31 ottobre 2010

Tre domande ad Alvaro Aguilar Aldana: registrazione del 5 ottobre 2010




Tre domande ad Alvaro Aguilar Aldana, referente della nostra associazione in Guatemala,sul centro nutrizionale che sarà costruito a El Rancho.

Registrazione del 5 ottobre 2010

Alvaro, nel terreno che ti è stato regalato e poi hai donato all’associazione Moises Lira Serafin di cui sei presidente, si costruirà un centro nutrizionale in collaborazione con la nostra associazione Ains onlus. Ci vuoi spiegare qual è la tua idea?
"Nel terreno si costruirà una struttura su due piani che diventi un luogo di formazione e recupero nutrizionale. Formazione alle donne, alle madri di famiglia de El Rancho e dei villaggi dove si lavora con i microprogetti e il microcredito sia con C.F.C.A.,la fondazione per cui lavoro, che con Ains. Formazione sulla semina e la lavorazione della soya, del mais e dei fagioli oltre naturalmente sulle tecniche di allevamento di polli, dei maiali, dei lombrichi e dei pesci. In una struttura come questa si può ed è nostra intenzione farlo, lavorare con il microcredito per dare un’alternativa alle donne che sono la parte più importante della famiglia. Il centro nutrizionale ha lo scopo di riunire tutti quei bambini denutriti e malnutriti che normalmente si incontrano nei villaggi dove vivono. Contemporaneamente lavorare con le mamme di questi bambini per quanto riguarda l’igiene, la nutrizione, l’alimentazione e altro perché se si nutre il bambino ma non si forma la mamma per quando torna a casa si lavora solo a metà".
Come sarebbe strutturata la costruzione?
"Su due piani con la possibilità di costruirne un terzo. Il primo livello prevede stanze di diverse dimensioni, approssimativamente dieci, così suddivise: una farmacia, una sala d’attesa, una sala medica, una sala riunione, una cucina, un salone dove consumare i pasti, una dispensa, due bagni e una sala dove vendere prodotti di prima necessità come mais, fagioli, sapone, shampoo, dentifrici, soya, verdure e altro. La farmacia che venderebbe farmaci a prezzi popolari sarebbe come la tienda dei prodotti agricoli e alimentari costruita con lo scopo di autofinanziare il centro.
I prodotti venduti nella tienda proverrebbero direttamente dal campo, dal contadino. In questo modo si aiuterebbe anche il piccolo produttore locale. La nostra idea è di vendere prodotti con lo scopo di aiutare il contadino dell’aldea e non la multinazionale come in tanti negozi si fa.
Se si vende direttamente i prodotti del contadino questi sono di buona qualità ad un prezzo migliore. Sono prodotti di solidarietà.
Nel secondo livello pensiamo alla costruzione di una stanza dove possono essere ospitati i bambini denutriti e una per le bambine, due bagni separati, una sala giochi, una sala per le infermiere e una sala per l’amministrazione del centro. Pensiamo anche alla costruzione di due-tre stanze per i volontari ma queste ce le immagino non nel centro ma in un piccolo pezzo di terreno a parte di fronte. Volontari che possonovenire ad aiutare provenienti dall’Italia o, ad esempio, pensiamo ai medici che dalla capitale potrebberovenire a prestare una giornata di volontariato
".
Un progetto ambizioso ed importante...
"Un progetto necessario. Troppa gente ha bisogno di un centro come questo. Noi non abbiamo fretta per realizzarlo e pensiamo che in tre anni si possa fare. Poco a poco. La priorità è comprare un pezzo di terra che è a fianco a quella dove sorgerà il centro e partire con la costruzione del primo livello. Nel primo anno pensiamo alla costruzione del primo livello, partire con l’apertura dei negozi (farmacia e tenda dei prodotti agricoli) per autofinanziamento e la sala medica. Poco a poco".

I volontari hanno sete di conoscenza

Nel nostro Paese la fame più preoccupante, oggi, non è quella di pane, ma di pensiero. Non va dimenticato che la forma più alta di carità è la carità intellettuale. «I corsi? Non bastano più. Ora servono vere scuole per selezionare i volontari». Sale in cattedra il professor Stefano Zamagni e la sua lezione sulla crisi, il volontariato e il suo futuro ha lo stesso effetto di un fiume in piena. Un fiume gonfio non d’acqua ma di idee, tanto che l’economista bolognese, presidente del l’Agenzia per le Onlus e “mente scientifica” di Aiccon (Associazione Italiana per la Cultura Cooperativa e delle Organizzazioni Non Profit), straripa ragionamenti e riflessioni in un giro d’orizzonte a trecentosessanta gradi. Eppure c’è un filo che lega il flusso del suo pensiero e che si può tentare di riassumere in un appello di quattro parole: «Occorre cambiare il volontariato».
Prima però di illustrare la sua “rivoluzione culturale”, prima di invitare le associazioni ad avere il coraggio di guardarsi allo specchio e non risparmiarsi una dose di autocritica, prima di consigliare alle organizzazioni un autentico esame di maturità e una maggiore impegno nella formazione, il professor Zamagni congela momentaneamente la sua ricetta per una nuova primavera del volontariato e si concentra ad analizzare l’inverno della crisi, che continua a mordere non soltanto il mondo dell’economia, della finanza e del lavoro, ma anche l’universo del volontariato italiano, lombardo e milanese.
«Anzitutto per parlare della crisi serve fare una distinzione - spiega Zamagni -. Perché ci sono due tipi di crisi che, grosso modo, è possibile identificare nella storia delle nostre società: una dialettica, l’altra entropica
Cominciamo con il circoscrivere e il definire la crisi dialettica.
"È quella che nasce da un conflitto che prende corpo dentro una determinata società e che contiene, al proprio interno, i germi o le forze per proprio superamento. Va da sé che non necessariamente l’uscita dalla crisi rappresenta un progresso rispetto alla situazione precedente".

Quali esempi si possono citare nella storia di crisi dialettica?
"La rivoluzione americana, la rivoluzione francese, la rivoluzione dell’ottobre 1917 in Russia".
Tornando alla crisi entropica invece…
"Entropica è invece la crisi che tende a far collassate il sistema per implosione, ma senza modificarlo. E la crisi attuale è di questo secondo tipo, cioè entropica. Questo tipo di crisi si sviluppa ogniqualvolta la società perde il senso – cioè, letteralmente, la direzione – del proprio incedere".
Anche di tale tipo di crisi immaginiamo che la storia ci offra degli esempi?
"Sì. Ci offre esempi notevoli: la caduta dell’impero romano, la transizione dal feudalesimo all’età moderna; e con un salto nel Novecento: il crollo del muro di Berlino, il dissolvimento dell’impero sovietico".
Come giudicare, invece, la crisi economico finanziaria del 1929…
"No. La crisi attuale non è assolutamente corretto assimilarla – se per non gli aspetti meramente quantitativi – con quella che scosse il mondo nel 1929. Quella fu piuttosto di natura dialettica e non entro - pica, in quanto fu causata da errori umani commessi, soprattutto dalle autorità di controllo delle transazioni economiche e finanziarie, conseguenti a un preciso deficit di conoscenza circa i modi di funzionamento del mercato capitalistico".
Scusi, ma perché è importante rimarcare questa distinzione fra crisi dialettica e crisi entropica?
"Perché sono diverse le strategie di uscita dai due tipi di crisi. Non si esce da una crisi entropica con aggiustamenti di natura tecnica e con provvedimenti legislativi o regolamentari anche se necessari. La crisi entropica, come dicevo, è la conseguenza della perdita di senso, quando cioè la società perde il senso del proprio esistere, del proprio operare, allora entra appunto in crisi".
Dunque sembrerebbe di capire che la crisi entropica sia più difficile da risolvere della crisi dialettica.
"Certamente. Perché nella crisi dialettica una volta composto il conflitto, per esempio il conflitto di classe - prendiamo quello lavoratori-industriali -, allora si riparte. Invece dalla crisi entropica, come quella attuale, l’uscita sarà molto più lunga, perché bisogna cambiare il modo di pensare, cioè le mappe cognitive delle persone, della gente comune, delle famiglie. Questo è il vero problema. Mentre da una crisi dialettica se ne esce mettendo attorno a un tavolo i rappresentanti dell’una e dell’altra parte per trovare un accordo, per la crisi entropica non è così facile. Per esempio, quando in Italia ci fu l’accordo sul punto unico della contingenza, oppure sulla scala mobile che successe? Accadde che i sindacati e Confindustria, dopo un’estenuante trattativa, alla fine raggiunsero un’intesa e il resto poi seguì".
Il suo ragionamento lascia intuire che con una crisi entropica questo modus operandi non è possibile.
"No. Perché investe l’intera cultura popolare, compreso anche il volontariato. Quindi quella che viviamo oggi è una crisi che non riguarda solo l’alta finanza, ma semmai è partita dall’alta finanza e ci è cascata addosso. E questo evidentemente ci fa capire perché servirà parecchio tempo perché si possa dire che la crisi sia superata".
Che cosa fare allora? Come superare questa sorta di Scilla e Cariddi? "Bisogna che la gente torni a calzare nuovi occhiali con cui guardare la realtà. Anche nella galassia del volontariato: questa crisi ha fatto credere al volontariato che il suo ruolo è quello di essere stampella della società. Siccome c’è la crisi, siccome c’è la gente che soffre, c’è della gente che è in difficoltà, allora il volontariato deve intervenire e fare la croce rossa sociale. Ma questo è uno snaturamento del volontariato, perché per la croce rossa sociale c’è già la Protezione civile. Per cui non è compito del volontariato fare questo. Eppure, ormai, questo messaggio si è diffuso nell’opinione pubblica; nei mass media è passata questa idea. C’è l’emergenza terremoto, c’è lo tzunami, la risposta arriva dal volontariato, come se il volontariato fosse una Protezione civile a basso costo per risolvere questi problemi".

Ma la natura del volontariato non è questa?
"Certo che no! La natura del volontariato è quella di diffondere nella società l’idea del legame sociale e, soprattutto, di diffondere il principio di reciprocità, cioè educare alla reciprocità. Il volontariato non deve essere la manovalanza delle situazioni emergenziali. Attenzione però: non voglio dire che non lo debba fare. Ma un conto è dire che lo si fa, appunto, nelle emergenze, di tanto in tanto; un conto è ridurre la funzione a questo".
La crisi, però, ha fatto scoppiare tutta una serie di nuovi problemi sociali. È evidente che il volontariato si è mobilitato su questo fronte.
"Le nostre organizzazioni sono state risucchiate da questi problemi e il rischio è che così facendo perdano la propria bussola. Perché c’è il grosso pericolo che, quando fra uno, due, tre anni la crisi sarà definitivamente superata, la gente comune non saprà più che farsene del volontariato. E allora lo scaricherà. Ecco perché personalmente sono preoccupato, perché il rischio che si corre è esattamente quello della irrilevanza. Infatti alla Protezione civile succede così: quando finisce l’emergenza chi si ricorda più della Protezione civile? Nessuno, fino alla prossima emergenza, al prossimo terremoto nessuno più si ricorda. Ora ridurre il volontariato a una sorta di Protezione civile sociale è un errore gravissimo".
Quali strategie mettere a punto e adottare, come far sì che le nostre associazioni di volontariato non
scivolino in queste sabbie mobili e riescano a dribblare questo rischio che lei adombra all’orizzonte?

"Il problema è quello di non ridurre l’agire del volontariato soltanto agli sms che adesso vanno di moda; e di far credere ai volontari che quella è la loro mera funzione".
Ma questa è un’eccezione che durerà quel tanto che deve durare. Non è questo il nostro compito?
"No, assolutamente no. Per essere più chiari: è ovvio che se c’è un’emergenza bisogna spegnere il fuoco. Facciamo anche un esempio per evitare fraintendimenti: io faccio il professore, ma quando a casa c’è da far da mangiare, lo faccio io. Ma se uno mi dovesse dire “tu fai da mangiare sempre”, rispondo no, perché tradirei la mia vocazione, che è quella di fare lo studioso e non il cuoco. Certo questo non esclude che cucini, quando ci sia da cucinare, non mi vergogno e anzi sono ben lieto di farlo. Ma non è la mia attività, non è la mia inclinazione. La stessa cosa vale per il volontariato: è ovvio che di fronte all’emergenza si deve intervenire, però un conto è dire questo e un conto è che quella sia la funzione del volontariato. Se così fosse il volontariato tradirebbe quello che è il suo mandato. La missione del volontariato non è quella di sostituire oppure di scalzare la Protezione civile. Non per nulla, se andiamo in tutti i Paesi del mondo, notiamo che c’è la Protezione civile e dipende dal Governo, non è una iniziativa spontanea della società civile, come invece lo è il volontariato tout court".
Cosa deve fare allora in concreto il mondo del volontariato milanese per non tradire la sua attitudine?
semplice. Non dovete stancarvi di ripetere questi concetti. Di più: dovete scriverli, avete il dovere di sottolinearli nelle vostre dichiarazioni. Perché, a volte, vi dimenticate. Date per scontate queste riflessioni che ovvie non lo sono. Dovete ogni volta che intervenite nelle emergenze dire che questa è una situazione emergenziale: noi interveniamo perché siamo persone responsabili, però non è questa la nostra vocazione. Perché la nostra vocazione è quella di diffondere il principio di reciprocità e creare legami sociali. Questa è la missione specifica del volontariato. Non è quella di sostituire né l’ente pubblico né l’ente privato".
In sostanza, il suo invito è quello che le nostre associazioni non si stanchino di annunciare la loro missione.
"Basta dire che l’emergenza è l’eccezione che non è la vostra missione. Perché il vostro mandato è quello di lavorare giorno per giorno negli ambienti di vita dove operate perché si diffondano i legami sociali. Come farlo, dipende poi dalle capacità dei singoli e dalle specificità delle singole associazioni. Per esempio, un’organizzazione opera in un quartiere di Milano, oppure in una grande comune dell’hinterland, oppure ancora in un piccolo paese di provincia, ecco che allora cambiano le forme di operare, ma il principio non muta. Piuttosto cambiano i modi per realizzare il legame sociale e per realizzare la cultura della reciprocità, ma l’obiettivo resta lo stesso".
Alla luce di questa riflessione, secondo lei, di che cosa ha bisogno soprattutto il volontariato oggi?
"Di una cosa semplicissima, ma allo stesso tempo molto impegnativa. I volontari bisogna mandarli a scuola di reciprocità. Che vuol dire? Significa che non si può pensare che un’associazione di volontariato sia basata soltanto su uno spontaneismo di tipo emozionale. Ecco perché ai volontari bisogna fare lezione. Io faccio sempre questo esempio: a chi vuol diventare prete lo si fa studiare sei o sette anni in seminario; gli insegnano teologia, filosofia, psicologia, esegesi ecc. Con ciò intendo rimarcare che non basta che una persona affermi “io ho la vocazione di fare il prete e mi fate diventare prete”. Così come non può essere sufficiente che una persona dica “io ho la vocazione di fare e lo faccio”. Questa è una strada di corto respiro. Se vuoi fare davvero il volontariato devi metterti a studiare. Cosa vuol dire studiare? Non vuol certo dire studiare per superare l’esame, ma significa acculturarsi. Purtroppo ci sono dei volontari che ancora confondono il principio di reciprocità con il principio dello scambio; che non sanno distinguere tra dono come regalo e dono come gratuità, eccetera".
Lei dipinge un quadro nero. La situazione sembrerebbe grave. In altri Paesi non è cosi?
"Oggi c’è troppa informazione e c’è una carenza gravissima di educazione. L’informazione è utile, ma non basta. Se una persona vuole far parte di un’associazione, bene, sappia che deve accettare di tornare a “scuola”; una scuola ovviamente “sui generis”. Sono fermamente convinto che occorre che i volontari si mettano a “studiare”, a pensare, che frequentino certi ambienti. Dopotutto è quello che si è sempre fatto in ambito partitico, associazionistico, politico. Si è sempre fatto così, perché non si è parte di un qualsiasi ente se non si ha la conoscenza dei fondamenti ad ampio raggio. La stessa cosa deve valere per il volontariato".
Chi è allora il vero volontario: è anzitutto una persona che si sottopone a un massiccio programma di studio?
"Sì. Perché se non si studia non ci può essere capacità di educare alla reciprocità. Solo attraverso lo studio le persone diventano libere. Libere dall’ignoranza, dal condizionamento, dalle manipolazioni. Io ho iniziato a fare volontariato all’età di 14 anni. La mia fortuna è stata quella di avere avuto maestri che mi hanno insegnato a studiare. Oggi occorre avere il coraggio di porre le seguenti condizioni: sei libero di entrare in questa associazione, però sappi che devi studiare. Invece, purtroppo, stà passando l’idea secondo cui le associazioni debbano prendere chiunque. Questa è la distruzione del volontariato".
Eppure a Milano è ormai attivo da anni un ventaglio di corsi di formazione per i volontari.
"Vanno bene. Ma non bastano. I corsi di formazione insegnano le cose base, come quando si va a prendere la patente. Sono soltanto l’abc. Non sto dicendo che non ci vogliono, sostengo che non sono sufficienti. Io parlo di scuola vera e propria. Una volta i partiti, fino a circa 20 anni fa, avevano le scuole di partito. Quando le hanno chiuse si è vista la degenerazione che ha assunto la politica. Allora il volontariato deve fare le sue scuole, perché solo così viene fuori la nuova leadership".
Le persone oggi sono disposte a investire le proprie energie in questo tipo di percorso?
"Sicuramente. E lo posso dire con certezza, perché per ragioni professionali giro parecchio l’Italia. Sostengo da tempo che se si facessero scuole vere e proprie di volontariato arriverebbero in tanti. Tenete conto che sono molte le persone dotate e generose che purtroppo rimangono deluse dalle esperienze che hanno vissuto nelle associazioni. Bisogna evitare che nel volontariato si inneschi un processo di selezione avversa, un processo che tende ad attrarre solamente i meno dotati sotto il profilo intellettivo. Basta pensare al volontariato come una sorta di “dopolavoro ferroviario” dove la gente va, parlotta, fa qualcosa pure di buono ma senza una strategia precisa. Oggi più che mai, in un mondo sempre più complesso, dobbiamo ritornare a un concetto forte e alto di azione gratuita".
Queste sue tesi nascono dalla sua esperienza a capo di un’ONG a livello mondiale con sede a Ginevra la ICMC (International Catholic Migration Commission)?
"A Ginevra chiamavamo i maggiori esperti a livello mondiale e le persone venivano e si “divertivano” e, soprattutto, venivano considerate e apprezzate per le loro caratteristiche. I volontari hanno sete di conoscenza, la chiedono. E non si può non offrirgli nulla. Anche la gente comune ha fame di conoscenza. Prendiamo in considerazione le università della terza età, sono piene di persone. Questo vuol dire che c’è domanda di conoscenza e quindi occorre soddisfare questa richiesta. Bisogna ricordarsi che la forma più alta di carità - come ricordava Antonio Rosmini - è la carità intellettuale: far arrivare all’altro - soprattutto al povero, all’indifeso, all’umile - un pensiero che sappia indicargli una via. Nel nostro Paese, la fame più preoccupante, oggi, non è quella di pane, ma di pensiero".
Ma ci sarebbero docenti disposti a impegnarsi in queste scuole, disposti a fare un percorso con i volontari?
"Se ci fosse questo tipo di richiesta sono convito che molti sarebbero coloro che sarebbero disposti a mettersi in gioco. Ma se non c’è la domanda mai ci sarà l’offerta. I Centri di servizio potrebbero essere i primi e più importanti aggregatori di una tale domanda. Nella Caritas in veritate, Benedetto XVI ha scritto: “Il mondo oggi soffre della mancanza di pensiero”. Mica ha scritto “mancanza di risorse!”. Come sappiamo c’è il pensiero calcolante e il pensiero pensante. Noi difettiamo, oggi, del primo; è del pensiero che dà la direzione, cioè del pensiero pensante, che c’è oggi grande bisogno. E questo vale anche per il volontariato: la expertise, la professionalizzazione, e l’acquisizione di tecniche organizzative raffinate vanno certamente bene , ma quando tutto ciò avviene a spese del pensiero pensante, le degenerazioni sono dietro l’angolo. E infine, ma non da ultimo, nell’universo del volontariato c’è da affrontare il problema delle pari opportunità…"
Cioè anche nelle associazioni, come in politica, bisogna aprire alle quote rosa?
"Rispondo anzitutto con un quesito: perché nel volontariato i dirigenti sono in prevalenza uomini? In Norvegia nel 2006 è stata approvata una legge che obbliga le imprese private quotate in borsa a destinare almeno il 40% dei posti del Consiglio di Amministrazione alle donne. Sarebbe una bella rivoluzione se una norma sociale del genere fosse inserita negli statuti delle organizzazioni di volontariato."

Il microcredito sta risollevando il Guatemala

I volontari di Ains al ritorno dal loro viaggio raccontano i segnali di ottimismo.

Il microcredito è un germoglio che lentamente fiorisce e porta frutto. Soprattutto è la strada giusta per un sostegno che non sia “una tantum” ma che aiuti la gente guatemalteca a costruirsi un futuro in autonomia senza dover costantemente sperare in stampelle amiche ma pur sempre forestiere. E’ questa la consapevolezza con la quale sono rientrati in Italia i volontari di Ains, l’associazione pavese che da anni opera in Guatemala, dopo una permanenza di quindici giorni, dal 2 al 18 ottobre. Il gruppo era formato dal presidente Ruggero Rizzini, dalla volontaria Veronica Heredia (con padre guatemalteco) e da Filippo Ticozzi e Nicola Grignani, che da questa esperienza trarranno un documentario per illustrare la giornata di un bambino del Guatemala. Per questa ragione i due registi pavesi hanno condiviso completamente la vita della gente, risiedendo e pernottando in un villaggio di dodici famiglie che li hanno accolti con grande entusiasmo e che hanno consentito loro di superare in scioltezza gli inevitabili disagi dovuti alla povertà del luogo. “Chiaramente il Guatemala è un Paese che esce da guerre, violenza e situazioni di precarietà politica, con tutto ciò che ne consegue –spiega Rizzini- ma questa volta veramente è giusto porre l’accento sulle tante realtà positive che abbiamo colto e che consentono alla gente di guardare al futuro con speranza”. L’icona di questa sensazione di ottimismo –come sottolinea lo stesso Rizzini- è rappresentata dalle quattro donne dell’Aldea di Conacaste, vicino a El Rancho che da anni è sostenuto da Ains, che usufruendo del microcredito iniziarono la loro attività commerciale con un piccolo allevamento di polli e oggi sono state in grado di restituire il prestito richiedendo un altro microcredito per estendere l’allevamento anche ai maiali. “Ora riescono a trattenere per sé il corrispettivo di cinque euro al giorno con cui si pagano la giornata lavorativa –commenta Rizzini- inoltre in sedici mesi hanno messo da parte 50.000 quezal, che sono cinquemila euro (una cifra sostanziosa per il Guatemala) e sono in grado di iniziare anche produzione e commercio di shampoo. L’aspetto veramente esemplare è che stanno creando anche un fondo sociale per sostenere la comunità e questo la dice lunga sullo spirito di mutuo aiuto che si è creato”.
Sulla scia del gruppetto appena citato anche altre dieci donne si sono unite per produrre caffè di soya, sempre grazie al microcredito e i primi segnali sono già incoraggianti.
Nell’aldea di Colmenas, invece, dove la “squadra” di Ains ha avuto l’onore di gustare pane e pesce prodotti in loco grazie al microcredito, è stato lo stesso sindaco don Jesus a mettersi in moto chiedendo un prestito di 150 euro per iniziare la coltivazione dei fagioli. Un solo raccolto ha già portato un guadagno di 450 euro, con cui ha ripagato il prestito e reinvestito per la comunità.
Adesso Ains guarda avanti e si sente pronta per due passi veramente importanti. Il primo è la realizzazione di un centro nutrizionale affinchè i bambini possano essere debitamente curati da nutrizionisti, medici e infermieri e presso cui possa anche essere fatta formazione alle donne per aiutarle in una impostazione alimentare più corretta per i loro figli. Ci sarà spazio anche per una farmacia popolare e per una mensa dove i più indigenti (soprattutto soli e anziani) possano almeno trovare un piatto di riso e fagioli per sopravvivere. Cinquantamila euro il costo totale della struttura, suddivisa in due piani, trentamila sono già disponibili grazie ad Ains e quindi i lavori partiranno a breve anche grazie alla collaborazione con l’Ordine degli Ingegneri di Pavia che ha dato piena disponibilità a seguire progettazione ed esecuzione.
L’altro grande passo è l’ipotesi
di farsi carico legalmente della Casa di Accoglienza per minori di Mazatenango, che Ains sostiene economicamente già da anni. La struttura toglie letteralmente dalla strada le bambine vittime di violenze e sorprusi vari e consente loro di studiare e di effettuare tirocini lavorativi per rendere possibile il loro reinserimento nella comunità al raggiungimento della maggiore età.Stiamo valutando attentamente l’ipotesi –conclude Rizzini- quel che mi sento di dire è che dopo dodici anni di presenza in Guatemala ci sentiamo pronti per questi passi che sarebbero un ulteriore contributo alla conquista dell’autonomia da parte della gente guatemalteca.

Daniela Scherrer

"...e poi la dignità, la grande dignità di queste persone....": intervista a Filippo Ticozzi

Da pochi giorni sei tornato dal Guatemala dove hai lavorato ad un documentario destinato ai bambini delle scuole elementari e medie della provincia di Pavia. Puoi raccontarci l'esperienza progettuale ed umana che hai vissuto?
"L’esperienza è stata ottima. Premetto che andare lontani da casa non per turismo è sempre una lezione. Il viaggio, l’incontro, insegna sempre. Dal punto di vista umano è stato, ma dico una banalità, una ricchezza vera e propria. Un mondo mille miglia lontano dove ritrovare problemi che noi consideriamo sorpassati o, semplicemente, ignoriamo: la povertà estrema, i pochi mezzi, come l’assenza di elettricità e di acqua corrente, la fatica di bimbi e adulti per sopravvivere. E poi la dignità, la grande dignità di queste persone. Dal punto di vista progettuale mi sono trovato benissimo: AINS ha puntato sul documentario per la terza volta e, come sempre, ha lasciato molta libertà nella realizzazione."
Per realizzare le riprese insieme a Nicola Grignani avete soggiornato 24 ore
nella comunità di El Poshte, 12 famiglie a circa un ora di strada, sulle montagne, da El Rancho. Come è stata l'esperienza di una giornata con loro?
"Questo è uno dei motivi per cui ringrazierò sempre il documentario. Solo facendo questo mestiere si vanno a cercare cose che altrimenti verrebbero tralasciate (perché rimuovere è una delle attività preferite d’oggi). E si aprono varchi. E’ stato interessante vedere come vivono, cosa fanno. Ma più di tutto è stato importante sentire, e sottolineo sentire, il ritmo della loro vita, della loro giornata. Dimenticarsi l’ora e cenare quando imbrunisce Perchè dopo è tutto più difficile. Incontrare insetti indicibili sotto il tuo letto prima della notte, e poi non poterci fare più nulla a causa del buio (per inciso: non mi hanno fatto nulla). Rumori sconosciuti. L’alba che porta la vita. Il ritmo del loro vivere ci ha dato la misura della loro integrità. Ma è difficile da spiegare. Ci siamo scordati ad un certo punto dei luoghi comuni che avevamo in testa, Nicola ed io, nonostante la nostra vita sia intrisa di viaggi. Luoghi comuni che tutti hanno nel profondo, dentro. E abbiamo cominciato a non farci più domande. Un esempio dei più banali è che non c’è sporcizia, non ci sono malattie, c’è solo un
modo differente di andar incontro a queste cose, fronteggiandole con mezzi diversi ma con grande attenzione."
Quanto è difficile riprendere il quotidiano di una o più persone che vivono in una realtà fatta di povertà, mancanze e disagio sociale senza scadere nel compassionevole?
"Prima di tutto devo dire che è sempre difficile riprendere la vita della gente, al di là della classe, della nazionalità, tipo, ecc. La camera rivela, accusa, ma è anche maleducata, opportunista... e poi è molto fastidiosa. E’ sempre una piccola violenza riprendere le persone, anche se gli “attori” accettano il patto. Questo risulta ovviamente più difficile in condizioni di disagio, anche se solitamente sono molto più gentili i diseredati degli “altri”.... Ma l’idea di fare gli avvoltoi, di sfruttare le immagini per il proprio egoismo, per il proprio voler “fare film” è forte. Ne parlavamo spesso, Nicola ed io, ci sentivamo un po’ a disagio, nonostante fossimo i benvenuti. Non c’entra la causa, i buoni propositi, che qui erano assoluti: è proprio qualcosa di immanente al filmare."
Quanto bisogno c'è di documentare il sociale?
"Questa è una domanda complessa…. Diciamo che documentare forse è inutile. Bisogna creare un linguaggio che discuta il sociale, che lo faccia riecheggiare."

Cena benefica a San Martino per il Guatemala

Quattromilasettecento euro al netto delle spese. Una cifra veramente alta quella raccolta da un gruppo di amiche di Ains, che il 18 ottobre ha organizzato una cena a inviti in favore dell’associazione che opera in Guatemala. L’iniziativa è davvero meritoria, anche perché ha visto il coinvolgimento di tante persone il cui impegno ha portato al risultato importante suddetto: dalle amiche –impegnate come Gruppo nel garantire un certo numero di adozioni scolastiche- che si sono rimboccate le maniche ai fornelli con risultati ottimi ai volontari del Centro Socio Culturale Sabbia di San Martino che si sono prodigati in mille modi fino al Comune di San Martino sempre molto sensibile al discorso solidaristico e ai numerosi negozi che con la loro generosità hanno consentito di allestire una sottoscrizione a premi di tutto rispetto.
E’ ancora una volta la testimonianza che l’unione fa davvero la forza, soprattutto nell’ambito del volontariato dove le gocce di impegno garantiscono quel mare di bene che nella fattispecie ha preso forma in una cifra ingente da investire in Guatemala. Prossimo appuntamento per le amiche benefiche di Ains il 5 dicembre alla sala Broletto per la presentazione de “Il cappellino color porpora – L’Agenda dell’anno che verrà” realizzata con le foto di Elisa Moretti (una delle amiche) e zeppa di sorprese che naturalmente verranno svelate a tempo debito. Il ricavato andrà ancora all’Associazione.

Daniela Scherrer

Ecco l'elenco di chi ha aiutato il gruppo.
Negozi: Pellicceria Annabella, Boutique Cortesi, Ermenegildo Zegna, Poggi
fiori e piante, farmacia Pedotti, Pesci, Arte Fiorentina, Profumeria Baggini,
parrucchiere Ferrato, Gastronomia Roscio, Janco, Ortopedia Rapetti, Libreria Feltrinelli, Musei Civici Pavia,
Le persone che hanno contribuito donando loro opere, ceramiche, quadri o
ingrandimenti fotografici, L. Guizzetti,P. Di Leo, R. Venegoni, E, Moretti, R.
Tallarico, G. Brusa, A. Belloni, M. Destro, L. Ratta. A. Franco.

Festival dei Diritti, quest’anno il tema è la salute a 360 gradi

Il diritto alla salute, considerato nella sua accezione a trecentosessanta gradi e non solo come assenza di malattia, è il filo conduttore della quarta edizione del Festival dei Diritti che si snoderà per tutto il mese di novembre partendo dal Cinema Corallo alle ore 21.00 del 3 novembre con la rassegna cinematografica MotoSolidale curata da Roberto Figazzolo e Filippo Ticozzi. Un evento ormai collaudato e sempre più articolato quello promosso dal Centro Servizi Volontariato della provincia di Pavia in collaborazione con la Consulta Comunale del Volontariato e con il patrocinio di Regione, Provincia, Comune e Asl. Ma il dato veramente eclatante riguarda la capacità di allestire un calendario di iniziative composite e per tutti i gusti, che per un mese consentiranno di fare informazione e formazione sulla salute, potendo contare su un budget limitato (diecimila euro) ma sulla volontà delle trentacinque associazioni coinvolte. Molte di esse si sono infatti autofinanziate per essere presenti nel calendario e sottolineare l’importanza del tema affrontato. Lo ha sottolineato la responsabile del Festival, Alice Moggi, aggiungendo che la partecipazione a tutti e venticinque gli eventi sarà gratuita per il pubblico. Passando in rassegna rapidamente il calendario (consultabile in forma integrale sul nostro sito www.ilticino.net o su www.csvpavia.it) spicca la rassegna cinematografica MotoSolidale che porta a Pavia film di alta qualità inseriti in circuiti di nicchia e spesso quindi non accessibili al grande pubblico: inquinamento, morte, emarginazione e guerra saranno gli argomenti presentati sul grande schermo con particolare attesa per “La bocca del lupo”, il 17 novembre alle 21.00 al Corallo, finanziato dai Gesuiti e incentrato sulla storia di due ex-carcerati che sognano attraverso il loro amore un futuro migliore.
Molti altri sono naturalmente gli appuntamenti di grande interesse, a partire dall’importanza della donazione del cordone ombelicale fino ai momenti per la famiglia al completo e agli incontri in concomitanza con la Giornata contro la violenza alle donne e contro il Parkinson.
Il Festival è stato presentato presso la sede del Csv, alla presenza del presidente Pinuccia Balzamo, dell’assessore provinciale Annita Daglia, dell’assessore comunale Marco Galandra, del presidente del Collegio Ipasvi Enrico Frisone e naturalmente di Alice Moggi, che ha fatto gli onori di casa.
Il Festival ha come obiettivo quello di portare alla ribalta della città questa sorta di mondo parallelo che è il volontariato -ha commentato Pinuccia Balzamo- e che spesso agisce in silenzio coprendo bisogni enormi difficili da percepire”. E l’assessore Daglia ha aggiunto che “il Csv si connota ancora una volta come locomotiva che traina una serie enorme di vagoni, che rappresentano le associazioni di volontariato. Un ruolo importantissimo nella difesa dei diritti, soprattutto quello alla salute e alla famiglia che ritengo i prioritari”. L’assessore Galandra ha ribadito l’importanza delle 35 associazioni coinvolte, segno che a Pavia il volontariato è veramente ben radicato”, mentre il presidente del Collegio Ipasvi Enrico Frisone ha ricordato l’importanza per gli infermieri di accostarsi alla realtà del volontariato. Già questo accade grazie all’associazione Ains, ma si pensa al potenziamento che prenderà forma ufficialmente lunedì 29 novembre al Csv con la presentazione del progetto “Scambio professionale e culturale tra organizzazioni di cooperazione interpersonale e Collegio Infermieri”, a cura di Ains, Comitato Pavia Asti Senegal, Italia Uganda, Fildis e Collegio Ipasvi. Il Collegio stimolerà e sosterrà anche economicamente quei colleghi che desiderano vivere esperienze di impegno umanitario all’estero.

Daniela Scherrer

La famiglia è il luogo dove esplodono le nuove povertà

Il direttore della Caritas pavese don Dario Crotti
Povertà in ribasso o in crescendo? La Caritas diocesana, per voce del suo responsabile don Dario Crotti, si allinea sulla seconda posizione e lo fa snocciolando numeri inconfutabili.

Don Dario, partiamo dal microcredito, che può essere considerato una stampella per venire incontro alle nuove povertà. Le cifre sono specchio di una situazione di difficoltà per molte famiglie...
Sì, il microcredito punta ad aiutare fasce di persone che non costituiscono il cosiddetto “zoccolo duro della povertà” e che non avevano mai bussato prima alle porte della Caritas; concede infatti prestiti alle famiglie in difficoltà che devono garantire il diritto allo studio ai figli oppure che si trovano a dover fronteggiare emergenze sanitarie o spese straordinarie per la casa. Soltanto a Pavia abbiamo ricevuto 83 richieste di colloqui da giugno dell’anno scorso e 20 dall’inizio del 2010. Direi che sono numeri rilevanti e costituiscono il reflusso grosso della crisi economica ormai perdurante”.
Si tratta di famiglie prevalentemente straniere o italiane?
Per il 60% straniere e per il 40% italiane, a testimonianza di come il crescendo di povertà sia un fattore trasversale. E sottolineo che -per gli stranieri- si tratta di famiglie regolari, già integrate in cui si registra la perdita del lavoro di uno dei due coniugi oppure casi di donne che hanno a carico i figli perchè il marito non c’è più o non è mai arrivato in Italia. Prima riuscivano a cavarsela, ora è diventato impossibile sostenere il carovita”.
Quali sono i problemi che contraddistinguono queste famiglie di nuovi poveri?
Innanzitutto la perdita del lavoro, poi le separazioni e anche la dipendenza dal gioco d’azzardo. Vorrei anche ricordare i casi numerosi di famiglie che cercano di seguire gli stili di vita tanto propagandati dai media e concretamente non realizzabili perchè il passo è molto più lungo della gamba. Se acquisti tutto a rate, ad esempio, verrà inevitabilmente il momento che non riesci più a farcela. Ecco perchè accanto all’aiuto materiale è fondamentale per noi portare avanti la cosiddetta sfida educativa, ossia il discorso della sobrietà e di una vita commisurata alle proprie disponibilità finanziarie”.
E la prevenzione?
E’ ovviamente fondamentale. Bisogna partire già dalla scuola a insegnare il corretto stile di vita e questo vale anche nel processo di integrazione degli stranieri. Altrimenti si rischia di creare persone fragili, che diventano anche vittime dei tanti specchietti per allodole creati ad arte un po’ da tutti, come ad esempio il famoso WinforLife”.
Che cosa viene richiesto essenzialmente a voi operatori della Caritas?
Su tutto il lavoro e la casa. Metterei il lavoro al primo posto assoluto, considerando i tantissimi curriculum che ci arrivano ogni giorno anche da parte di chi ha ottime specializzazioni ma ugualmente è considerato un precario o un esubero per il mondo del lavoro. Anche questa è una forma di povertà: creare insicurezza ai giovani nel progettare il proprio futuro”.
Ha parlato prima del cosiddetto zoccolo duro della povertà pavese. Quello rimane e non si riduce...
Quello purtroppo rimane sempre e rappresenta la forma più grave di emarginazione da parte di chi ha bisogno di tutto, a partire dai generi di prima necessità. Basti pensare che la Mensa del Povero e la Mensa del Fratello accolgono ogni giorno dalle ottanta alle novanta persone e che il dormitorio del Comune di Pavia è sempre affollato".
E la famosa forbice ricchi e poveri?
La mia sensazione è che si stia allargando sempre di più. oggi è davvero tanto il divario tra i pochi che possono concedersi il massimo del lusso e i tanti che non hanno il necessario per vivere e per garantirsi i beni di prima necessità

Daniela Scherrer

Non possiamo ridurci soltanto a distributori automatici di beni

Parlano alcuni sacerdoti responsabili delle Caritas parrocchiali

Ai centri di aiuto della Caritas in Italia bussano ogni giorno per avere soldi, vestiti e cibo oltre mille persone. La situazione è ormai pressante anche nelle sedi parrocchiali della Caritas diocesana, prese d’assalto nelle loro aperture settimanali con una modalità che spesso induce gli stessi sacerdoti a interrogarsi sull’opportunità di qualche modifica. L’aspetto messo in risalto è soprattutto uno: aprire le porte indistintamente a tutti rischia di premiare chi è più spregiudicato e di svantaggiare chi invece ha realmente bisogno ma con dignità resta chiuso nel suo nascondimento.
Di questo parla apertamente don Antonio Razzini, parroco a Mirabello, una delle comunità storicamente più aperte all’aiuto verso i bisognosi grazie alla Caritas parrocchiale e al Gruppo Vincenziano che sostiene una settantina di famiglie. “Sia ben inteso, noi non vogliamo rinunciare a dare aiuti -spiega don Antonio- ma organizzarci per poter servire meglio e soprattutto venire incontro a chi ha realmente bisogno. Abbiamo anche discusso di questo con l’assessore comunale ai servizi sociali Sandro Assanelli e con altre Caritas parrocchiali: penso che sia fondamentale una mappatura della povertà reale a Pavia e un’opera di coordinamento dei nostri interventi”.
Il rischio altrimenti è quello -ribadisce don Antonio- di avere persone che usufruiscono di tutte le mense e girano ogni Caritas parrocchiale nei rispettivi giorni di apertura creando una sorta di “turismo dell’aiuto” a svantaggio degli altri. Chi troppo, chi niente: è questo insomma il pericolo.
Non possiamo essere considerati alla stregua di un distributore automatico di beni -spiega ancora don Antonio- nel senso che bussi alla porta e ti vengono dati cibo o vestiti secondo richiesta, anche perchè ogni bisognoso è un caso a sè che va analizzato nella sua globalità. E soprattutto non possiamo più pensare solo a questa forma di aiuto per gli extracomunitari quando ormai il bisogno è diventato comunitario e interessa famiglie senza lavoro che hanno però tanta dignità e non vengono a bussare alle porte. I nostri volontari ad esempio sono a conoscenza di alcune situazioni e portano a domicilio il necessario”.
Chi ha recentemente fondato la Caritas parrocchiale è don Vincenzo Migliavacca, alla Sacra Famiglia, con una laica -Lucia Colombo- come responsabile. Il gruppo collabora con i volontari vincenziani. “Lo abbiamo fatto perchè le tre realtà che ci aiutano per gli alimenti (Banco Alimentare, Carrefour e La Torretta) vogliono avere come interlocutore la Caritas parrocchiale. Noi li ringraziamo perchè ci sostengono fortemente anche in virtù della nostra fedeltà nel ritiro della merce. Addirittura ci siamo dotati di un locale apposito igienicamente a norma e di celle frigorifere per poter meglio conservare i prodotti da distribuire. La carità -se fatta bene- costa in termini di finanze, di tempo e di impegno. Ringrazio i miei volontari che sono un tesoro prezioso, addirittura mi vien da dire che servirebbero dei dipendenti per garantire oggi la carità a tutti coloro che hanno bisogno”.
Don Vincenzo conferma che la povertà è in aumento e lo verifica ogni mercoledì quando apre le porte della distribuzione e trova la fila. “Sono circa settanta le famiglie che aiutiamo, c’è uno zoccolo costante che ormai conosciamo e altre che si aggiungono oppure che magari non vengono più perchè hanno risolto parzialmente le loro difficoltà -commenta il parroco della Sacra Famiglia- certamente si percepisce il bisogno e la Caritas può farlo meglio dell’Istat semplicemente perchè l’Istituto Nazionale non annovera tra i poveri gli irregolari. Noi invece apriamo le porte a tutti, senza chiedere permessi di soggiorno”. Anche don Vincenzo sottolinea l’esigenza di andare oltre alla semplice erogazione di alimenti. Proprio per questo i volontari a volte vanno a domicilio a verificare l’effettivo stato di indigenza di chi chiede aiuto, ma anche per aprirsi al dialogo e all’ascolto dei bisogni per una semplice parola di conforto che in certe occasioni vale almeno quanto una borsa della spesa.

Daniela Scherrer

Anche a Pavia è attiva la Ronda della Carità:giovani per i bisognosi

Anche a Pavia, grazie all’impegno di circa 20 volontari, funziona da quasi sei anni la “Ronda della Carità”. Nata a Firenze circa 7 anni fa con il desiderio di dedicare parte del proprio tempo di vita a quegli uomini e donne che vivono in una situazione di grande povertà la “Ronda” assiste, sostiene e si prende cura dei barboni e di tutti coloro che vivono la propria vita ai margini della strada. La “Ronda” si è diffusa in altre città, tra queste anche Pavia, con l’intento di andare “sul campo” oltre i confini di una semplice mensa per i poveri.
“Il nostro punto di riferimento a Pavia è la stazione ferroviaria”, ci spiega il responsabile pavese Andrea Dentali, “il martedì e il giovedì dalle 19.30 alle 21.00 distribuiamo cibo (soprattutto pane e focaccia) e indumenti ai bisognosi. L’approccio è diretto e informale, secondo i crismi voluti dall’idea originaria di questa iniziativa; il gruppo di volontari è composto da giovani, con l’aggiunta di tre pensionati che da tempo ci affiancano in questo servizio. Recuperiamo cibo dalle panetterie, alimenti che a fine giornata andrebbero buttati e li distribuiamo ai bisognosi”.
Chi sono i poveri ai quali distribuite cibo e indumenti?
Alcuni sono coloro che alloggiano al dormitorio, altri sono senza fissa dimora che dormono per strada. Abbiamo deciso di essere presenti in orari diversi da quelli delle mense tradizionali poiché esiste una fascia di persone che è reduce da piccoli lavori a giornata e arriva in serata; le persone che serviamo possono consumare il cibo al momento o portarlo via per consumarlo successivamente. Per ciò che concerne gli indumenti avendo il polso della situazione e conoscendo bene chi viene a chiedere vestiti possiamo orientarci con i capi di cui maggiormente si ha bisogno e che quindi devono essere da noi reperiti”.
Quali sono le cifre del bisogno? Quante persone in media chiedono aiuto alla Ronda?
Abbiamo uno “zoccolo duro” di venti persone che conosciamo bene e ci chiede aiuto tutte le settimane e circa altre venti che invece ruotano e si presentano a regolari intervalli di tempo. Non possiamo trarre conclusioni sul trend di povertà e sulle tipologie di poveri (giovani, donne, uomini…), di certo abbiamo notato negli ultimi due anni è aumentata la percentuale di italiani tra i poveri che ci chiedono aiuto”.

Matteo Ranzini

“Vi racconto il mio Kenya nelle baraccopoli”

Nel mese missionario l’esperienza del comboniano padre Paolo Latorre, ospite a Pavia

Ottobre è tradizionalmente il mese missionario. E sono importanti le voci dei padri missionari che nelle varie parti del mondo hanno deciso di operare donando la loro vita. E’ stato così anche per padre Paolo Latorre, origini pugliesi, da undici anni missionario comboniano a Korogocho insieme a padre Stefano Giudici (che ha studiato all’Università di Pavia) e padre John Webootsa. Korogocho è una delle tante baraccopoli alla periferia di Nairobi, in Kenya. In precedenza Latorre aveva trascorso tre anni di studio e lavoro in Congo, prima di far ritorno in Italia per dedicarsi ai giovani a Lecce e a Bari. Padre Latorre è stato a Pavia per una giornata intensa che lo ha portato alla mattina ad incontrare circa trecento studenti dell’Istituto Volta, mentre nel pomeriggio ha fatto visita al Vescovo mons. Giovanni Giudici e successivamente ha celebrato la Messa a San Michele prima di partecipare alla serata promossa al Collegio Santa Caterina da Associazione Ad Gentes, Azione Cattolica, Casa del Giovane, Caritas, Collegio Santa Caterina, Pax Christi e Ufficio Missionario Diocesano
Padre Paolo, la sua è una vocazione missionaria adulta. Come è maturata?
Da studente avevo scelto di prestare opera di volontariato, così ogni anno nelle vacanze andavo al Cottolengo di Torino per dare il mio contributo di aiuto. Questa esperienza, insieme ad altre che si sono verificate nel mio percorso di maturazione, ha cominciato a far nascere in me la vocazione. Scelta che si è consolidata durante gli studi universitari, quando frequentando la facoltà di filosofia ho “incontrato” il pensiero antropologico di Daniele Comboni. Mi è rimasto impresso il suo “Salvare l’Africa con l’Africa” e ho deciso di provarci anch’io”.
Ora dopo undici anni che ha “toccato con mano” la realtà africana è ancora convinto di quanto diceva Comboni?
Sì, Daniele Comboni aveva capito quanto fosse importante chiedere al mondo di fare attenzione ai problemi dell’Africa e anche puntare sulla formazione degli africani: qualcosa che va oltre il semplice aiuto di un momento. La nostra missione comboniana in Kenya è nata nel 1990, esattamente vent’anni fa, e sempre ha avuto questi due capisaldi”.
Com’è l’Africa da raccontare a chi non l’ha mai vista?
Innanzitutto va smantellato un pregiudizio: l’Africa non è povera, ma impoverita. Ci sono dati ormai tristemente noti. Prendiamo ad esempio il Congo: è una miniera di coltan (contrazione di columbite-tantalite), elemento essenziale nell’industria elettronica e dei semiconduttori per la costruzione di condensatori ad alta capacità e dimensioni ridotte che sono largamente utilizzati in telefoni cellulari e computer. La sua ricchezza diventa però anche la sua grande povertà, dal momento che le multinazionali importano il coltan estratto in Congo senza scrupoli, ai prezzi che vogliono, largamente inferiori ovviamente a ciò che sarebbe equo. E quando Padre Joseph Kabila chiese alle multinazionali di trattare il prezzo in maniera più giusta è stato ucciso”.
E il Kenya?
Il Kenya riveste innanzitutto una posizione strategica a livello militare, far scoppiare lì una guerra significherebbe acquisire una sorta di portaerei sull’Oceano Indiano e anche destabilizzarlo creando una situazione ancora peggiore di quella in Somalia. Inoltre la grande piaga è quella dello sfruttamento della prostituzione minorile. Purtroppo Malindi non è solo famosa per le sue coste splendide, ma anche per essere la seconda meta mondiale di turismo sessuale dopo Taiwan”.
Anche Nairobi vive il grande conflitto di un centro moderno e di una periferia all’insegna delle baraccopoli?
Nairobi è una grande città che ha ben poco di africano. Si produce di tutto e si assiste a una urbanizzazione selvaggia che in Africa è paragonabile solo a poche altre città. Ma la periferia di Nairobi è in grande contrasto con il centro e trabocca di baraccopoli strapiene di gente ammassata. Korogocho è una di queste”.
Che cosa racconta alla gente nei suoi incontri quando torna in Italia?
Io non faccio incontri per raccogliere fondi, voglio raccontare alla gente come diventerà il mondo per tutti se non apriamo gli occhi in tempo. E racconto anche come operiamo noi comboniani, con iniziative che vadano al di là dell’individualismo e dalla gratificazione personale, ma chiedendo semmai di adottare un segmento di un progetto da realizzare in loco”.
Una scelta che voi preferito rispetto, ad esempio, all’adozione scolastica. Come mai?
Il riscontro emozionale legato a un’adozione scolastica è sicuramente forte per chi la effettua. Onestamente noi preferiamo ad esempio sostenere gli insegnanti, affinchè con il loro stipendio possano lavorare a Korogocho e creare una classe di giovani indigeni preparata”.
Si sente di dire che spera concretamente nel riscatto dell’Africa?
La speranza di riscatto è molto percepibile in Kenya. Le donne sono la categoria più disposta a rimboccarsi le maniche materialmente, i giovani hanno l’orgoglio nazionalista: vogliono studiare e poi restare sul posto per risollevare la loro nazione. In questo sono molto diversi dai giovani di altre realtà africane”.
E voi missionari come siete stati accolti?
La nostra attività, che ormai dura da vent’anni, è seguita con fiducia. Ed ora cominciano ad affiancarsi a noi nel portare avanti i progetti perchè ne capiscono l’importanza. Prendiamo ad esempio l’assistenza ai bambini di strada: quando vengono nei nostri centri a visitarli si rendono conto che sono molto cambiati, che non sono più quelli “fumati” di colla che creavano problemi e infastidivano”.
Fin qui l’Africa che soffre e che spera... e il volto dell’Africa che insegna a noi?
Diciamo che non c’è la competizione esasperata presente da noi e nessuno soffre di depressione... il benessere ci espone a una raffica di confronti con chi ci sta accanto e alimenta il lavoro degli psicologi. E poi a livello di fede addirittura la parola ateismo non esiste perchè comunque tutti sono certi che Dio c’è. E si chiama Mungu per tutte le confessioni religiose, a livello semantico questo ha una grande importanza perchè comunque è qualcosa di molto accomunante”.
A lei personalmente che cosa ha insegnato la vita in Africa?
Io ero un tipo piuttosto razionale e programmato. Questi anni in Africa mi hanno insegnato l’immediatezza nel vivere e nel rapportarsi con la gente. La mia giornata tipo non è quasi mai come la immagino quando mi alzo all’alba, ma viene sempre stravolta dall’improvvisazione, da qualcuno che bussa alla mia porta e mi cambia tutti i programmi. Ma va bene così...”





Daniela Scherrer

Studente disabile? Manca l’insegnante di sostegno

Cifre preoccupanti in provincia di Pavia. Troppe anche le classi dove vengono concentrati gli alunni con handicap

Studiare è un diritto. Per tutti, anche per chi è affetto da disabilità e deve essere messo nelle condizioni di poter apprendere in base alle sue potenzialità e non di restare parcheggiato dietro a un banco fino al suono della campanella. Non è così a Pavia (come non lo è in tutta Italia, del resto) e le cifre sono lì a dimostrarlo: i numeri freschissimi dell’anno scolastico 2010-2011 ci dicono infatti che nelle scuole statali della provincia di Pavia ci sono 1698 studenti disabili (di cui addirittura 854 affetti da disabilità complessa) e soltanto 673 insegnanti di sostegno. Significa uno ogni 2.5 alunni, un rapporto che in Lombardia è tra peggiori insieme a Varese e Cremona. Fino al 2006-2007 la situazione era meno preoccupante, il rapporto infatti era intorno all’1.5, poi la situazione è degenerata. Di tagli parlano ormai ovunque, però i diritti non possono e non devono essere tagliati. “Non tutte le province sono state penalizzate in egual misura -spiega Donatella Morra, referente per la scuola dell’Anffas di Pavia e rappresentante di Ledha Scuola a Milano, associazione che raggruppa una trentina di associazioni che si occupano di disabilità- chi alza più la voce viene ascoltato maggiormente in Regione”.
Dall’Anffas si leva alta la richiesta di poter garantire almeno un rapporto di 1:1, che significherebbe poter avere una cattedra delle canoniche 22 ore anche per l’insegnante di sostegno. La finanziaria del 2008 invece ha portato il rapporto a 1:2: undici ore di sostegno all’alunno disabili alle elementari, 9 alle medie e superiori. Davvero un’inezia. E il restante periodo della mattinata? Spesso veniva coperto dall’assistenza educativa messa a disposizione dal Comune -che in qualche modo compensava i tagli- adesso però parecchi comuni alla canna del gas stanno cominciando a fare marcia indietro.
Una seconda questione spinosa viene fatta rilevare da Donatella Morra: riguarda il numero di alunni disabili per classe. Fino alla riforma Gelmini la situazione era la seguente: nelle classi prime non si doveva superare il numero di venti alunni a fronte della presenza di un disabile grave o due lievi. Ora la prima parte è rimasta, ma è sparita la seconda. Il che significa che in classi di venti alunni accade che ci siano addirittura sei portatori di disabilità, con una problematica complessa per tutti. I dati dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Pavia lo confermano: trenta le classi delle scuole di primo grado con tre alunni disabili, cinque con cifre maggiori; ventisei le classi delle secondarie con tre disabili, 11 con quattro e sei con più di quattro.. In totale sono 91 le classi in provincia di Pavia che annoverano un numero di studenti disabili dai tre in su.


Daniela Scherrer

30 ottobre 2010

“Over 65”? Non sei più disabile, via dai centro diurni! Restano solo le Rsa

Dopo i sessantacinque anni di età praticamente il disabile non esiste più in quanto tale. Per lui si chiudono le porte dei centri diurni, che sono molto spesso la soluzione più idonea, e si aprono quelle delle Rsa. Una istituzionalizzazione che rischia di avere effetti devastanti su tutti: sul disabile innanzitutto, ma anche sulla famiglia e sugli altri ospiti della Rsa, oltre che sul personale che si trova di fronte a un utente con necessità ben diverse dall’anziano non disabile. Oltretutto -aspetto decisamente rilevante- dal centro diurno il disabile fa ritorno a casa la sera e quindi conserva il legame con la sua famiglia, la casa, i suoi oggetti. Entrare in una Rsa significa non uscire più, restarvi 365 giorni. E’ facilmente dimostrabile che l’istituzionalizzazione già comporta una certa regressione nell’anziano, figurarsi nell’anziano disabile per cui l’impatto rischia di essere micidiale. Sappiamo che la Fondazione “Il Tiglio” sta lavorando per garantire il “dopo di noi” ai disabili che non possono più contare sulla propria famiglia. Vien da chiedersi perchè a livello di istituzioni non si pensi al disabile “over 65”, soprattutto oggi che i progressi nella medicina hanno allungato la vita media anche a chi ha problemi di disabilità. E’ un problema di costi -ci dicono coloro che con i disabili hanno a che fare tutti i giorni- e così conferma anche l’assessore ai servizi sociali di Palazzo Mezzabarba Sandro Assanelli. Se la permanenza al centro diurno è a carico del Comune, quella in Rsa è a carico del disabile (con la sua pensione) e della sua famiglie per la restante parte. Il Comune entra in gioco solo in caso di impossibilità della famiglia. E del resto come gettare la croce addosso a questi Comuni, che sono alla canna del gas? Lo stesso Assanelli ammette: sarà impossibile garantire la qualità dei servizi, con la mannaia del taglio dei trasferimenti per i disabili in programma dopo il 2011. Quindi o non dai servizi oppure gravi sull’utente (leggasi aumento delle tasse).

Daniela Scherrer

Per questo c’è chi sceglie di vivere da “separato in casa”

Padri separati, i nuovi poveri: e c’è chi dorme in macchina

Padri separati: sono loro i nuovi poveri “invisibili” di questo millennio, conseguenza delle rotture familiari sempre più numerose. Sono quattro milioni i papà separati in Italia, di cui ottocentomila vivono sotto la soglia della povertà. Si calcola che solo a Roma siano cinquemila. 1200 quelli che a Milano vivono in stato di indigenza. Del resto i conti sono presto fatti: l’uomo che guadagna milleduecento euro al mese e deve pagare il mantenimento, le spese legali e spesso anche la rata del mutuo della casa intestata a lui finisce col vivere con meno di trecento euro al mese. Impossibile. E quando non può contare sulla propria famiglia d’origine è costretto a far la fila davanti ai luoghi di ospitalità per un pasto caldo o per un luogo dove dormire. Sono in tanti a lanciare l’allarme in questo senso. Anche il direttore della Caritas Ambrosiana don Roberto Davanzo ha posto l’attenzione sulla realtà di questi padri separati addirittura a volte costretti a dormire in macchina. “Per questo a Milano stanno sorgendo piccole comunità riservate a loro –ha ribadito- in modo che oltre ad aiutarli nel vitto e nell’alloggio, possiamo offrir loro anche un posto caldo dove incontrare i figli”. La situazione di allarme è avvalorata anche dalle parole di Gian Ettore Gassani, presidente nazionale dell’Associazione matrimonialisti italiani. “È un fenomeno che riguarda per lo più operai, impiegati ed insegnanti –commenta- le separazioni e i divorzi, dati gli obblighi economici e le spese che determinano, trasformano questi lavoratori in veri e propri clochard. Alcuni dormono in auto o nelle stazioni, altri sono caduti nella trappola dell’alcol, altri ancora sono arrivati addirittura a un passo dal suicidio”. Ed è notizia di due mesi fa l’avvio di un progetto pilota in Lombardia: l’apertura di un piccolo alloggio nel convento dei Padri Oblati di Rho, che accoglie tre papà separati con un reddito non superiore a ventimila euro. A farsi carico della retta di mantenimento è la Provincia di Milano, autrice di questo test con l’obiettivo di realizzare in futuro una serie di interventi abitativi per contenere questa emergenza sociale, in crescita ma come detto spesso invisibile.
Per evitare queste realtà è in forte aumento la scelta molto particolare e delicata di vivere da “separati in casa”. Si tratta di coniugi che di comune accordo, pur di non affrontare il rischio di spese insostenibili, accettano di vivere “sotto lo stesso tetto”. Insomma, anche quando il matrimonio è finito e l’amore ha preso altre strade, si calcola che una coppia su 5 (il 20% del totale) vive in queste condizioni nel nostro Paese. La percentuale sale in Lombardia dove, secondo i dati forniti dall’associazione “Papà Separati Lombardia” Onlus, arriva a toccare ben il 33%, cioè una coppia su 3 e sfiora la soglia del 40% a Milano.




Daniela Scherrer

“L’Albero della Macedonia”, a Monticelli Pavese la prima comunità interreligiosa

Due famiglie cattoliche e due islamiche aprono insieme le porte all’affido di minori italiani e stranieri
Quattro famiglie che hanno deciso di condividere la loro vita in uno stesso stabile, una ex-cascina. E fin qui niente di strano. La particolarità è che la convivenza è all’insegna del dialogo interreligioso e dell’accoglienza: due famiglie infatti sono italiane e cattoliche, altre due marocchine e di fede islamica. Vivono in una cascina ristrutturata della frazione Fumagallo, alle porte di Monticelli Pavese. Il progetto –sostenuto dalla Cooperativa Comin- si chiama significativamente “L’Albero della Macedonia” ed è stato inaugurato ufficialmente domenica alla presenza del Vescovo mons. Giovanni Giudici. Una famiglia molto numerosa: otto genitori, i loro undici figli e altri quattro fratellini (tra i sei e i nove anni) giunti in affido, perchè l’aspetto dell’accoglienza è proprio questo. Le quattro coppie di genitori hanno deciso di aprire le porte della cascina e di sperimentare l’esperienza di affido a favore di minori italiani e stranieri temporaneamente allontanati dalle loro famiglie naturali. Il progetto aveva cominciato a prendere forma nel luglio 2009 quando Beppe e Margherita, con i loro due figli (più uno nato due mesi dopo), si sono trasferiti in cascina insieme a Mustapha, Fatima Zahra e i loro tre bambini. Un anno circa di collaudo e, una volta consolidata la convivenza, a giugno 2010 la comunità dell’Albero della Macedonia si è allargata con l’affido dei quattro fratellini e nel mese di settembre si è ulteriormente arricchita grazie all’arrivo di altre due famiglie, una italiana e cattolica e l’altra marocchina e di religione islamica: Virgilio e Arianna con i loro due figli e Bekai e Saliha con i tre bambini. Al loro fianco anche una educatrice della Comin, Paola, e presto arriverà anche una seconda educatrice anche perchè il nuovo anno porterà in dono alla comunità altri quattro minori in affido visto che ogni coppia può averne due.
Domenica oltre all’Albero della Macedonia a Monticelli è stato inaugurato anche il progetto “Il fienile dei sogni”: l’intenzione è quella di realizzare accanto alla cascina un luogo aperto e dedicato alla preghiera per i fedeli di qualsiasi credo, lasciato quindi volutamente senza caratterizzazioni religiose. Era presente anche Giovanni Storti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, fortemente impegnato su questo fronte.
Soddisfazione è stata espressa dal Vescovo mons. Giovanni Giudici, che ha benedetto la struttura: “Credo si tratti di un’esperienza molto preziosa per un futuro positivo da indicare a questa nostra società che vive l’avvicinamento delle culture e delle religioni differenti con una certa fatica. Esempi come questi, così impegnativi e generosi, sono un incoraggiamento forte a proseguire in tale opera di avvicinamento”.
Significativa la riflessione di Beppe, uno dei quattro capifamiglia della comunità: “Una scelta difficile? Sicuramente le difficoltà non mancano, ma quando si crede in qualcosa alla fine tutto si riesce a risolvere. Dico soprattutto che si tratta di una scelta di libertà e sono fortunato perchè mi è concesso di fare ciò in cui io ho sempre creduto”.


Daniela Scherrer

28 ottobre 2010

Festival dei diritti, la salute tra scienza e arte


Il Centro servizi volontariato presenta la quarta edizione: si inizia il 3 novembre

di GABRIELE CONTA, La provincia pavese - 28 ottobre 2010

PAVIA. Il diritto alla salute sarà il tema del prossimo «Festival dei diritti», il cui programma è stato presentato ieri mattina. Organizzato dal Centro servizi volontariato di Pavia, il festival è giunto quest’anno alla quarta edizione.
Il programma della rassegna è ricco, e prevede non soltanto conferenze scientifiche, ma anche importanti eventi culturali, dislocati in punti diversi della città.
«In questo modo - spiega la presidente del Csv, il Centro servizi volontariato di Pavia, Pinuccia Balzamo - anche il grande pubblico potrà avvicinarsi a tematiche che non devono limitarsi agli addetti ai lavori». Nel corso del mese di novembre ci saranno infatti anche eventi dedicati al cinema e alle arti promossi da 36 associazioni pavesi.La quarta edizione prenderà il via mercoledì 3 novembre: appuntamento alle 21 al cinema Corallo. Ci sarà la prima proiezione della rassegna cinematografica «MotoSolidale», che nel corso del mese porterà a Pavia quattro importanti film come il pluripremiato «Brothers».
Lunedì 8 novembre alle 18.30 al Broletto ci sarà invece «Meno tosse per tutti», un incontro sul rapporto tra salute e inquinamento. Alla stessa ora, ma ospiti del caffè Teatro, ci sarà anche una discussione sull’importanza del movimento per una vita sana. Giovedì 11 novembre alle 21 presso la consulta comunale del volontariato, in via dei mille, ci sarà invece un incontro sulla mortalità per tumore, purtroppo in aumento. Il giorno seguente, alle 18.30, all’osteria Sottovento ci sarà un dibattito sulla salute e l’alimentazione. Anche l’arte può parlare di salute: martedì 16 alle 11.30 in municipio ci sarà infatti l’inaugurazione della mostra «Prove di sterminio, l’eliminazione dei disabili nella Germania nazista», realizzata dal Coordinamento pavese handicap. Mentre il 18 novembre, nella sede del Csv di via Taramelli, ci sarà invece la presentazione del libro «L’amministratore di sostegno». C’è spazio per tutti e anche i bambini saranno protagonisti del «Festival dei diritti» di quest’anno: sabato 20 novembre presso la libreria Delfino ci sarà una lettura animata per i bambini dai 3 ai 6 anni. Alle 21, invece, si terrà un concerto gospel nella chiesa del Crocifisso. Nel corso della rassegna si terranno anche due spettacoli teatrali, uno in occasione della giornata internazionale della violenza sulle donne del 25 novembre e l’altro sabato 27 a cura dell’associazione pavese parkinsoniani. In cartellone ci sono anche una mostra fotografica sulla figura dell’infermiere professionale e un incontro con Cecilia Strada, attuale presidente di Emergency (data e luogo da definire).
Il programma del «Festival dei diritti di quest’anno è ricchissimo: per maggiori informazioni 0382 526328 oppure www.csvpavia.it.