direttore, dopo le parole del leghista Calderoli, vice presidente del Senato, nei confronti del ministro per l'integrazione del Governo italiano Cécile Kyenge, pensiamo sia importante esprimere la nostra solidarietà al ministro contro un’aggressione verbale mascherata come al solito da battuta di spirito.


Associazione Ains onlus
Associazione Autismo Pavia onlus
Associazione Amici dei Boschi onlus
Associazione Amici della mongolfiera per Lu.I.S
Associazione Babele Onlus
Associazione Cafe
Associazione Chiave di Volta
Associazione Ci Siamo anche noi
Associazione culturale Teatrodipietra onlus
Associazione Fildis
Associazione Incontramondi
Aps Cazzamali
Ausercorvino
Caap Onlus
Cmmese-Centro Studi Musica Medicina Cooperativa Finis Terrae
Comitato Pavia Asti Senegal
Gas Pavia
Gas Pavesi
Istituto S. Caterina
Sportellomamma Onlus
Tuttincima Onlus
prof. Ernesto Bettinelli
prof. Gian Battista Parigi
Carmen Pilar Silva


Mi fa particolarmente piacere dar voce a tante associazioni e cittadini che con sobrietà vogliono far sentire la loro vicinanza più di tanti proclami al ministro Cécile Kyenge, a una signora, a una cittadina italiana che ha subito un’offesa davvero volgare. E mi piace ricordare qui ciò che in una intervista video al blog YallaItalia ha detto la figlia 17enne del ministro. Con la stessa sobrietà e tranquillità della madre la giovane Giulia, che studia al liceo classico Muratori di Modena dove è nata, dice semplicemente che «chi è razzista ama giudicare senza interesse per ciò che ha intorno», che il razzismo è prima di tutto ignoranza e che per batterlo occorre informarsi e avere mente aperta. Poi parla del suo rapporto con i due rami della famiglia (quello italiano e quello congolese) e ai razzisti lancia questo appello: «Vivete in pace, viaggiate molto e forse un giorno scoprirete che essere razzisti è inutile». C’è speranza se una ragazza parla e vive così.

p.fiorani@laprovincia pavese.it

19 luglio 2013

Coca Rosso Sangue

Il libro è uno straordinario reportage che racconta la sanguinosa guerra in atto in Messico tra lo Stato e i cartelli della droga; che, a loro volta, sono in guerra tra di loro, avvalendosi dell’alleanza di parti consistenti dello Stato, le quali parteggiano – contro lo Stato stesso e contro i cittadini – ora per l’uno ora per l’altro cartello della droga.

Questa guerra è mossa dalla volontà di controllare i principali business gestiti dai clan criminali, primo fra tutti quello della droga. La droga (in particolare la cocaina) viene inviata in Europa utilizzando il porto di Gioia Tauro, come snodo logistico, e la ‘ndrangheta, come «partner commerciale».
Gli altri business criminali per il controllo dei quali è in atto la guerra sono: il commercio dei migranti latinos che attraversano il Messico per cercare fortuna negli Usa; la prostituzione; il sequestro di cittadini messicani (desaparecidos) per avviarli alla prostituzione, al mercato degli organi o alla schiavitù clandestina in molteplici settori sommersi dell’economia; il racket delle estorsioni; il commercio di armi.
Lucia Capuzzi ha girato le zone «calde» del Messico per raccogliere informazioni e testimonianze sul campo: Città del Messico, Tijuana, Ciudad Juárez (la città più violenta del Messico e del mondo), Saltillo (dove maggiore è il fenomeno dei desaparecidos), Ixtepec (epicentro della tratta dei migranti) e altre città e stati del Messico. Ha intervistato decine di persone: dai residenti di Juárez che si organizzano in gruppi di autoaiuto per resistere alla violenza, ai migranti latinos vittime dei sequestri, alle ragazze violentate e alle madri dei desaparecidos; ha incontrato personaggi straordinari (giornalisti, genitori, sacerdoti, vescovi, poliziotti…) e gente comune, e racconta le loro storie e testimonianze.
La narcoguerra messicana riguarda l’Italia e gli italiani molto più di quanto si pensi. Non solo perché i narcos fanno affari con la ‘ndrangheta, la quale poi reinveste i guadagni di questi traffici in attività dell’economia «lecita». Ma anche perché è proprio la «domanda» di cocaina che arriva dall'Europa (e l'Italia è tra le principali consumatrici) ciò che attiva il narcomercato messicano e mondiale, con le tremende violenze ad esso connesse. Rainer Kasecker, il poliziotto tedesco esperto di criminalità organizzata e narcotraffico, che lavora presso l’Osservatorio europeo sulle droghe e le tossicodipendenze, così afferma a proposito del narcotraffico: «Possiamo inventare tecniche sempre più sofisticate per individuare e bloccare i carichi. Finché ci sarà la domanda, però, non riusciremo mai a fermare il flusso».
Uno straordinario reportage che racconta la sanguinosa guerra in atto in Messico tra lo Stato e i cartelli della droga e suoi legami con l’Italia.

Lucia Capuzzi è nata a Cagliari nel 1978 dove si è laureata in Scienze Politiche. Ha poi conseguito un dottorato di ricerca in «Storia dei Partiti e dei Movimenti Politici» all’Università di Urbino, svolgendo una ricerca sull’emigrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra.
Da questo studio è nato il libro La frontiera immaginata. Profilo politico e sociale dell’emigrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra (Franco Angeli 2006). Ha pubblicato inoltre Colombia. La guerra (in)finita, Marietti, Genova-Milano 2012; Adiós Fidel. Fede e dissenso nella Cuba dei Castro (con Nello Scavo), Lindau, Torino 2011; Haiti. Il silenzio infranto, Marietti, Genova-Milano 2010.
Dal 2004 ha intrapreso la carriera giornalistica. Ha lavorato per il Tg Leonardo della Rai. Attualmente lavora nella redazione Esteri di Avvenire e si occupa in particolare di questioni latinoamericane.

Coca Rosso Sangue
Sulle strade della droga da Tijuana a Gioia Tauro
1ª edizione luglio 2013
Collana IL POZZO - 2° SERIE
Formato eBook (EPUB)
Disponibile anche in formato cartaceo
Numero pagine 236

18 luglio 2013

Caffè, un fungo minaccia la coltivazione

Il batterio roya infesta il 60% delle piante del Centro America. Minacciando 4 mln di posti lavoro. E un mercato da 42 mld.

di Marco Todarello
http://www.lettera43.it/economia/macro/caffe-un-fungo-minaccia-la-coltivazione_43675102684.htm

Il seme del risveglio italiano per antonomasia è a rischio, e la colpa è tutta di un fungo. Si chiama roya (hemileia vastatrix) il batterio che sta mettendo in crisi la produzione del caffè di gran parte del Centro America. Con conseguenze destinate ad abbattersi sia sul nuovo mondo sia sul Vecchio Continente. L’epidemia ha risparmiato poche piante: dal Messico alla Costa Rica, il 60% delle coltivazioni è infestato. La roya colpisce le foglie, che improvvisamente si presentano con macchie gialle, indebolisce gli arbusti e provoca la caduta del chicco prima della sua maturazione.
A RISCHIO 25 MILIONI DI PRODUTTORI.
Secondo gli esperti di Anacafé (Asociación nacional del café de Guatemala) il cambiamento climatico, con una combinazione di alte temperature e intense piogge, ha favorito il propagarsi del batterio: la roya era infatti già nota nella regione, ma non si era mai manifestata in una forma così aggressiva. Ora invece l’allarme è altissimo: in ballo c’è la sussistenza di almeno 25 milioni di produttori (su un totale di oltre 150). E un giro d’affari di 42,5 miliardi di dollari.
Secondo gli esperti di Anacafé (Asociación nacional del café de Guatemala) il cambiamento climatico, con una combinazione di alte temperature e intense piogge, ha favorito il propagarsi del batterio: la roya era infatti già nota nella regione, ma non si era mai manifestata in una forma così aggressiva.

Ora invece l’allarme è altissimo: in ballo c’è la sussistenza di almeno 25 milioni di produttori (su un totale di oltre 150). E un giro d’affari di 42,5 miliardi di dollari.
Il caffè dà lavoro al 20% del Centro America

Nella terra del caffè, gli effetti socioeconomici che possono essere generati dalla roya sono incalcolabili: in Centro America, tra impiego diretto e indotto, l’industria del caffè impiega circa 4 milioni di persone e nei mesi del raccolto dà lavoro al 20% della popolazione attiva.

In El Salvador, la Fundación para la investigación del café ha previsto per la stagione 2013-2014 perdite per oltre 70 milioni di dollari, mentre quelle stimate del ministero dell’Agricoltura della Costa Rica ammontano a 44 milioni. Lì il governo ha decretato un’emergenza sanitaria di due anni obbligando i contadini a utilizzare determinati pesticidi e fertilizzanti.
Ma secondo alcuni agronomi si tratterebbe solo di un palliativo, inutile nel caso di quelle specie di caffè come la Arabica - una delle più diffuse al mondo - che non hanno sviluppato una proprio resistenza al batterio.
LE VARIETÀ RESISTENTI. Ed è proprio in questa direzione che sta andando la ricerca, come quella eseguita in Colombia dal Cenicafé (Centro nacional de investigaciones de café), che ha introdotto la varietà Castillo, resistente al fungo e di qualità simile alle più diffuse Arabica e Robusta, specie coltivata fin dalla antichità. La novità all’inizio ha generato qualche dubbio, ma oggi la varietà Castillo viene venduta senza problemi e l’operazione ha permesso alla Colombia di superare la crisi seguita all’epidemia di roya che colpì il Paese nel 2010.
La riconversione delle piantagioni sembra essere l’unica soluzione efficace, e oggi nel Paese andino il 54% delle piante è del tipo resistente al virus. Per un’operazione simile in Centro America, è stato calcolato un investimento non inferiore a 300 milioni di dollari.
Le multinazionali guadagnano mentre i contadini muoiono di fame

Negli ultimi cinque anni, per l’abbondanza dell’offerta, il prezzo del caffè era andato al ribasso, fino a 170 euro a tonnellata. Ma benché le quotazioni siano in discesa, l’importanza del chicco è immutata rispetto a quando venne esportato dal Corno d’Africa, di cui la pianta è originaria, a tutti i Paesi della fascia tropicale.

Un’importanza geopolitica, oltre che economica, perché il chicco marrone è finito per diventare, in molti casi, il collante dei rapporti tra i Paesi occidentali e le proprie colonie.
Rapporti quasi sempre a senso unico, perché mentre nei caffè (già nel ‘700 la parola era sinonimo di bar) di Vienna e Londra i signori dell’alta società sorseggiavano un espresso, dall’altra parte dell’oceano ampie aree del Centro e del Sud America venivano violentate, con la vegetazione autoctona estirpata per impiantare quel caffè sempre più richiesto in Europa e più tardi anche negli Stati Uniti.
IL CONTROLLO DELLE MULTINAZIONALI. Le lotte dei contadini e delle guerriglie comuniste, oltre alle riforme agrarie compiute in alcuni Paesi, non sono riuscite a cambiare di molto le condizioni di un sistema spesso segnato dall’abuso e dall’inosservanza dei diritti basici.

Oggi quattro grandi multinazionali (Nestlé, Procter&Gamble, Kraft/Philip Morris e Sara Lee) controllano con profitti enormi quasi il 60% del mercato mondiale, mentre un cafetalero guatemalteco continua a guadagnare 30 quetzales (3,75 dollari) al giorno, per non meno di 12 ore di lavoro sotto il sole o la pioggia a raccogliere e seccare chicchi di caffè.
AI PRODUTTORI SOLO IL 9% DEI RICAVI. La britannica Fairtrade foundation ha inoltre calcolato che il coltivatore riceve non più del 7-9% del prezzo che il caffè ha sul banco del supermercato.
Un sistema iniquo che però, da qualche secolo, continua a essere per molti contadini quasi l’unica ragione di vita.
Negli ultimi 15 anni qualcosa è stato fatto, nell’ambito del commercio equo e solidale, per ridare dignità ai produttori, concordando con loro prezzi equi in base ai costi reali di produzione e assicurando loro anche un reddito adeguato e un contributo per lo sviluppo di programmi sociali autogestiti come asili o strutture sanitarie. L’incidenza del fair trade sul mercato è, però, ancora minima, il 13% circa secondo Fairtrade foundation.

Giovedì, 18 Luglio 2013





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13 luglio 2013

Il non profit cresce e fa crescere. Ma la politica spreca un’occasione​

I primi dati del Censimento delle istituzioni non profit presentati dall’Istat riportano un segno positivo per tutte le voci rispetto alla precedente rilevazione censuaria del 2001. Dal numero delle istituzioni non profit (+28 %), ai suoi volontari (+43%), agli addetti (+39%), ai lavoratori esterni (+169%) e ai lavoratori temporanei (+ 48%) viene certificata la crescita rilevante di un settore dell’economia sempre più importante per il rilancio del nostro sistema Paese. Il Terzo settore è infatti l’unico comparto tra quelli rilevati dal 9° Censimento Istat (imprese, istituzioni pubbliche e appunto istituzioni non profit) che presenta un segno positivo ovunque. L’exploit del non profit, che l’Istat considera a pieno titolo una realtà del sistema produttivo italiano, attesta il ruolo che l’economia sociale può ricoprire per una ripresa del Paese più attenta al 'benessere equo e sostenibile' delle persone. Fino a oggi, però, le forze politiche e di governo hanno gravemente sottostimato il valore sociale ed economico del Terzo Settore, considerandone l’apporto marginale, utile per settori periferici, ma irrilevante di fronte alle sfide che la crisi impone. Alcuni provvedimenti, per esempio l’aumento dell’Iva dal 4% al 10% per le cooperative sociali e l’estensione dell’Imu alle attività senza fini di lucro, stanno perfino minando la sopravvivenza di questa indispensabile realtà produttiva. Una miopia della politica che ha impedito al nostro Paese di approfittare del deciso investimento sull’economia sociale non profit da parte della Ue. Accade così che mentre in Italia ottusamente si rischia di affossare la cooperazione sociale, nel Parlamento europeo si delibera «sul contributo delle cooperative al superamento della crisi» (risoluzione del 2 luglio 2013), rilevando che le cooperative «si sono dimostrate in tempi di crisi più resistenti delle stesse imprese tradizionali, in termini sia di tasso di occupazione che di chiusura aziendale» ed evidenziando come «lo sviluppo di cooperative si è dimostrato più idoneo a rispondere alle nuove esigenze e a stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro rispetto ad altri modelli, grazie alla loro grande capacità di adattarsi ai cambiamenti e di conservare la propria continuità operativa». A fine febbraio 2013 era stata la Commissione europea a intervenire con esplicito invito a investire nel periodo 2014-2020 su innovazione sociale ed economia sociale, anche attraverso parte del Fondo sociale europeo (Fse), e con il contributo del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr). Inoltre, grazie a un pacchetto di misure che costituiscono 'L’iniziativa per l’imprenditoria sociale', la Commissione europea già da un paio di anni ha intrapreso una politica articolata di investimento lungo tre direttrici, volta a potenziare l’accesso delle imprese sociali ai finanziamenti, a migliorare la visibilità e il contesto legale delle imprese sociali. Rientrano in questo pacchetto anche lo sviluppo di un quadro normativo europeo sui fondi europei per l’imprenditoria sociale (proposta della Commissione europea adottata nel marzo scorso dal Parlamento europeo). È lecito sperare che grazie ai nuovi dati Istat sul non profit la politica italiana non manchi, ancora una volta, di considerare l’energia nuova che l’economia sociale può dare per la ripresa e il rilancio del Paese.

Gian Paolo Gualaccini - Coordinatore dell’Osservatorio sull’Economia Sociale del Cnel tratto da: http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/nonprofitcresceefacrescere.aspx

11 luglio 2013

Presentazione del progetto “Comedor Infantil”

Il “Comedor Infantil”, uno tra i progetti, realizzato presso l’aldea di Santa Gertrudis a La Champas, su cui Ains onlus, la nostra associazione, ha deciso di puntare fortemente, sta dando maggiori soddisfazioni.
Di che cosa si tratta?
Essendo Santa Gertrudis una baraccopoli di settecento famiglie, dove regna l’indigenza più totale, il Comedor vuole porsi come un punto di riferimento per far fronte alla povertà. Mano tesa soprattutto verso i bambini, che sono il punto da cui ripartire per tornare a sperare nel futuro.
Il Comedor è nato com
e mensa per trentacinque bambini, a cui offrire almeno un pasto al giorno.

Nel luglio 2012 ha aperto i battenti, rendendo possibile l’assunzione di una donna del luogo, Araciely, con funzioni di cuoca.
Il suo compenso ammonta all’equivalente di duemila euro all’anno.
Il compito di Araciely è anche quello di supervisionare le presenze al Comedor: se per più giorni si manifesta l’assenza di un bambino, ci si reca presso la sua abitazione per incontrare la famiglia e verificare il tipo di problematica.
Questo porta a un coinvolgimento nel progetto di tutti i componenti della famiglia: non solo li si sgrava di un costo, ma anche li si conduce pian piano a diventare parte integrante dell’iniziativa.
Anche perché a turno, ogni giorno, una mamma dei trentacinque bambini alle dieci di mattina è chiamata a presentarsi al Comedor per i lavori di pulizia e di aiuto in cucina.
Poi serve ai tavoli e, naturalmente, beneficia del pasto con un contributo di cinque quetzal (cinquanta centesimi di euro) al mese: una cifra simbolica, come si può comprendere, ma significativa in termini educativi affinchè si possa parlare di aiuto e non di mero assistenzialismo.
Visto il successo del Comedor abbiamo pensato di andare oltre l’aspetto esclusivamente nutrizionale per creare all’interno anche momenti di intrattenimento: una volta alla settimana si è quindi deciso di proporre un cineforum serale, gratuito e comprensivo di merenda.
In più, da qualche mese, gli ambienti sono diventati una sorta di oratorio, un luogo di aggregazione e attività per i bambini per allontanarli sempre più dalla strada e dai suoi pericoli.
Il Comedor è ora un grande centro di aggregazione, che nel dopo-scuola accoglie i bambini, li aiuta nei compiti e offre la possibilità di giocare e divertirsi tutti insieme.
Questo ha comportato l’assunzione di una maestra, Zulma, sempre del luogo, in servizio dalle 13 alle 17 dal lunedì al venerdì. Anche per Zulma il compenso ammonta all’equivalente di duemila euro all’anno.

Pertanto, prima di lasciarvi per la pausa estiva, vi lanciamo un appello: se pensate che ciò che facciamo sia importante, aiutateci, informate i vostri amici di questo progetto, diventate genitori “adottivi” di una buona idea, di un progetto concreto.

Abbiamo bisogno di 5 mila euro per arrivare a fine anno tranquilli senza l’ansia di dover tagliare qualche attività.

Se volete aiutarci ogni vostro contributo sarà ben accetto e investito nel progetto.
Con il bollettino postale potete usare il Conto Corrente Postale n. 46330429 intestato ad ains onlus c/o CSV Pavia via Bernardo da Pavia, 4 27100 Pavia (causale: Comedor infantil).

Se invece volete aiutarci con un bonifico bancario,
il codice IBAN del conto corrente postale è: IT70 W076 0111 3000 0004 6330 429 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX CIN: w ABI: 07601 CAB: 11300 N.CONTO: 000046330429

Elenco delle attività svolte al “Comedor Infantil” oltre al doposcuola
1. Celebrazione del compleanno dei bambini/adolescenti che fanno parte del Progetto di “Sostegno scolastico a Distanza” (un gruppo di giovani volontari si occupano dell’organizzazione del compleanno elaborando un programma di attività, giochi, animazione e, per ultimo, la consegna della merenda al festeggiato e ai suoi accompagnatori.
2.Corso di Pasticceria Alle mamme dei bambini che frequentano il “Comedor Infantil” viene insegnato come realizzare un delizioso dolce con l’ananas per festeggiare il “Giorno del Padre” e per porre le basi per la creazione di un laboratorio alimentare che possa, attraverso la vendita dei dolci, finanziare il Comedor. 3.Attività di Volontariato e informazione sull’importanza dell’igiene personale Durante la settimana un gruppo di volontari dell’aldea de El Rancho si recano al Comedor per aiutare a preparare e servire il pranzo ai bambini e, attraverso piccoli giochi di gruppo, interagiscono con loro e le mamme per far comprendere quanto sia importante l’igiene personale (lavaggio delle mani, lavaggio dei capelli, lavaggio dei denti utilizzando il dentifricio e lo spazzolino, ecc.) come misura preventiva contro le malattie.
4. Laboratori di manualità per stimolare la creatività utilizzando materiale di scarto (bottiglie di plastica, carta da giornale, legni, ecc)
5. L’amicizia Ogni 15 giorni laici e/o religiosi incontrano i giovani del Comedor per, insieme, parlare di un argomento scelto dai ragazzi stessi (amicizia, amore, fratellanza, importanza dell’uso del denaro, ecc.)
6. “Charla motivacional” ovvero Momento informativo/formativo con una dottoressa nutrizionista per comprendere le cause della denutrizione/malnutrizione che colpisce molti bambini nella baraccopoli di Santa Gertrudis. Durante l’incontro si cerca di far conoscere alle mamme come preparare cibi sani, appetitosi e nutrienti.
7. “Charla sobre el cáncer de mama y cáncer de cervix”. È importante che le mamme dei bambini sappiano come prevenire e diagnosticare il cancro alla mammella e all’utero. Per questo motivo si realizzano frequentemente delle campagne di prevenzione insegnando a riconoscere i sintomi e a praticare l’auto esame della mammella.
8. Laboratori per le mamme per imparare a lavorare la soya trasformandola in latte e derivati
9. Giornate di salute gratuite per i bambini del Comedor e la popolazione della baraccopoli di Santa Gertrudis.