28 febbraio 2012

Diario della crisi - Lavorare senza padroni. Le imprese 'recuperate' d'Argentina

Il 90 % delle 'empresas recuperadas' sono sopravvissute alla crisi e godono di buona salute.


Nel 2001, quando le misure imposte dal fondo monetario internazionale spingono l’Argentina verso il default, milioni di persone verso la povertà e centinaia verso la morte per fame, molti imprenditori si comportano come tanti Schettino: lasciano naufragare centinaia di fabbriche, zavorrate dai debiti, pensando solo a sottrarre qualche macchina alle procedure fallimentari.

"Il padrone voleva portare via le macchine e venderle o usarle per lavorare da qualche altra parte, anziché pagare i creditori - racconta un operaio alla collega Elvira Corona – in questo senso era una frode. In effetti c’era la crisi, lui non guadagnava più quanto voleva, i profitti si erano ridotti. Però è certo che, se avesse voluto, avrebbe potuto salvare l’impresa. Invece ne aveva pianificato la chiusura già da due anni, in modo da non perdere nulla. Parliamo di una persona anziana, che non aveva figli, e non gli importava di lasciare gli operai sul lastrico. Quello era il modo più facile, secondo lui, per uscire di scena e ritirarsi da tutto".
E’ a questo punto che i dipendenti di alcune fabbriche, certi che la crisi non gli avrebbe offerto nessun altro lavoro, decidono di prendere in mano la gestione delle medesime, investendoci tutti i risparmi, lavorando notte e giorno, presidiando le macchine con mogli e figli e alla fine, in oltre 200 casi, riuscendo a salvarle e a rimetterle sul mercato. La storia delle “Ert” , le “Empresas recuperadas por los trabajadores“, cioè le imprese argentine recuperate dai loro dipendenti, oltre a offrire un’esperienza umana ed economica interessantissima, sarebbe perfetta per un film dei fratelli Dardenne o per “Storie di confine”, ma per restituire allo spettatore anche gli elementi di commedia popolare che hanno accompagnato il fenomeno ci vorrebbe la penna di Tatti Sanguineti e la camerina che usava Comencini, prima di tagliare l’ultima sequenza della sua vita, saltando giù da un balcone.
Per ora queste storie sono raccolte in un libro di Elvira Corona che si intitola LAVORARE SENZA PADRONI. Viaggio nelle imprese «recuperadas» d’Argentina (Emi editore 2011). Caratteristica comune delle “Empresas recuperadas”, il movimento che ha permesso di salvare oltre 9000 posti di lavoro, è il carattere collegiale delle decisioni, una relativa omogeneità di stipendi - impossibile trovare un Marchionne che guadagna 400 volte il salario di un dipendente - e la rete di relazioni che le cooperative hanno intessuto con il resto della comunità.
Esemplare e anche molto divertente è il caso della tipografia ”Chilavert“ di Buenos Aires. Quando arriva in forze la polizia, gli operai riescono a tenere la tipografia grazie all’ appoggio del quartiere. "C’erano circa duecento vicini che si mobilitarono immediatamente per difenderci" racconta a Elvira Corona Ernesto Gonzalez. "La tv parlava di noi, facevamo notizia, di fatto in quel momento già potevamo mangiare, stavamo riprendendo a lavorare".
Uno degli sgomberi, inizia mentre la cooperativa sta stampando un libro. “Ci proibivano di far uscire o entrare qualsiasi cosa dalla fabbrica – dice Ernesto - c’erano poliziotti da qui fino a due isolati e non potevamo far passare i camion con le materie prime, né con i prodotti finiti. Non sapevamo come consegnare il libro a cui stavamo lavorando, e fu allora che il nostro vicino ci disse: 'Rompete questa parete e fate passare i libri da qui. Se passate dal tetto vi vedranno, da qui nessuno se ne accorgerà' ". Grazie al passaggio creato rompendo il muro del vicino gli “insorti” riescono a consegnare il lavoro al cliente nei tempi stabiliti. Una lettura che alle operaie della Omsa o dell’Alcoa farebbe venire molti pensieri. Il 90% delle “empresas recuperadas” sono sopravvissute alla crisi e godono di buona salute.

Mimmo Lombezzi

tratto da: http://www.tgcom24.mediaset.it/rubriche/articoli/1038377/diario-della-crisi---lavorare-senza-padroni-le-impreserecuperatedargentina.shtml

Giovanni Porzio, "Un dollaro al giorno"

"Forse li avete visti in televisione. Di sfuggita, per alcuni istanti, tra le dichiarazioni del premier di turno e un servizio sulle sfilate di moda. Dal vivo, da vivo, è un'altra cosa...Ne ho visti a centinaia. Morti per fame, guerre, malattie. Eppure dovremmo sapere che nel mondo globalizzato i nostri destini s'incrociano. Che le economie dell'Asia, dell'Europa e delle Americhe sono interdipendenti. Che le variazioni dei corsi dell'euro, del petrolio e delle materie prime si ripercuotono sui nostri stili di vita. Che i flussi migratori causati dai conflitti, dalle carestie e dallo sviluppo disuguale stanno trasformando le società in cui viviamo".

A tutt'oggi, un miliardo di esseri umani vive con un dollaro al giorno. Più di 3 miliardi con meno di 2,5 dollari. Un miliardo di persone non sa né leggere né scrivere. Sono stati questi sconcertanti dati a indurre Giovanni Porzio a creare un racconto in presa diretta, la cronaca di un viaggio al termine della notte lungo l'Asia, l'Africa, il Medio Oriente e l'America Latina. Obiettivo, concentrare almeno una volta i riflettori su quella parte di umanità che i mezzi di informazione e la superficie delle coscienze del Primo Mondo eludono: i bambini di Gaza senza sogni, i drogati che dormono nei contrafforti di pietra del fiume Kabul, le schiave del sesso di Dharamganj. Testimoniare che cosa significhi lo sviluppo ineguale del pianeta per tante vite dimenticate. Ma soprattutto, aiutare a comprendere i meccanismi che producono i drammi del presente, l'aumento dei costi energetici e dei prezzi dei generi alimentari, la crisi finanziaria internazionale e lo sviluppo squilibrato dell'economia globalizzata. Perché intelligenza e solidarietà possono e devono ancora prevalere, provocando un cambio di rotta radicale in un futuro improntato a una condivisione più equa dei beni primari come acqua, cibo ed energia.


Brossura: 235 pagine
Editore: Tropea (febbraio 2012)
Collana: I Narratori
Lingua: Italiano
ISBN: 978-88-558-0201-7

http://www.giovanniporzio.it/

27 febbraio 2012

JORNADA MEDICA EN SANTA GERTRUDIS

Continuano le giornate di salute, finanziate dalla nostra associazione, in collaborazione con l'associazione Moises Lira Serafin, nostra partner progettuale a El Rancho.
 Santa Gertrudis è un'aldea de El Rancho, abitata da persone che vivono con uno stipendio mensile, quando riescono a trovare un posto di lavoro, di 1000 quetzales (100 euro).
Sono normalmente famiglie numerose per cui, avere la possibilità di farsi visitare da un medico gratuitamente è una grossa occasione per non togliere denaro per l'alimentazione e l'istruzione dei propri figli.
In Guatemala la situazione sanitaria è tragica per cui, noi, riteniamo sia giusto investire denaro in giornate di salute. 

24 febbraio 2012

Ains assume coordinatrice in Guatemala


I volontari di Ains, la onlus pavese di nursing sociale formata da infermieri e presieduta da Ruggero Rizzini, sono rientrati dal Guatemala. E coltivano un’idea: sciogliere l’associazione tra qualche anno, quando le comunità che stanno assistendo dal 1998 saranno totalmente autonome per camminare da sole. «E’ il nostro sogno –
dice Rizzini –. Fare cooperazione senza sussidiarietà. Mettere chi abbiamo aiutano finora in grado di reggersi in piedi con le proprie forze». E un primo tassello in questo senso è stato posto: Ains ha fatto la sua prima assunzione a distanza: una donna guatemalteca, Genoveffa, 34 anni e una figlia di 6 mesi, che ha il compito di coordinare tutti i progetti, dalle 160 adozioni a distanza (alcuni bimbi nella foto) al sostegno di anziani in casa di riposo.

maria grazia piccaluga, la provincia pavese, 23 febbraio 2012

L’altra faccia della Terra, il libro di Monica Triglia dedicato a Medici senza Frontiere

di Monica Triglia

tratto da: http://www.donnamoderna.com/tempo-libero/libri/libro-monica-triglia-medici-senza-frontiere

L'autrice, caporedattore centrale attualità di Donna Moderna, ha raccolto in quest'opera le testimonianze delle operatrici di Msf insieme a tante storie delle donne che vengono aiutate dall'organizzazione umanitaria in Pakistan, Haiti, Guatemala, Lampedusa, Malawi.


Gli ultimi sei mesi li ho vissuti… pericolosamente. Non perché abbia corso qualche pericolo, questo no. Ma perché mi sono regalata un'esperienza straordinaria, emozionante e faticosa che ha un po' stravolto la mia solita vita. Sono partita con Medici senza Frontiere, la grande organizzazione umanitaria che nel 1999 ha ottenuto il premio Nobel per la Pace. Per cercare di capire chi sono le donne e le ragazze che ci lavorano. Psicologhe, medici, infermiere, ingegneri, architetti, addette alla logistica che scelgono di interrompere carriere ben remunerate e di prestigio per impegnarsi nei Paesi più difficili della Terra.

Sono andata a cercarle in Pakistan, dove aiutano le bambine che i genitori vendono per poche monete come spose a uomini anziani. Ad Haiti, dove si occupano di chi ha perso la famiglia nel terremoto e deve guardarsi dal contagio del colera. Le ho trovate a Città del Guatemala, dove tentano di riportare a una vita normale le ragazzine che vengono stuprate per strada, in pieno giorno, senza che nessuno muova un dito per aiutarle. A Thyolo, in Malawi, dove si occupano delle mamme e dei neonati colpiti dall'Aids. E a Lampedusa, dove con una carezza consolano le migranti che, dopo viaggi infernali su barche marce, approdano sulle coste italiane senza sapere neppure in che Paese si trovano. Le ho incontrate a Donetzk, in Ucraina, dove combattono con la burocrazia per poter assistere i detenuti malati di tubercolosi. E a Bruxelles, sede centrale di Msf, dove dirigono le operazioni di emergenza, quelle che consentono, in caso di crisi (una guerra, uno tsunami, un terremoto), di mandare sul posto staff completi di soccorritori in poche ore.
È nato così L'altra faccia della Terra (Mondadori Strade Blu) che trovate nelle librerie dal 27 settembre. Dove ho raccolto le testimonianze delle operatrici di Medici senza Frontiere insieme a tante storie delle donne che sono impegnate ad aiutare: la storia di Marie, che dopo aver perso la figlia Laurette nell'epidemia di colera seguita al terremoto di Haiti, ora insegna alle altre donne in una scuola di Msf come difendersi dall'infezione. Quella di Marie Lucie che ha vagato due giorni fra le macerie di Port-au-Prince stringendo a sé la piccola Marianne. Quella di Lidia, di Guatemala City, caricata a forza su un'auto e violentata tra la folla in un mercato. E ancora, la storia Anaya che ha partorito a sessanta miglia da Lampedusa su una carretta del mare in avaria. E quella di Jeany e Mercy, infettate dal virus dell'hiv in Malawi, che si curano e continuano a sperare.
Sono partita curiosa di scoprire chi fosse davvero l'umanità femminile di Medici senza Frontiere. Sono tornata con risposte diverse, nessuna certezza e una sola convinzione: quello che queste donne non sono. Non sono esaltate, né pazze, né animate da un particolare credo religioso. Ma persone come tante che vogliono fare qualcosa che abbia un senso. "Essere donna al mondo, soprattutto nelle zone in cui operiamo noi di Medici senza Frontiere" mi ha detto una dottoressa di Msf che ho incontrato sulla mia strada "è ancora sinonimo di discriminazione, vulnerabilità, insicurezza, meno accesso alle cure e quindi maggiore suscettibilità a malattia e morte. Essere donna tra gli ultimi della Terra significa essere l'ultima tra gli ultimi. Curare una donna, restituirle la salute, significa irrobustire tutta la sua famiglia, significa dare una chance in più ai suoi figli, significa irrobustire la sua comunità, rafforzare la rete sociale."
Per quanto mi riguarda, ho preso, e perso, molti aerei e ho conosciuto persone di tutto il mondo, in una Babele di lingue che incredibilmente ho capito. Ho indossato il velo a Peshawar e camminato sulle macerie mai rimosse della case crollate un anno e mezzo fa a Port-au-Prince e percorso strade rosse di polvere nell'Africa più povera... Mi rimangono un groviglio di emozioni e pensieri e dubbi e speranze che ancora non sono riuscita a sciogliere. Il mio solito tormento sul nostro mondo e "sull'altro mondo", miserabile e ingiusto. E le persone incontrate, in grado di dare una mano senza la presunzione di risolvere situazioni drammatiche che nessuno, forse, potrà mai cambiare. Il mio libro è per loro. E mi piacerebbe che aiutasse voi, che state leggendo queste righe, a conoscerle più da vicino. E ad apprezzare quella straordinaria organizzazione umanitaria che è Medici senza Frontiere.

L'ONU: in Italia ormai è "femminicidio"

Rashida Manjoo, responsabile per la violenza contro le donne, usa un termine nato per descrivere gli eccidi in Messico. Ogni tre giorni in Italia una donna viene uccisa per mano del proprio partner

di Pierangelo Sapegno 23 febbraio 2012
tratto da:
http://www.iodonna.it/iodonna/guardo/12_a_violenza-donne-italia.shtml

Alla vigilia dell’8 marzo l’Italia farebbe bene a interrogarsi. Ma davvero siamo un Paese che perseguita la donna? Il dipartimento delle Pari opportunità ha addirittura pensato di istituire la figura di un avvocato specializzato nella sua difesa. E Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, ha appena parlato di femminicidio: «È la prima causa di morte in Italia per le donne tra i 16 e i 44 anni». Femminicidio è un neologismo ed è una brutta parola: significa la distruzione fisica, psicologica, economica, istituzionale della donna in quanto tale. Wikipedia scrive che «avviene per fattori esclusivamente culturali: il considerare la donna una res propria può far sentire l’aguzzino legittimato a decidere sulla sua vita».

È un termine coniato ufficialmente per la prima volta nel 2009, quando il Messico è stato condannato dalla Corte interamericana dei diritti umani per le 500 donne violentate e uccise dal 1993 nella totale indifferenza delle autorità di Ciudad Juarez, nello Stato di Chihuahua. C’erano cadaveri straziati buttati nella monnezza o sciolti nell’acido: secondo alcune denunce si sarebbero macchiati di questi orrori anche uomini delle forze dell’ordine. Certo, in Italia non siamo arrivati a questi livelli. Però, si tratta di delitti trasversali a tutte le classi sociali.
Stefania Noce, femminista del Movimento studentesco, è stata uccisa a Catania dal compagno laureando in psicologia che lei diceva di amare «più della sua vita». A marzo di un anno fa nella periferia romana è stato trovato il tronco del cadavere di una donna mutilato: il caso è stato archiviato subito anche dai giornali. Come se volessimo tutti chiudere gli occhi davanti a questo orrore. Rashida Manjoo nella sua relazione ha detto che «la violenza domestica si rivela la forma più pervasiva che continua a colpire le donne in tutto il Paese, come confermano le statistiche: dal 70 all’87 per cento dei casi si tratta di episodi all’interno della famiglia».
C’è chi sta peggio, l’abbiamo capito: dieci Paesi del Sudamerica, a cominciare dal Messico. Ma nel mondo cosiddetto civilizzato dell’Europa siamo messi davvero male. I numeri sembrano quelli di una strage. Nel 2010 le donne uccise in Italia sono state 127: il 6,7 per cento in più rispetto all’anno precedente. Dati in continua crescita dal 2005 a oggi, e solo dal 2006 al 2009 le vittime sono state 439. Secondo l’associazione «Casadonne» di Bologna, si tratta di «un fenomeno inarrestabile».
Nei primi mesi del 2011, le statistiche parlano già di 92 donne uccise. Nella stragrande maggioranza dei casi gli assassini sono all’interno della famiglia, mariti (36 per cento), partner (18), parenti (13), ex (9), persino figli (11). Come se non bastasse, poi, «i dati sono sottostimati perché non tengono conto delle donne scomparse, dei ritrovamenti di donne senza nome o di tutti quei casi non ancora risolti a livello personale». Anche secondo una ricerca della Regione Toscana il fenomeno «è drammaticamente in crescita», e solo nel 2005 si è registrato in Italia un omicidio in famiglia ogni due giorni, e in sette casi su dieci la vittima era una donna. Ogni tre giorni una donna in Italia viene uccisa per mano del proprio partner. Secondo i dati della Polizia e dell’Istat una donna su 4, nell’arco della vita, subisce violenza, e negli ultimi nove anni, ha stabilito un rapporto dell’Eurispes, «il fenomeno è aumentato del 300 per cento». Le Nazioni Unite sostengono che «in 125 Paesi del mondo le leggi penalizzano davvero la violenza domestica e l’uguaglianza è garantita».
L’Italia, purtroppo, sembrerebbe far parte degli altri 139 Paesi. Davvero siamo messi così male? A sentire la coordinatrice della Commissione Pari opportunità del Consiglio Forense Susanna Pisano pare proprio di sì: solo il 6 per cento delle donne italiane denuncia la violenza subita. «La nostra è una piaga silenziosa e nascosta», dice. Non è solo una questione di costume, ma anche di diritto, come spiega bene, in fondo, la recente sentenza della Cassazione secondo la quale gli autori di uno stupro di gruppo non meritano il carcere. E non è un caso, alla fine, che proprio in Italia stia per nascere la figura di un avvocato specializzato solo nella difesa delle donne. Aspettando l’8 marzo...

12 febbraio 2012

se volete aiutarci a finanziare la costruzione del Centro Nutrizionale a El Rancho in Guatemala.....

Chi e' interessato a darci una mano lo puo' fare seguendo le indicazioni tradizionali che qui sotto riportiamo:
numero di conto: 7655
intestato ad AINS onlus
c/o CSV Pavia
via bernardo da Pavia, 4
27100 Pavia
Il codice IBAN del numero di conto di AINS onlus è:
IT42T0504856210000000007655
ABI: 05048
CAB: 56210
banca: UBI Banca popolare Commercio e industria S.P.A.

0095 Fil. San Martino Siccomario

9 febbraio 2012

Percorsi insieme. storie di malattia, dolore, ma anche di allegria e amore

Storie di malattia, dolore, ma anche di allegria e amore. Anna Maria Ferro e Monica Balzani, infermiere dell’Assistenza Domiciliare, hanno raccontato in un libro, “Percorsi insieme”, la loro esperienza a fianco di pazienti e familiari, cercando di trasmettere cosa significhi vivere quotidianamente la sofferenza, quale sia il carico di dubbi e fragilità, e quanta la forza interiore necessaria per cercare di alleviare il più possibile tale stato di afflizione.

Entrambe le autrici si sono ritrovate ad affrontare la realtà dell’Assistenza Domiciliare dopo aver lavorato in diversi reparti ospedalieri, passando così da un lavoro di equipe a dover fare i conti, da sole, con dolore e malattia. Ciò comporta sicuramente maggiori responsabilità, ma favorisce l’instaurarsi col paziente e la sua famiglia, di un rapporto di fiducia e di una relazione tanto profonda da trasformare l’infermiere in compagno di viaggio con cui percorrere un tratto, purtroppo a volte l’ultimo, del “cammino della vita”, con reciproco arricchimento. Dalle storie narrate emerge chiaramente come, nelle difficoltà e nelle situazioni più drammatiche, la migliore risorsa per andare avanti e non mollare, sia la professionalità coniugata all’amore per l’altro, che è non solo il malato, ma anche il familiare spesso impotente davanti al dolore del proprio caro che trova nell’infermiere l’appoggio, il consiglio, la vicinanza e la capacità di gestire le situazioni. Il filo conduttore di tutte le vicende è così l’allegria alternata alla sofferenza, nel lavoro come nella vita.

100 PAGINE

EURO 10

Per informazioni e/o richiedere il libro:
PER AVERLO IN SPEDIZIONE GRATUITA
e-mail: unicornofenice@gmail.com
telefono Monica Balzani: 392 8388279
Anna Maria Ferro: 347 4789689

Si trova presso LIBRERIA CAPPELLI (Mega)
144, c. Repubblica - 47121 Forli' (FC)
tel: 0543 370738

E' possibile acquistarlo:
http://www.macroedizioni.it/
http://www.ilgiardinodeilibri.it/
http://www.edizionisi.com/ telefono Edizioni Sì: 348 4727971