Un “piccolo potere da prendere sul serio”: la scommessa del fair trade italiano raccontata in prima persona plurale
Storia, presente e futuro del commercio equo e solidale nelle parole dei protagonisti. con la forza delle persone, dei fatti e dei numeri.
Le banane eque -ormai è chiaro a tutti- non crescono sugli scaffali. I prodotti del Commercio Equo e Solidale arrivano infatti da lontano, nel tempo e nello spazio. E tuttavia ci sono diventati familiari e -dal caffè all’artigianato- hanno tutti un volto e una storia. Sono l’avanguardia dell’economia solidale: hanno cambiato la lista della spesa di un italiano su cinque e la maniera di valutare il prezzo di un prodotto o leggere la sua etichetta. “Un commercio più equo” racconta questo straordinario percorso, attraverso le voci autorevoli di chi il fair trade lo ha sognato, immaginato, progettato e realizzato -in Italia e nel mondo- ha aperto le prime Botteghe, ha fatto i conti con la crescita e le sue contraddizioni. In parte il Commercio Equo resta infatti un ossimoro: pratiche commerciali e spirito solidale, produttori nel Sud e consumatori del Nord, piccole dimensioni e grande distribuzione. Ma la tensione a superare questa contrapposizione sprigiona un’energia capace ribaltare il mondo.
Monica Di Sisto è una giornalista sociale specializzata nel commercio internazionale, esperta di economia solidale e cooperazione. Scrive per Altreconomia e l’agenzia ASCA, insegna Modelli di sviluppo economico alla Pontificia Università Gregoriana. Ha curato la comunicazione di realtà come il Contratto Mondiale dell’Acqua ed eventi come il Forum Sociale Mondiale. Fondatrice di Fair coop, è autrice -tra gli altri- di “Il voto nel portafoglio” (ed. Il Margine).
28 marzo 2013
25 marzo 2013
Gioia che arriva anche dal Brasile e dal Guatemala
L’opinione di padre Daniele Scarzella e Alvaro Aguilar Aldana, impegnati nelle terre del Sudamerica
Dal Guatemala arriva invece Alvaro Aguilar Aldana, nativo di El Rancho e attualmente a Pavia per una breve permanenza, ospite dei volontari dell’associazione Ains onlus che opera in terra guatemalteca. Alvaro è anche il referente assoluto della Christian Foundation for Children and Aging, fondazione statunitense che si occupa dei problemi dell’infanzia e della terza età in Guatemala. “La gente guatemalteca guarda con tanta speranza a questo Papa argentino, che conosce bene la realtà povera delle nostre terre e che, proprio per questo, ha immediatamente consigliato alla gente di non spendere i soldi per andare a Roma per la cerimonia, ma di utilizzare il denaro per aiutare i poveri. E’ anche ben consapevole del grosso problema delle sette, che davvero cresce in maniera esponenziale laddove impera la povertà. Saprà affrontarlo. L’ho visto sensibile e umile nell’approcciarsi al nuovo incarico, aspetto evidenziato anche dalla scelta del nome”.
Daniela Scherrer
Il Ticino, venerdì 22 marzo 2013
Anche avvicinandosi all’argentina, terra natia di Papa Francesco, l’entusiasmo è naturalmente palpabile. Il primo Pontefice sudamericano è un orgoglio per tutta la gente di quelle zone e, comunque, del continente. Padre Scarzella, sacerdote pavese del Pime, attualmente si trova in Brasile, a Praia Grande (San Paolo). Riusciamo a raggiungerlo per una sua opinione. “Per me non è stata una grande sorpresa l’elezione del Papa Francesco – sottolinea – qui in Brasile, nelle comunità dove celebravo c’era grande attesa e abbiamo pregato tutti per un Papa che fosse segno di speranza e vicino alla gente. Fin dal mio arrivo qui in Praia Grande mi sono accorto di come la gente necessiti di sacerdoti vicini alla gente e ai suoi problemi, anche con piccoli segni. E anche le persone responsabili delle chiese dove celebro me lo hanno confermato. Un esempio: nel dare il segno di pace è bello e apprezzato che sia il sacerdote ad avvicinarsi alle prime file dei banchi. La gente si sente partecipe del mistero che sta celebrando insieme al suo prete. Papa Francesco nella sua semplicità di accostarsi alle persone rende la Chiesa più viva attraverso il sorriso che dona. Da domenica scorsa anche noi qui in Brasile ringraziamo Dio per averci donato questo papa già con il profumo della Santità di Dio”.

Daniela Scherrer
Il Ticino, venerdì 22 marzo 2013
20 marzo 2013
L’ombra della scure sulla sanità pubblica
Nel mirino i servizi al cittadino. Perché i debiti della crisi economica dovuti alla speculazione dei mercati finanziari devono essere pagati dai popoli sovrani? Naomi Klein, autrice di molti libri sul capitalismo, tra i quali “No logo”, scrive : “Quelli che si oppongono al welfare state non sprecano mai una buona crisi”
Giancarlo Brunetti, Infermiere
Provo a raccontarvi con parole semplici la crisi economica globale che dal 2008 ad oggi ci affligge. Probabilmente sarò rimproverato da economisti ed esperti del settore che ne sanno più di me, tuttavia val la pena provarci vista la reale minaccia che essa comporta ai principi basilari sui quali si regge il nostro sistema sanitario: universalismo e gratuità delle cure.
Dopo il crollo del muro di Berlino e la fine del blocco comunista, il capitalismo è stato considerato il sistema economico più efficiente. Da quel momento si è sviluppato enormemente fino a globalizzarsi, superando cioè i confini transnazionali, alla ricerca di nuovi mercati e di manodopera a buon mercato. Ha così spostato le attività produttive verso i paesi in via di sviluppo.

Quando i debitori non furono più in grado di pagare i prestiti bancari, il sistema si è afflosciato e alcune banche sono fallite. L’unico modo per salvare il sistema finanziario è stato soccorrere le banche, per il loro ruolo cruciale nel sistema economico. I governi sono intervenuti abbassando i tassi d’interesse e dando liquidità alle banche, innescando così una spirale perversa, per cui la crisi delle banche ha alimentato quella dei debiti sovrani (vedi Il paese degli asini nel box).
Tagli ai servizi e alla sanità
Siamo arrivati ai tagli alla sanità, alla scuola e ai servizi in genere, la crisi economico-finanziaria sta imponendo al nostro welfare revisioni e ridimensionamenti che vanno oltre alla normale ricerca di efficienza e di lotta agli sprechi.
Ci sono tre esempi europei da citare: Inghilterra, Spagna e Grecia. L’articolo “Servizi Sanitari Nazionali nel mirino” di Dirindin, Maciocco (1) prefigura uno scenario impressionante, un vero “assalto ai sistemi universalistici europei”. In un breve lasso di tempo in Inghilterra e Spagna sono state approvate leggi che puntano alla privatizzazione con strategie diverse, nel primo paese consegnando ai privati la produzione e l’erogazione dei servizi, nel secondo spostando il finanziamento dalla fiscalità generale ad un modello basato sulle assicurazioni.
Nonostante l’opposizione di medici, infermieri e manager “indignados” nel marzo del 2012 la legge viene firmata dalla regina Elisabetta e dopo un mese passa anche quella del governo conservatore spagnolo di Mariano Rajoy. Queste riforme hanno alcuni punti in comune che fanno riflettere: sono state giustificate da motivi di urgenza legati alla crisi economico-finanziaria; sono state accompagnate da pesanti tagli alla sanità; hanno una forte impronta liberista.
In Grecia invece abbiamo assistito al crollo del sistema sanitario. Nella sanità greca coesistono due sistemi: il servizio sanitario nazionale, finanziato dalla fiscalità generale e il sistema mutualistico, finanziato dai contributi dei datori di lavoro e dei dipendenti.
Ma a causa dell’inefficienza del sistema, la principale fonte del finanziamento (circa il 40%) proviene direttamente dalle tasche dei cittadini mediante pagamenti extra non sempre legali.
La grave crisi economico-finanziaria in cui è sprofondata la Grecia si è inevitabilmente riflessa sul sistema sanitario che è al collasso, tagli pesanti hanno portato al licenziamento di 26 mila dipendenti pubblici del servizio sanitario (2). Naturalmente vi è stato un peggioramento sensibile dello stato di salute dei greci, con aumento delle rinunce a visite mediche, aumento dei ricoveri nel settore pubblico e diminuzione nel privato; incremento dei suicidi, legati spesso all’indebitamento, raddoppio degli omicidi e dei furti; aumento delle infezioni da Hiv del 50 per cento nel 2011 (3).
La situazione italiana
Ma in Italia cosa avviene? Partiamo dalle recenti dichiarazioni da parte di esponenti del governo secondo le quali: “la sostenibilità futura del sistema sanitario nazionale potrebbe non essere garantita se non si individueranno nuove modalità di finanziamento per servizi e prestazioni” che in parole povere vuol dire forme diverse di finanziamento rispetto alla fiscalità generale. Non era quanto contenuto nelle riforme di Spagna e Regno Unito?
Un analisi approfondita di Marco Geddes (4) si domanda se la spesa sanitaria italiana è davvero insostenibile. A ben vedere rispetto ad altri sistemi sanitari europei quello italiano è uno dei meno spendaccioni. Le previsioni di spesa fino al 2060 non sono allarmanti e attestano l’Italia al di sotto della media europea, le stime rimangono comunque una operazione aleatoria anche se affrontate con più metodologie.
Giustamente la domanda viene spostata su quale tipo di sviluppo vogliamo nei prossimi decenni. Condivido le conclusioni dell’autore che considera salute, istruzione, ricerca come una maggior spesa per il governo, pur tuttavia migliorando la qualità della vita delle persone. Altre spese potrebbero essere ridotte e ottimizzate quali la spesa militare, la gestione dei rifiuti, dei consumi energetici e dei trasporti. Fa bene l’autore a domandarsi che tipo di futuro vogliamo. Infatti rimaniamo perplessi, se non scandalizzati, delle recenti spese militari. L’intervento in Afghanistan (900 milioni), l’acquisto di due sottomarini (2 miliardi) e di 90 caccia F-35 (14 miliardi) fanno un gruzzolo di quasi 16 miliardi sono praticamente i tagli previsti per la sanità da qui al 2014. Sono 14 miliardi decisi a partire dalla manovra di Tremonti del 2011 fino a spending review e legge di Stabilità (corriere della sera salute 5/12/12).
Inversione di trend per gli infermieri
I guai della sanità sono anche i guai degli infermieri. I primi segni di difficoltà per i neolaureati ad entrare nel mondo del lavoro è stata rilevata da una indagine della Conferenza nazionale dei corsi per le professioni sanitarie del MIUR che ha evidenziato un abbattimento della soglia occupazionale di oltre il 10% negli ultimi anni. Solo l’80%, contro il 93% degli anni precedenti, raggiunge una sicurezza lavorativa entro l’anno.
Alla base ci sono il blocco dei pensionamenti e delle assunzioni. Molti di quelli che si sono laureati dal novembre 2011 all’aprile 2012 sono ancora in cerca di occupazione, lavorano saltuariamente, e con contratti a tempo determinato o hanno optato per altri impieghi.
La Federazione Europea delle Associazioni Infermieristiche (EFN) ha pubblicato un analisi comparativa in Europa sull’impatto della crisi economica nel settore infermieristico in 34 paesi europei. In Italia una diretta conseguenza della decisione del governo di tagliare i costi dell’assistenza sanitaria ha portato ad un aumento di assunzione di infermieri a bassa retribuzione provenienti dall’estero impiegati principalmente nell'assistenza domiciliare e in settori di ricovero per gli anziani, a fronte di una riduzione di posti letto ospedalieri.
Oggi, sebbene non ci siano state sostanziali variazioni dello stipendio, il costo della vita è molto aumentato. Nel contempo la formazione infermieristica sotto-finanziata e la mancanza di sviluppo di carriera, in particolare nei settori clinici e della formazione infermieristica colpisce la professione nel suo complesso. Condizione la fuga di infermieri italiani verso l’estero (Germania, Inghilterra, Svizzera) favoriti dalla conoscenza di lingue straniere, dove le condizioni lavorative ed economiche sono migliori. Negli ultimi anni i pochi concorsi pubblici stanno attirando l’attenzione di centinaia o migliaia di candidati, questo per ironia della sorte viene utilizzato per mostrare che l'Italia non ha una carenza di infermieri mentre la realtà e del tutto diversa.
Sitografia:
(1) N. Dirindin G. Maciocco - Assalto all’universalismo Salute internazionale 2012 http://www.saluteinternazionale.info/2012/01/assalto-alluniversalismo/
(2) G.Maciocco Crisi economica, sistemi sanitari e salute. Il caso Grecia. Salute internazionale 2011 http://www.saluteinternazionale.info/2011/10/crisi-economica-sistemi-sanitari-e-salute-il-caso-grecia/
(3) S. Gabriele, G. France* (fonte: lavoce.info) La crisi fa male alla salute Il fatto quotidiano 2012 http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/05/22/crisi-male-alla-salute/238063/
(4) M. Geddes Spesa sanitaria italiana. Una crescita davvero insostenibile? Salute internazionale 2012 http://www.saluteinternazionale.info/2012/12/spesa-sanitaria-italiana-una-crescita-davvero-insostenibile/
(5) EFN – Report on the Impact of the Financial Crisis on Nurses and Nursing http://www.efnweb.be/wp-content/uploads/2012/05/EFN-Report-on-the-Impact-of-the-Financial-Crisis-on-Nurses-and-Nursing-January-20122.pdf
Il paese degli asini.
Un uomo in giacca e cravatta è apparso un giorno in un villaggio.
In piedi su una cassetta della frutta, gridò a chi passava che avrebbe comprato a € 100 in contanti ogni asino che gli fosse stato offerto. I contadini erano effettivamente un po' sorpresi, ma il prezzo era alto e quelli che accettarono tornarono a casa con il portafoglio gonfio, felici come una pasqua. L'uomo venne anche il giorno dopo e questa volta offrì 150 € per asino, e di nuovo tante persone gli vendettero i propri animali. Il giorno seguente, offrì 300 € a quelli che non avevano ancora venduto gli ultimi asini del villaggio. Vedendo che non ne rimaneva nessuno, annunciò che avrebbe comprato asini a 500 € la settimana successiva e se ne andò dal villaggio.
Il giorno dopo, affidò al suo socio il gregge che aveva appena acquistato e lo inviò nello stesso villaggio con l'ordine di vendere le bestie a 400 € l'una. Vedendo la possibilità di realizzare un utile di 100 €, la settimana successiva tutti gli abitanti del villaggio acquistarono asini a quattro volte il prezzo al quale li avevano venduti e, per far ciò, si indebitarono con la banca.
Come era prevedibile, i due uomini d'affari andarono in vacanza in un paradiso fiscale con i soldi guadagnati e tutti gli abitanti del villaggio rimasero con asini senza valore e debiti fino a sopra i capelli. Gli sfortunati provarono invano a vendere gli asini per rimborsare i prestiti. Il costo dell'asino era crollato. Gli animali furono sequestrati ed affittati ai loro precedenti proprietari dal banchiere.
Nonostante ciò il banchiere andò a piangere dal sindaco, spiegando che se non recuperava i propri fondi, sarebbe stato rovinato e avrebbe dovuto esigere il rimborso immediato di tutti i prestiti fatti al Comune.
Per evitare questo disastro, il sindaco, invece di dare i soldi agli abitanti del villaggio perché pagassero i propri debiti, diede i soldi al banchiere (che era, guarda caso, suo caro amico e primo assessore).
Eppure quest'ultimo, dopo aver rimpinguato la tesoreria, non cancellò i debiti degli abitanti del villaggio né quelli del Comune e così tutti continuarono a rimanere immersi nei debiti.
Vedendo il proprio disavanzo sul punto di essere declassato e preso alla gola dai tassi di interesse, il Comune chiese l'aiuto dei villaggi vicini, ma questi risposero che non avrebbero potuto aiutarlo in nessun modo poiché avevano vissuto la medesima disgrazia.
Su consiglio disinteressato del banchiere, tutti decisero di tagliare le spese: meno soldi per le scuole, per i servizi sociali, per le strade, per la sanità ... Venne innalzata l'età di pensionamento e licenziati tanti dipendenti pubblici, abbassarono i salari e al contempo le tasse furono aumentate.
Dicevano che era inevitabile e promisero di moralizzare questo scandaloso commercio di asini.
Questa triste storia diventa più gustosa quando si scopre che il banchiere e i due truffatori sono fratelli e vivono insieme su un isola delle Bermuda, acquistata con il sudore della fronte. Noi li chiamiamo fratelli Mercato. Molto generosamente, hanno promesso di finanziare la campagna elettorale del sindaco uscente.
La semplicità di Francesco

Cercando delle “parole chiave” nelle centinaia di articoli apparsi sulla stampa, italiana e straniera, nei primi giorni di pontificato, ve ne sono alcune che ricorrono e che sono quelle su cui il card. Jorge Bergoglio aveva fondato il suo episcopato.
Il tema dei poveri
Durante le Congregazioni generali, che hanno preceduto il Conclave, Bergoglio aveva ricordato che: “La chiesa deve camminare con la gente e accompagnare il cammino dei poveri”. Parole che non sorprendono chi conosce il percorso pastorale del vescovo di Buenos Aires. Il vescovo argentino è famoso per le sue omelie che insistono sul dramma della povertà e dell’esclusione sociale. Come vescovo di Buenos Aires ha sempre dedicato un amore speciale alle periferie più povere della capitale, seguendo la via indicata dalla Conferenza dei vescovi latinoamericani ad Aparecida. Nelle sterminate e poverissime “villas miserias” la chiesa “mostra il suo volto materno, volto di misericordia e di prossimità”. Di frequente Bergoglio visitava le baraccopoli, accompagnando il cammino di sofferenza e i tentativi di riscatto degli abitanti delle periferie.
Nel messaggio per Natale 2010 scriveva alla sua diocesi: “Cerca il Signore in un presepio, cercalo dove nessuno lo cerca, nel povero, nel semplice, nel piccolo, non cercarlo tra le luci delle grandi città, non cercarlo nell’apparenza. Non cercarlo in tutto questo apparato pagano che ci si offre ogni momento. Cercalo nelle cose insolite e che ti sorprendono”.
Nell’autunno 2012, presentando il tema dell’Anno della fede scriveva: “Attraversare la soglia della fede è avvicinarsi a tutti quelli che vivono nelle periferie esistenziali chiamandoli per nome, è prendersi cura delle fragilità dei più deboli e sorreggere le loro ginocchia vacillanti con la certezza che tutto ciò che facciamo per il più piccolo dei nostri fratelli lo facciamo a Gesù (Mt 25,40)”.
Nell’incontro con i giornalisti, lo scorso 16 marzo, papa Francesco ha riaffermato il tema che tanto gli sta a cuore: “Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”Il potere dell’amore.
Il fondamento dell’impegno per i poveri sta nel comandamento dell’amore: “L’amore che sostiene gli altri, l’amore che risveglia le iniziative, quello che nessun a catena può bloccare, perché anche sulla croce o nel letto di morte si può amare. Non ha bisogno di bellezza giovanile, né di riconoscimento né di approvazione, né di denaro o prestigio. Semplicemente fiorisce … e non si può fermare. Il Gesù debole e insignificante agli occhi dei politici e dei potenti della terra ha rivoluzionato il mondo. Il comandamento dell’amore chiede che sentiamo la chiamata a mettere in pratica la nostra capacità di amare”. (Te Deum, 25 maggio 2012)
La preghiera e il silenzio.
Un altro motivo di stupore è stato il modo in cui papa Francesco si è presentato alla sua diocesi di Roma e al mondo intero subito dopo l’elezione, chiedendo prima preghiere per lui e per la sua missione, e successivamente pregando insieme ai fedeli, recitando le preghiere che accompagnano la vita quotidiana, con semplicità e spontaneità. “Pregate per me”: lo ha chiesto ai fedeli in piazza san Pietro, lo ha chiesto ai cardinali. Ha chiesto e ottenuto silenzio, un silenzio straordinario in una piazza stracolma di gente, un silenzio che si è riempito di preghiera.
Nella riflessione sull’Anno della Fede, il card. Bergoglio sottolineava l’importanza della preghiera e della speranza: “Attraversare la soglia della fede implica non provare vergogna di avere un cuore di bambino che, credendo ancora all'impossibile, può vivere nella speranza: l'unica cosa capace di dar senso e trasformare la storia. È chiedere incessantemente, pregare senza sosta e adorare perché il nostro sguardo si trasfiguri. Attraversare la soglia della fede ci porta a implorare per ciascuno di noi «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5), sperimentando così un modo nuovo di pensare, di comunicare, di guardarci, di rispettarci, di essere in famiglia, di prospettarci il futuro, di vivere l'amore e la vocazione”. (Buenos Aires, autunno 2012)
Lo stile semplice nella chiesa
La scelta del nome Francesco è indicativa di un uomo che incarna la semplicità evangelica e che ha fatto dei poveri la sua priorità pastorale. Il suo stile sobrio e semplice si fonda sulla radicalità del messaggio evangelico. Nella Messa di Natale del 2010 affermava: “Per entrare nella grotta di Betlemme dove è nato Gesù bisogna abbassarsi. Per incontrare Gesù bisogna farsi piccoli. Spogliati di ogni pretesa. Spogliati di ogni effimera illusione, e vai all’essenziale, a ciò che ti assicura vita, a ciò che ti conferisce dignità. Abbassati, non avere paura dell’umiltà, non aver paura della mansuetudine. Ascolta gli altri, vivi con loro, sii umile, e usa mansuetudine per riconoscere la tua dignità e quella degli altri. Non mascherarti da superbo, da prepotente, da dominatore”.
In queste parole si riconosce il profilo che il papa Francesco ha mostrato al mondo: umile, semplice, discreto, in modo da essere capace di avvicinarsi a tutti.
La trasformazione delle strutture della chiesa.
Per papa Francesco la vera riforma della Chiesa è la fede e la sua testimonianza. Ha affermato in uno dei suoi primi discorsi da Vescovo di Roma: “Se non confessiamo Gesù Cristo, diventeremo una ONG assistenziale ma non la Chiesa, sposa del Signore”.
“Attraversare la soglia della fede è agire, confidare nella forza dello Spirito presente nella Chiesa e che si manifesta anche nei segni dei tempi, è accompagnare il movimento costante della vita e della storia senza cadere nel disfattismo paralizzante del credere che ogni periodo passato fosse migliore; è urgenza di ripensare, ricreare, impastando la vita con il nuovo lievito «di sincerità e di verità» (1Cor 5,8). Attraversare la soglia della fede è, in definitiva, accettare la novità della vita del Risorto nella nostra povera carne per renderla segno della vita nuova”. (Messaggio di presentazione dell’Anno della fede)
Nel libro intervista “El Jesuita, conversaciones con el Card. Jorge Bergoglio”, scritto nel 2010 da Sergio Rubin y Francesca Ambrogetti, il cardinale rifletteva sulle sfide presenti della chiesa: “La Chiesa, provenendo da un'epoca il cui modello culturale era a lei favorevole, si è abituata al fatto che le sue istanze fossero offerte e aperte a chiunque venisse, o ci cercasse. Così funzionava in una comunità evangelizzata, ma nella situazione attuale la Chiesa ha bisogno di trasformare le sue strutture e il suo stile orientandoli in modo che siano missionari. Non possiamo mantenere uno stile 'clientelare' che attende passivamente che arrivi 'il cliente', il fedele, ma dobbiamo avere strutture per andare dove c'è bisogno di noi, dov'è la gente, verso chi pur desiderandolo non si avvicina a strutture e forme caduche che non rispondono alle sue aspettative e alla sua sensibilità. Dobbiamo vedere, con grande creatività, come ci rendiamo presenti negli ambienti della società facendo sì che le parrocchie e le istituzioni siano istanze che spingono verso questi ambienti. Rivedere la vita interna della Chiesa per andare verso il popolo fedele di Dio. La conversione pastorale ci chiama a passare da una Chiesa 'regolatrice della fede' a una Chiesa 'che trasmette e favorisce la fede'”.
Queste parole sembrano indicare quale sarà lo stile pastorale di Francesco, vescovo di Roma: uno stile missionario e aperto all’evangelizzazione, perché “Si deve uscire da se stessi, andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si ammala”.
Daniela Sangalli
scritto preso da:http://www.fondazionecum.missioitalia.it/news.php?id=110#prettyPhoto
17 marzo 2013
La parabola del consumismo

A questo punto, se gli studenti sono stati bene coinvolti, inizieranno a porre domande a cui rispondere è molto difficile. Se la crescita economica non è sostenibile, è dannosa, quali altre alternative ci sono? Consumare meno non vuol dire diventare più poveri? Com’è possibile che mio padre rinunci all’uso dell’auto per andare al lavoro?
Ci si accorge allora che è difficile tratteggiare agli studenti un mondo anche solo leggermente diverso da quello che conoscono e che vivono quotidianamente. Ogni rinuncia, anche la più banale, viene da loro vissuta quasi come un attacco alla loro identità. Ciò che manca è un esempio, la dimostrazione che si può vivere, crescere ed essere felici senza shopping, smartphone e un’auto nuova ogni cinque anni.
Il nuovo libro di Mirco Rossi parla proprio di questo.
Intitolato “La parabola del consumismo – memorie di un ragazzo al tempo della sobrietà”, (EMI editrice) il volume è un viaggio all’indietro nel tempo, in una periferia operaia di un’Italia post bellica, arretrata e rurale, dove l’autore bambino cresce e vive i cambiamenti che, assieme all’aumento della disponibilità di risorse primarie, la modernità porta velocemente con sé.
In questo lavoro autobiografico, Rossi tratteggia la quotidianità, le regole sociali, le privazioni, le strategie di adattamento, le trasformazioni, che hanno caratterizzato un passato non troppo lontano, ma quasi del tutto sconosciuto alle generazioni successive. Ne mette in luce i valori e i principi offrendo ai ragazzi la possibilità di “estrarli” e “riciclarli” in un presente e in un domani che, a seguito del declino delle risorse e dell’aggravamento della situazione ambientale, stanno mostrando una crescente complessità.
Il confronto critico che l’autore fa tra le due epoche, permette lo sviluppo di riflessioni non banali sulla sobrietà e sul consumismo e mostra alle nuove generazioni l’esistenza di possibili alternative all’attuale sistema di vita e all’idea di una impossibile crescita costante. Gli insegnamenti che si possono ricavare da un concreto e articolato esempio di vita sobria, possono contribuire ad aumentare la resilienza di una società che rischia il collasso e aiutare ogni singolo individuo a soddisfare le proprie esigenze di serenità e a ritrovare meglio se stesso. (Dario Faccini)
LA PARABOLA DEL CONSUMISMO – Memorie di un ragazzo al tempo della sobrietà.
Vivere bene, spendendo meno
di Mirco Rossi
In Italia la maggior parte della popolazione appartiene a due generazioni che, a partire dagli anni del “miracolo economico”, hanno conosciuto e partecipato a una fase di crescita eccezionale. Nella storia umana mai in precedenza era stato possibile disporre di risorse in quantità e qualità così straordinarie.Una terza generazione, quella degli adolescenti, sta crescendo in un mondo che immagina sia stato più o meno simile all’oggi e inconsapevolmente si aspetta non possa che migliorare in futuro.
La miopia retroattiva di cui questi ultimi sono affetti è imputabile alla totale non-conoscenza e non-esperienza dello stile di vita proprio della maggioranza degli italiani sino alla metà del secolo scorso. Informazione che da un certo momento in poi non è stata più trasmessa.
Un tempo la trasmissione del vissuto delle generazioni precedenti avveniva principalmente all’interno della struttura familiare. Durante gli ultimi quarant’anni la famiglia è esplosa cancellando la possibilità del rapporto quotidiano tra generazioni lontane, vero e proprio canale naturale di collegamento tra culture.
La prospettiva risulta loro poco leggibile e distorta a causa di:
a) difficoltà nel mettere a fuoco il concetto di “limite”, ormai in disuso
b) carenza di nozioni scientificamente corrette sulla situazione ambientale, delle risorse energetiche, minerali e alimentari.
c) incapacità di leggere gli esempi ormai chiari del declino di alcune di esse, tra cui la più importante: il petrolio
d) illusione che scienza e tecnologia siano in grado di risolvere qualunque problema.
Equivoci di cui non sono i giovani a portare la maggiore responsabilità bensì la collettività di adulti che ha avuto il compito di accompagnarli alla maturità e che, in larghissima parte, presenta analoghe pecche.
Nel frattempo il sistema di valori è cambiato, allineandosi all’idea di una impossibile e costante crescita, aderente e funzionale al consolidamento di un sistema orientato a sfruttare ogni possibile risorsa per ricavare il massimo profitto nel minor tempo possibile.
Ho potuto verificare in anni di attività fra gli studenti che molti di loro sono in grado di apprezzare e valorizzare i principi portanti di una realtà e di un modo di vivere diversi, orientati alla sobrietà e alla ricerca costante di equilibrio con le esigenze a loro esterne.
Con un racconto punteggiato di spunti autobiografici della mia prima infanzia, il libro offre un panorama di esperienze e di valori da riconsiderare e da “riciclare” nell’oggi. Dove potrebbero costituire elementi essenziali di nuove ipotesi di organizzazione sociale e produttiva.
La descrizione di mondi e comportamenti ormai scomparsi e completamente ignoti alla maggioranza dei giovani ( … a partire dai nati negli anni ‘60 !) viene messa in relazione alle situazioni attuali e alle trasformazioni avvenute.
Ho voluto creare numerosi ponti e confronti tra epoche e stili di vita diversissimi ma compresi entrambi nel lasso di tempo della vita di un uomo. Fatto mai accaduto nella storia umana e che probabilmente non potrà ripetersi.
Sobrietà e consumismo sono antitetici, incompatibili. Il secondo è uno stile di vita che, al di là di scelte di natura ideale, dovrà essere necessariamente abbandonato perché non sostenibile da punto di vista energetico e ambientale. Ritornare alla sobrietà potrebbe non bastare, ma rappresenta la giusta direzione verso cui muovere.
Questo scenario in molti suscita atteggiamenti di rifiuto e di paura, sia razionali che irrazionali. La realtà però non cambia ignorandola. Per questo motivo dimostrare che sobrietà non è sinonimo di povertà e di indigenza ma un valore da riconquistare è lo scopo centrale degli incontri.
Mirco Rossi
Mirco Rossi è nato e vive a Venezia, dove ha fatto studi di economia e politica economica. Per alcuni anni è stato coordinatore dell’azione divulgativa che l’Enel (allora Ente pubblico) offriva al sistema scolastico del Triveneto. Su incarico di varie amministrazioni pubbliche da quasi un decennio sviluppa in larga parte del Veneto un’assidua e intensa attività di divulgazione sui temi dell’energia, in particolare nelle scuole secondarie di secondo grado, rivolta sia agli alunni che agli insegnanti. Membro di ASPO (Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio) realizza conferenze e partecipa a dibattiti organizzati da gruppi culturali e associazioni. Il primo discorso di Laura Boldrini, neopresidente della Camera

«Faccio i miei auguri soprattutto ai più giovani: a chi siede per la prima volta in quest'aula. Sono sicura che insieme riusciremo nell'impegno straordinario di rappresentare nel migliore dei modi le istituzioni repubblicane».
«Arrivo a questo incarico dopo aver trascorso tanti anni a difendere e rappresentare i diritti degli ultimi in Italia e nel mondo. E' un'esperienza che mi accompagnerà sempre e che metto al servizio di questa Camera».
«Il mio pensiero va a chi ha perduto certezze e speranze. Abbiamo l'obbligo di fare una battaglia vera contro la povertà, e non contro i poveri: dobbiamo garantirli uno a uno. Quest'Aula dovrà ascoltare la sofferenza sociale. Dovremo farci carico dell'umiliazione delle donne uccise da violenza travestita da amore. Dovremo stare accanto ai detenuti che vicono in condizioni disumane e degradanti. Dovremo dare strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato, a chi rischia di perdere la cassa integrazione, ai cosiddetti esodati, che nessuno di noi ha dimenticato. Ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l'economia italiana e che oggi sono schiacciati dal peso della crisi, alle vittime del terremoto e a chi subisce gli effetti della scarsa cura del nostro territorio».
«In Parlamento sono stati scritti dei diritti costruiti fuori da qui e che hanno liberato l'Italia e gli italiani dal fascismo. Ricordiamo il sacrificio di chi è morto per le istituzioni e dei morti per la mafia, che oggi vengono ricordati a Firenze».
«Molto dobbiamo anche al sacrifio di Aldo Moro e della sua scorta. Scrolliamoci di dosso ogni indugio, nel dare piena dignità alla nostra istituzione che sta per riprendere la centralità del suo ruolo». «Facciamo di questa Camera la casa della buona politica. Il nostro lavoro sarà trasparente, anche in una scelta di sobrietà che dobbiamo agli italiani».
«Sarò, la presidente di tutti, a partirte da chi non mi ha votato, ruolo di garanzia per ciascuno di voi e per tutto il Paese».
«L'Italia è Paese fondatore dell'Unione europea, dobbiamo lavorare nel solco del cammino tracciato da Altiero Spinelli. Lavoriamo perché l'Europa torni ad essere un grande sogno, un luogo della libertà, della fraternità e della pace. Anche i protagonisti della vita religiosa ci spingono a fare di più, per questo abbiamo accolto con gioia i gesti e le parole del nuovo pontefice, venuto emblematicamente "dalla fine del mondo"».
«Un saluto anche alle istituzioni internazionali e - permettetemi - anche un pensiero per i molti, troppi volti senza nome che il nostro Mediterraneo custodisce».
«La politica deve tornare ad essere una speranza, una passione».
Tratto da http://www.unita.it/italia/discorso-boldrini-unhcr-rifugiati-ue-onu-donne-detenuti-ultimi-politica-esodati-moro-papa-discorso-1.489382
13 marzo 2013
D.O.N.G. Dannate organizzazioni non governative
L'antropolgo Alberto Salza accusa. E spiega il fallimento della cooperazione internazionale in Africa. Dove con gli aiuti arrivano ignoranza, arroganza, stupidità. E amore. Il nemico peggiore

Alberto Salza
11 marzo 2013
La cooperazione come dialogo, ovvero l’identità aperta
Cari amici questa nota riprende la mia relazione all’Assemblea del VIS del 12-13 Novembre 2012. Sono riflessioni che mi tiro dietro da qualche tempo e che mi piace condividere con tutti voi nella convinzione che le risposte non si trovano mai da soli. L’argomento si svolge in cinque punti: tre fatti e due passi.
1. Primo fatto, i cambiamenti economici dal 1980 ad oggi.
Venticinque anni fa parlavamo di paesi ricchi e poveri, di paesi a basso ed alto reddito. Ore le cose si sono fatte più complicate. Dal G7 si è passati al G20 con una nutrita rappresentanza di paesi del cosiddetto Terzo Mondo, ci sono i Paesi Emergenti, in realtà alcuni quasi emersi. I BRICS, Brasile, India, Cina, Russia e Sud
Africa e ci sono i ‘new donors’, non ancora membri del DAC, Development Assistance Committee presso l’OCSE. Tutti sappiamo della potente crescita economica di molti paesi dell’Asia Orientale una volta classificati a basso reddito, fenomeno che ormai coinvolge anche Cina e India. Viviamo un periodo di forte scossoni economici, non ultima la crisi del 2007-2008 che sarà lunga e prolungata e vedrà un’accelerazione del processo del spostamento di potere economico verso l’Asia; questo sarà il secolo dell’Asia. Dopo due decenni di stagnazione anche l’Africa Sub sahariana dal 2000 al 2009 è cresciuta in media del 5.1%. Non sono ritmi cinesi, ma sono comunque risultati tutt’altro che disprezzabili. Non sottovalutiamo la forza dei cambiamenti economici; la crescita economica è spesso assai rude, ma in molti casi può dare una risposta
fondamentale al problema dell’occupazione, che resta una delle questioni più delicate, soprattutto in paesi in cui vi sono percentuali molto elevate di popolazione giovane. Viviamo con apprensione e partecipazione le giornate della ‘primavera araba’. Le spiegazioni di queste rivolte sono complesse, ma certamente non è da sottovalutare il fatto che ogni anno quasi tre milioni di giovani, dal Marocco alla Siria si presentano sul mercato del lavoro e il più delle volte non trovano sbocchi adeguati; addirittura i più penalizzati sono coloro che hanno la laurea o titoli di master. Poi c’è l’emigrazione.
2. Secondo fatto, l’evoluzione nel concetto di sviluppo
Nella sezione 2.1 proverò a vedere l’evoluzione dell’idea di sviluppo come definizione e soprattutto come possibilità di misurazione; sono aspetti che raccolgono un ampio consenso. La sezione 2.2 ci apre ulteriori prospettive su cui c’è un crescente consenso, ma anche molto dibattito, si tratta di aspetti più qualitativi che quantitativi ed in cui le valutazioni soggettive pesano molto.
2.1 Lo stato dell’arte: lo viluppo dai molti volti.
C’era una volta la crescita economica. Nel corso degli ultimi venticinque anni è profondamente cambiato il modo in cui la comunità internazionale intende lo sviluppo, ora ha molte più. Nel 1987 il rapporto Our common future delle Nazioni Unite, meglio noto come rapporto Bruntland, presenta l’idea di sviluppo sostenibile: quello che lascia alle generazioni future un patrimonio di patrimonio di risorse naturali almeno invariato rispetto a quello della generazione presente. Più che l’aspetto relativo all’ambiente vorrei qui sottolineare la dimensione temporale, quel fare riferimento al passare del tempo come ‘generazione’, convenzionalmente 25 anni. Un periodo di tempo lungo che richiama l’idea di diritti uguali per le differenti generazioni, giovani e vecchi, ma anche il passaggio del testimone fra generazioni. Ricordiamo l’etimologia del termine: generare, dare vita, possibilità. 25 anni, dal 1986 al 2011: la vita del VIS. Nel 1990 UNDP pubblica il primo Rapporto sullo Sviluppo Umano e presenta l’Indice di Sviluppo Umano, che oltre alla dimensione economica include anche educazione e salute. Questi due termini sono ormai strettamente associati alla nozione di sviluppo umano e vale la pena di sottolineare che l’educazione è parte importante
del carisma Salesiano. Ricordiamo anche che educare significa lavorare con le generazioni, ancora questo termine, future per offrire loro migliori possibilità. Nel 2000 l’ONU, con Banca Mondiale, Fondo Monetario e OCSE lanciano gli obiettivi del millennio, Millenium Development Goals- MDGs, che spaziano da povertà ad educazione, a salute, ad ambiente, genere; la definizione di sviluppo si allarga ulteriormente. Obiettivi come miglioramenti da raggiungere nel 2015 rispetto ai dati del 1990; 25 anni, ancora una volta una generazione. Mancano pochi anni al 2015 e oltre a vedere se si raggiungono o meno gli obiettivi e chi ce la fa e chi no si tratta di capire cosa ci sarà dopo: gli stessi obiettivi rinforzati, altri che ora non sono presenti, ad esempio l’occupazione o la distribuzione del reddito, l’equità, la coesione sociale? Il dibattito è aperto; stiamo vivendo una fase di grande movimento e fervore, di forte dinamismo e quindi un periodo molto
interessante. Da ultima, la nozione di diritti umani, che raccogli l’evoluzione precedente e in parte si accompagna anche sovrapponendosi all’idea di sviluppo. Ma anche i diritti sono in continua evoluzione.
2.2. Uno sguardo in avanti: cosa c’è ancora nell’idea di sviluppo?
Qui le cose si fanno un poco più complicate e dobbiamo ricorre all’aiuto di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia ed amico del VIS, è stato alla nostra Settimana di Educazione alla Mondialità nel 1997. La povertà non è solo mancanza di pane, l’impossibilità di soddisfare i bisogni fondamentali, la povertà è esclusione; certo esclusione dai bisogni di base: cibo, salute, abitazione, ma non solo. La povertà è l’impossibilità di sviluppare le proprie capacità, seguendo Sen dovrei dire capabilities, i propri diritti, l’impossibilità di crescere come individui, come esseri umani, di prendere il futuro nelle proprie mani. Qui ritroviamo il carisma Salesiano che si rivolge ai giovani con minori opportunità; sviluppo significa rimuovere qualche ostacolo alle forme della loro esclusione. Ma se la povertà è esclusione allora Lo sviluppo è libertà, dal titolo del libro di Sen del 1999; forse il titolo originale inglese Development as freedom si potrebbe rendere bene anche con Lo sviluppo come liberazione. Questa visione apre prospettive stupende, le vedremo fra poche righe, ma prima un salto all’indietro al 1967, alla Populorum progressio. Paolo VI scrive “Per essere sviluppo autentico, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo,e di tutto l’uomo”(Populorum Progressio, 14). Di ogni uomo, lo sviluppo di ogni essere umano, una visione universalistica, che si estende nello spazio: il mio diritto è anche il tuo, solo così è diritto solo così è sviluppo, o è per tutti o non è. Ma questa visione si estende anche nel tempo, attraversa le generazioni. Di tutto l’uomo di tutto l’essere umano, che non è solo la sua pancia o le sue sofferenze: non solo i bisogni fondamentali, liberazione dalla malattia e dalla fame, ma la dignità della persona umana nella sua pienezza. Dunque una visione olistica le donne e gli uomini sono un tutto, che possiamo separare solo a fini didattici: affamati, sofferenti, analfabeti, oppressi, ma c’è soprattutto la complessità, l’integrità e la dignità di quella che noi chiamiamo persona umana. Tutto questo dovrebbe essere così facile e semplice per i credenti in Cristo. Ogni uomo è figlio di Dio e quindi immagine, parziale e distorta, di Gesù Cristo: ‘La libertà e la gloria dei figli di Dio’ scrive San Paolo nella Lettera ai Romani (8,21). Lo sviluppo come libertà ci porta a due parole inglesi non semplici da tradurre in modo efficace: Empowerment e Ownership. Parole impegnative che negli ultimi anni abbiamo ripetuto sempre più spesso per indicare ciò che il processo di sviluppo è e ciò a cui deve tendere. Lo sviluppo come liberazione dall’esclusione e quindi empowerment: la possibilità per ogni essere umano di dispiegare i suoi diritti e le sue capacità. Lo sviluppo come ownership: partecipazione ma anche il far proprio, l’interiorizzare il processo di allargamento delle capacità. La libertà di non dover dipendere, nemmeno dagli aiuti. Empowerment e ownership da anni li proclamiamo, ora anche i popoli del Sud del
Mondo ne sono convinti e li reclamano. Lo sviluppo come liberazione implica che essi vogliono prendere in mano il loro destino, vogliono, decidere, contare sempre di più.
3. Primo passo, la nuova cooperazione allo sviluppo
L’evoluzione dell’idea di sviluppo ci proietta in avanti, in un futuro in parte già presente e in parte da costruire. Se sviluppo è ciò che abbiamo appena visto allora che succederà della cooperazione? Un passaggio in tre tempi: i punti 1, 2 e 3 qui sotto. Non sono passi semplici e anche il ragionamento è ora un po’ più in salita, ma vedrete che poi arriverà la discesa.
3.1 La cooperazione come emancipazione
La buona cooperazione allo sviluppo è quella che nel tempo scompare: se non è così che cosa è? I genitori restano sempre genitori, ma i figli diventano grandi, immagine che trovo dolcissima. Nelle famiglie c’ è spesso una fase in cui i figli sono grandi e quindi non li puoi più trattare come bambini, però non sono ancora economicamente indipendenti. Qualche cosa di simile avviene nei rapporti fra i paesi ad altro reddito e quelli a reddito medio e basso. Non è una fase semplice perché tenere le chiavi della borsa ti da comunque un potere differente. Da anni si discute di efficacia degli aiuti e le varie conferenze e dichiarazioni, Parigi 2005, Accra 2008 e così via, indicano la strada, o mettono dei paletti, a ciò che si intende come ‘aiuto buono’. Prima ancora c’era la questione degli aiuti legati e cattivi, perché violavano sia l’empowerment che la ownership. Ma c’è anche il dibattito se l’aiuto non crei sempre dipendenza e peggiori la situazione come scrive Dambisa Moyo. Ma non è di questo che voglio scrivere, molto più semplicemente del fatto che bisogna passare dal lavorare per al lavorare con. Cooperare nel senso etimologico del termine: fare le cose insieme. Pensiamo a tutte le situazioni concrete, i progetti, che conosciamo in cui si possono fare le cose per oppure con. Pensate alle varie fasi del cosiddetto ciclo del progetto: sono state condivise, con responsabilità e scelte se non proprio alla pari, ma certamente con forte con-partecipazione? Dalla individuazione del problema/bisogno alla scrittura del progetto ed soprattutto alla sua gestione, budget compreso. Non sto parlando della sostenibilità futura, questa sarebbe una interpretazione riduttiva del ‘fare con’, penso al come si svolgono le varie fasi. Può darsi che riteniamo di fare già tutto questo, ma verifichiamolo una volta di più e mai da soli, ma con i cosiddetti ‘beneficiari’ termine che evoca il bene e quindi bellissimo, ma anche terribile, e verifichiamolo con altre esperienze. La strada dell’apprendimento e del cambiamento è sempre lunga e faticosa. Non mi faccio illusioni, lo so che manca ancora molto affinchè i ‘poveri’ riescano a ‘fare bene’ i pozzi, le scuole e gli ospedali, a tirare su i muri diritti, se mi passate l’immagine. Certo spesso i poveri fanno le cose malamente, almeno secondo le routines prevalenti e i nostri standards e soprattutto a gestire dei progetti. E tuttavia la direzione è questa e giustamente; anche nei paesi più poveri dell’Africa qualche cosa sta cambiando; con fatica, ma i segnali ci sono. C’è un’identità nazionale e anche un poco di orgoglio, corruzione certo, ma si sta formando una classe media, c’è più istruzione. Il problema del ricambio politico, insomma del come si passa da un presidente all’altro è enorme, eppure insieme a molte situazioni difficili ci sono anche qui segnali positivi. Voglio condividere con voi l’esperienza del master in Cooperazione di Pavia: negli ultimi 6-7 anni la determinazione e la preparazione delle ragazze e dei ragazzi che arrivano dall’Africa è aumentata tantissimo. Il futuro sono loro. I poveri saranno sempre con noi: nelle campagne e negli slums delle città i giovani esclusi anche. Eppure pian piano proviamo ad avere un nuovo atteggiamento, dobbiamo provare a vederli con occhi diversi. Siamo passati dal container e dalle costruzioni all’educazione, ora è tempo di incamminarci verso la cooperazione nel vero significato del termine.
3.2. La cooperazione come dialogo…..e conoscenza
Lavorare insieme dunque, ma c’è un altro passo che il mondo di oggi ci chiede di fare. Oltre al lavorare insieme c’è sempre più il problema della formulazione dei giudizi. Gli esseri umani continuamente esprimono opinioni su ciò che è giusto o sbagliato su ciò che è bene o male. E’ molto facile dividersi sui giudizi e assumere punti di vista opposti, come se fosse un problema di schieramento. La visione della giustizia come bianco o nero, abbastanza tipica della cultura occidentale, ma non solo, tende a collocarci ai poli opposti del problema. Lo stesso fatto storico viene letto ed interpretato in modo diverso. Sono i grandi fatti storici del tipo: sto con Israele o con la Palestina? Ma anche circostanze più semplici: il giudizio sul velo per le donne? Come si intende la vita politica e la democrazia, che rapporto lega i diritti della persona alle tradizioni culturali di un popolo? Non è che tutti noi dobbiamo condividere tutti gli stessi giudizi; più semplicemente quando la distanza dei giudizi diventa eccessiva, e quindi ci sono opinioni molto diverse su ciò che è giusto e sbagliato, possono facilmente nascere le tensioni e conflitti. Oltre a lavorare insieme per ridurre le differenze di reddito dovremo anche operarci per ridurre le differenze nei nostri giudizi. Si, ma come? Ci aiutano ancora due libri di Amartya Sen, Identità e violenza del 2006 e soprattutto L’idea di giustizia del 2009. Cari amici qui siamo nella parte più ripida della salita e vi chiedo un poco di pazienza. Nel primo libro Sen ci parla delle comunità etniche o religiose che convivono nelle città inglesi e grazie alle istituzioni possono esprimere e manifestare liberamente. E tuttavia non dialogano fra di loro, conoscono ciò che i media passano dell’altro, ma non sanno come gli altri formano i loro giudizi e le loro opinioni. Questo è monoculturalismo plurale da non confondere con il pluralismo. Ogni comunità mantiene le sue posizioni ed i suoi giudizi, ben venga la tolleranza, ma non ci sono incontro, comunicazione, dialogo e contaminazione. Sen ci ricorda inoltre, e questo è davvero fondamentale, che ognuno di noi ha in se diverse identità, io sono bianco ma anche padre, e cristiano, e insegnante, e mi occupo di cooperazione e così via. Sembra un ragionamento astratto ma è molto semplice: quanto tempo dedico alla famiglia rispetto al lavoro? Quanto importante per me è l’essere italiano rispetto ad essere europeo e cosi via. In questo ‘minestrone’ di identità l’aspetto decisivo è la mia libertà e la consapevolezza del poterle combinare in varia misura. Il ragionamento prosegue in L’idea di giustizia che in un certo senso arricchisce l’opera Una teoria della giustizia del 1971 di John Rawls. Di fronte alle differenti posizioni delle comunità umane Rawls sostiene la necessità di procedure e regole condivise per smussare le differenze. Sen concorda ma va oltre; al di la delle regole e delle procedure qual è l’ idea di giusto o sbagliato, di bene o male che le differenti comunità hanno? Per Sen è facile verificare che spesso queste comunità si garantiscono al loro interno, riconoscono ai loro membri i diritti, ma faticano ad aprirsi agli altri. Questa dice Sen è l’imparzialità chiusa, che si basa sull’idea di Rawls che all’interno di ogni comunità - sia essa, politica, etnica, religiosa - esista una specie di contratto originario, un nucleo di valori fortemente condivisi, ma validi per i membri di quella comunità e non al suo esterno, dove i valori potrebbero essere diversi. A questa visione Sen contrappone l’idea di imparzialità aperta, che si fonda su un libro di Adam Smith del 1759, La Teoria dei Sentimenti Morali. Smith teorizza la figura dello spettatore imparziale: la capacità che ognuno di noi ha di vedere le persone ed i fatti togliendosi dal suo punto di vista, ma diventando quasi un terzo estraneo, un giudice non coinvolto nella disputa. Ma anche la capacità di mettersi al posto dell’altro, di vedere i fatti con gli occhi degli altri. Attenzione: lo spettatore imparziale di Smith è attento e ben informato, cioè si sforza di conoscere, così aiuta il dialogo.
3.3 L’identità aperta
Lo spettatore imparziale e l’imparzialità aperta sono strumenti fondamentali di un processo di avvicinamento e di conoscenza, ma provo ad andare oltre. Io parlerei anche di identità aperta. Nel fare il gioco dello spettatore imparziale io cambio, cambio i miei giudizi, forse anche il mio modo di vivere, vengo contaminato. Il che non significa affatto rinunciare ai miei valori, o alla visione che io ho della mia identità originaria. In ogni momento io ho una mia identità, è impossibile che io abbia solo procedure e non anche un senso di ciò che sono e di ciò che sono quelli a me più vicini e di ciò che è giusto o sbagliato, ho un’idea di giustizia. Eppure la mia identità evolve, a volte semplicemente perché cambio il paese in cui vivo, oppure cambio lavoro, altre volte il cambiamento avviene per esperienze e riflessioni che mi portano a modificare i miei comportamenti ed i miei giudizi. Questa modificazione avviene anche grazie allo strumento dello spettatore imparziale, purché in ogni momento io senta la mia come identità aperta, da non confondersi con debole. Un ultimo sforzo, siamo quasi in cima. L’identità aperta ci pone il problema del contatto con l’altro, e quindi dell’alterità, la differenza spesso ci può spaventare, come scrive nel suo bel libro La ferita dell’altro Luigino Bruni. L’alterità è una dimensione difficile, da non banalizzare. Noi e gli altri, fratello uguale e diverso da me, universalità dei diritti, ma al tempo stesso diritto ad essere se stessi ed alle proprie differenze: tradizioni, costumi, modi di vita, modi di intendere il bene ed il male. L’identità aperta è una situazione per cui non ho paura dell’altro e dei suoi giudizi. Per Giovanni XXIII la giustizia è uno dei quattro pilastri della pace, gli altri sono libertà, amore e verità(Pacem in Terris, 1963). Della libertà abbiamo già parlato, più oltre troveremo la verità. Benedetto XVI ci aiuta con l’amore agape, ‘questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro…… Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro’(Deus caritas est, 6); l’alterità unita all’amore.
4. Terzo fatto, la Chiesa Cattolica ha un dono unico….e preziosissimo.
Ora la discesa. Un fatto tanto ovvio e banale, ma a cui spesso non prestiamo attenzione. La Chiesa Cattolica è l’unica istituzione al mondo che ha un radicamento profondo in quasi tutti i paesi del mondo. Religiosi e laici che passano tutta la loro vita in villaggi e comunità le più disparate, dal Laos all’Eritrea al Paraguay, conoscono la lingua locale, condividono le povertà, lavorano per e con. Le Nazioni Unite, la CIA le ONG non hanno niente di tutto questo in queste dimensioni: intendo sia in ampiezza nello spazio, che in durata nel tempo, che in profondità nel radicamento. Ognuno di noi conosce molti di questi sorelle e fratelli che sono gli occhi e le orecchie della Chiesa, ma di fatto anche i nostri. Essi sono anche un sesto senso, perché condividono e percepiscono la situazione locale in un modo impossibile dall’esterno. E poi ci sono le conferenze Episcopali locali ed i Sinodi regionali, insomma la Chiesa Cattolica ha tutti gli strumenti per favorire la conoscenza ed il dialogo, per portarla fino a noi. Certo non basta passare trent’anni della proprio vita presso una comunità in Etiopia per maturare nel senso della identità aperta. Si può benissimo restare fermi e fissi nelle proprie opinioni e vedere i bisogni più che le persone in quanto tali. Eppure queste realtà hanno potenzialità enormi; sono doni grandi ed unici, strumenti potenti nel cammino dell’imparzialità aperta, nell’aiutarci a muovere verso la condizione di identità aperta. Quale strumento potentissimo per vedere anche con gli occhi degli altri. Non sto facendo l’Apologia della Chiesa di Roma, ma solo registrando un fatto di cui spesso non ci rendiamo conto e che credo comporti tanta responsabilità, in un tempo in cui le persone ‘distanti’, per geografia, cultura, giudizi hanno bisogno di conoscersi e non solo attraverso internet. Quanti talenti! se il dialogo non lo interpretano i cristiani, chi altro? Ma forse più che come talenti preferisco pensarli come doni.
5. Secondo ed ultimo passo: aiutiamoci a dialogare
La presenza di tante associazioni differenti dedicate a realtà diverse e anche con attenzioni le più svariate, dalla salute all’educazione è una grande ricchezza per tutti noi. La ricerca dell’identità aperta non si può fare da soli, sarebbe chiaramente una contraddizione di termini. Nella processo di ricerca del dialogo abbiamo due aiuti potentissimi. Il primo è il lavoro in rete. Certamente nessuno può sapere/fare tutto, nessuno può
conoscere i popoli del mondo, ma abbiamo tante possibilità di conoscere e anche tante opportunità di aiutare a conoscere, cioè di informare, lo spettatore imparziale è attento. Le settimane di educazione, le esperienze estive, i bollettini, i convegni. E poi gli occhi degli altri funzionano con la proprietà transitiva: non sono mai stato in Casamanche in Senegal, ma attraverso i racconti degli amici che ci sono stati conosco un poco di quella realtà. Attraverso i racconti Malamine Tamba mio studente al master in cooperazione quattordici anni fa, eppure io sto imparando da lui. Funziona così amici miei. Nella cooperazione decentrata c’è poi una particolarità molto positiva, se ben sfruttata, la fedeltà. La cooperazione punto a punto, o l’adozione di una situazione, scuola o ospedale che sia, da la possibilità di continuare nel tempo anche per decenni, come mi pare sia il caso per Zuiguinchor ed Ayamé. La lunga durata del rapporto aiuta moltissimo il dialogo e il processo verso l’identità aperta, anche se anche in questo caso come in quello dei missionari si tratta di una condizione necessaria, ma non di per sé sufficiente. Ci è sempre richiesto un particolare lavoro su noi stessi di attenzione all’altro. Il secondo aiuto è la verità, il primo dei quattro pilastri della pace. C’è una VERITA’, grande, c’è poi la verità piccola, minuta, semplice: essa è il dire il vero, la sincerità, la trasparenza. Piccola ma disponibile a tutti, non c’è bisogno di avere il dottorato o di aver girato il mondo. Verità piccola, ma è la base per il dialogo, è essenziale per aiutarci a trovare un linguaggio comune e per costruire una comunicazione che possa portare alla fiducia, trust. La verità piccola anche come coerenza, anch’essa essenziale affinché il dialogo porti alla fiducia. Nei Vangeli Satana è menzogna, è la strumentalizzazione dell’altro, l’altro come mezzo non come fine, come strumento non come persona. La cooperazione è un ponte per lo sviluppo e per il dialogo. Perché ‘lo sviluppo è il nuovo nome della pace’(Populorum progressio, Conclusione). Ma è necessario che tutti ci aiutiamo ad auto educarci. Un ultimo passo. Trovare un linguaggio che ci aiuti nella conoscenza reciproca. Un linguaggio che non sia solo quello del profitto e del denaro, o quello della tecnologia. Ma neppure solo un linguaggio del fare, sia pure del ‘fare bene il bene’ come diceva Don Bosco, magari facendolo anche insieme. Un linguaggio che serva a conoscerci, anche nella gratuità del tempo donato agli altri, non per fare, anche se non si sta costruendo una scuola o un ospedale. La cooperazione è una scelta preferenziale per i poveri, gli esclusi. Il valore/dono dell’altro che incontro non sta nel fatto che lei o lui sono dei poveri, ma consiste nel fatto che sono esseri umani. Proviamo a vederli un pò meno come poveri e un poco di più come esseri umani, che però sono altro da noi.
Qualche lettura
Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, 2005
Bruni L., La ferita dell’altro, Il Margine, 2007.
Giovanni XXIII, Lettera Enciclica Pacem in Terris, 1963
Paolo VI, Lettera Enciclica Populrom Progressio, 1967
Sen A., Lo sviluppo è libertà, (I ed.1999) Mondatori, 2000.
Sen A., Identità e violenza, Laterza, 2006
Sen A., L’idea di giustizia, (I ed. 2009) Mondatori, 2010
United Nations, World Commission on Environment and Development (Bruntland Report), Our Common Future, Oxford University Press, Oxford, 1987.
1. Primo fatto, i cambiamenti economici dal 1980 ad oggi.
Venticinque anni fa parlavamo di paesi ricchi e poveri, di paesi a basso ed alto reddito. Ore le cose si sono fatte più complicate. Dal G7 si è passati al G20 con una nutrita rappresentanza di paesi del cosiddetto Terzo Mondo, ci sono i Paesi Emergenti, in realtà alcuni quasi emersi. I BRICS, Brasile, India, Cina, Russia e Sud
Africa e ci sono i ‘new donors’, non ancora membri del DAC, Development Assistance Committee presso l’OCSE. Tutti sappiamo della potente crescita economica di molti paesi dell’Asia Orientale una volta classificati a basso reddito, fenomeno che ormai coinvolge anche Cina e India. Viviamo un periodo di forte scossoni economici, non ultima la crisi del 2007-2008 che sarà lunga e prolungata e vedrà un’accelerazione del processo del spostamento di potere economico verso l’Asia; questo sarà il secolo dell’Asia. Dopo due decenni di stagnazione anche l’Africa Sub sahariana dal 2000 al 2009 è cresciuta in media del 5.1%. Non sono ritmi cinesi, ma sono comunque risultati tutt’altro che disprezzabili. Non sottovalutiamo la forza dei cambiamenti economici; la crescita economica è spesso assai rude, ma in molti casi può dare una risposta
fondamentale al problema dell’occupazione, che resta una delle questioni più delicate, soprattutto in paesi in cui vi sono percentuali molto elevate di popolazione giovane. Viviamo con apprensione e partecipazione le giornate della ‘primavera araba’. Le spiegazioni di queste rivolte sono complesse, ma certamente non è da sottovalutare il fatto che ogni anno quasi tre milioni di giovani, dal Marocco alla Siria si presentano sul mercato del lavoro e il più delle volte non trovano sbocchi adeguati; addirittura i più penalizzati sono coloro che hanno la laurea o titoli di master. Poi c’è l’emigrazione.
2. Secondo fatto, l’evoluzione nel concetto di sviluppo
Nella sezione 2.1 proverò a vedere l’evoluzione dell’idea di sviluppo come definizione e soprattutto come possibilità di misurazione; sono aspetti che raccolgono un ampio consenso. La sezione 2.2 ci apre ulteriori prospettive su cui c’è un crescente consenso, ma anche molto dibattito, si tratta di aspetti più qualitativi che quantitativi ed in cui le valutazioni soggettive pesano molto.
2.1 Lo stato dell’arte: lo viluppo dai molti volti.
C’era una volta la crescita economica. Nel corso degli ultimi venticinque anni è profondamente cambiato il modo in cui la comunità internazionale intende lo sviluppo, ora ha molte più. Nel 1987 il rapporto Our common future delle Nazioni Unite, meglio noto come rapporto Bruntland, presenta l’idea di sviluppo sostenibile: quello che lascia alle generazioni future un patrimonio di patrimonio di risorse naturali almeno invariato rispetto a quello della generazione presente. Più che l’aspetto relativo all’ambiente vorrei qui sottolineare la dimensione temporale, quel fare riferimento al passare del tempo come ‘generazione’, convenzionalmente 25 anni. Un periodo di tempo lungo che richiama l’idea di diritti uguali per le differenti generazioni, giovani e vecchi, ma anche il passaggio del testimone fra generazioni. Ricordiamo l’etimologia del termine: generare, dare vita, possibilità. 25 anni, dal 1986 al 2011: la vita del VIS. Nel 1990 UNDP pubblica il primo Rapporto sullo Sviluppo Umano e presenta l’Indice di Sviluppo Umano, che oltre alla dimensione economica include anche educazione e salute. Questi due termini sono ormai strettamente associati alla nozione di sviluppo umano e vale la pena di sottolineare che l’educazione è parte importante
del carisma Salesiano. Ricordiamo anche che educare significa lavorare con le generazioni, ancora questo termine, future per offrire loro migliori possibilità. Nel 2000 l’ONU, con Banca Mondiale, Fondo Monetario e OCSE lanciano gli obiettivi del millennio, Millenium Development Goals- MDGs, che spaziano da povertà ad educazione, a salute, ad ambiente, genere; la definizione di sviluppo si allarga ulteriormente. Obiettivi come miglioramenti da raggiungere nel 2015 rispetto ai dati del 1990; 25 anni, ancora una volta una generazione. Mancano pochi anni al 2015 e oltre a vedere se si raggiungono o meno gli obiettivi e chi ce la fa e chi no si tratta di capire cosa ci sarà dopo: gli stessi obiettivi rinforzati, altri che ora non sono presenti, ad esempio l’occupazione o la distribuzione del reddito, l’equità, la coesione sociale? Il dibattito è aperto; stiamo vivendo una fase di grande movimento e fervore, di forte dinamismo e quindi un periodo molto
interessante. Da ultima, la nozione di diritti umani, che raccogli l’evoluzione precedente e in parte si accompagna anche sovrapponendosi all’idea di sviluppo. Ma anche i diritti sono in continua evoluzione.
2.2. Uno sguardo in avanti: cosa c’è ancora nell’idea di sviluppo?
Qui le cose si fanno un poco più complicate e dobbiamo ricorre all’aiuto di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia ed amico del VIS, è stato alla nostra Settimana di Educazione alla Mondialità nel 1997. La povertà non è solo mancanza di pane, l’impossibilità di soddisfare i bisogni fondamentali, la povertà è esclusione; certo esclusione dai bisogni di base: cibo, salute, abitazione, ma non solo. La povertà è l’impossibilità di sviluppare le proprie capacità, seguendo Sen dovrei dire capabilities, i propri diritti, l’impossibilità di crescere come individui, come esseri umani, di prendere il futuro nelle proprie mani. Qui ritroviamo il carisma Salesiano che si rivolge ai giovani con minori opportunità; sviluppo significa rimuovere qualche ostacolo alle forme della loro esclusione. Ma se la povertà è esclusione allora Lo sviluppo è libertà, dal titolo del libro di Sen del 1999; forse il titolo originale inglese Development as freedom si potrebbe rendere bene anche con Lo sviluppo come liberazione. Questa visione apre prospettive stupende, le vedremo fra poche righe, ma prima un salto all’indietro al 1967, alla Populorum progressio. Paolo VI scrive “Per essere sviluppo autentico, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo,e di tutto l’uomo”(Populorum Progressio, 14). Di ogni uomo, lo sviluppo di ogni essere umano, una visione universalistica, che si estende nello spazio: il mio diritto è anche il tuo, solo così è diritto solo così è sviluppo, o è per tutti o non è. Ma questa visione si estende anche nel tempo, attraversa le generazioni. Di tutto l’uomo di tutto l’essere umano, che non è solo la sua pancia o le sue sofferenze: non solo i bisogni fondamentali, liberazione dalla malattia e dalla fame, ma la dignità della persona umana nella sua pienezza. Dunque una visione olistica le donne e gli uomini sono un tutto, che possiamo separare solo a fini didattici: affamati, sofferenti, analfabeti, oppressi, ma c’è soprattutto la complessità, l’integrità e la dignità di quella che noi chiamiamo persona umana. Tutto questo dovrebbe essere così facile e semplice per i credenti in Cristo. Ogni uomo è figlio di Dio e quindi immagine, parziale e distorta, di Gesù Cristo: ‘La libertà e la gloria dei figli di Dio’ scrive San Paolo nella Lettera ai Romani (8,21). Lo sviluppo come libertà ci porta a due parole inglesi non semplici da tradurre in modo efficace: Empowerment e Ownership. Parole impegnative che negli ultimi anni abbiamo ripetuto sempre più spesso per indicare ciò che il processo di sviluppo è e ciò a cui deve tendere. Lo sviluppo come liberazione dall’esclusione e quindi empowerment: la possibilità per ogni essere umano di dispiegare i suoi diritti e le sue capacità. Lo sviluppo come ownership: partecipazione ma anche il far proprio, l’interiorizzare il processo di allargamento delle capacità. La libertà di non dover dipendere, nemmeno dagli aiuti. Empowerment e ownership da anni li proclamiamo, ora anche i popoli del Sud del
Mondo ne sono convinti e li reclamano. Lo sviluppo come liberazione implica che essi vogliono prendere in mano il loro destino, vogliono, decidere, contare sempre di più.
3. Primo passo, la nuova cooperazione allo sviluppo
L’evoluzione dell’idea di sviluppo ci proietta in avanti, in un futuro in parte già presente e in parte da costruire. Se sviluppo è ciò che abbiamo appena visto allora che succederà della cooperazione? Un passaggio in tre tempi: i punti 1, 2 e 3 qui sotto. Non sono passi semplici e anche il ragionamento è ora un po’ più in salita, ma vedrete che poi arriverà la discesa.
3.1 La cooperazione come emancipazione
La buona cooperazione allo sviluppo è quella che nel tempo scompare: se non è così che cosa è? I genitori restano sempre genitori, ma i figli diventano grandi, immagine che trovo dolcissima. Nelle famiglie c’ è spesso una fase in cui i figli sono grandi e quindi non li puoi più trattare come bambini, però non sono ancora economicamente indipendenti. Qualche cosa di simile avviene nei rapporti fra i paesi ad altro reddito e quelli a reddito medio e basso. Non è una fase semplice perché tenere le chiavi della borsa ti da comunque un potere differente. Da anni si discute di efficacia degli aiuti e le varie conferenze e dichiarazioni, Parigi 2005, Accra 2008 e così via, indicano la strada, o mettono dei paletti, a ciò che si intende come ‘aiuto buono’. Prima ancora c’era la questione degli aiuti legati e cattivi, perché violavano sia l’empowerment che la ownership. Ma c’è anche il dibattito se l’aiuto non crei sempre dipendenza e peggiori la situazione come scrive Dambisa Moyo. Ma non è di questo che voglio scrivere, molto più semplicemente del fatto che bisogna passare dal lavorare per al lavorare con. Cooperare nel senso etimologico del termine: fare le cose insieme. Pensiamo a tutte le situazioni concrete, i progetti, che conosciamo in cui si possono fare le cose per oppure con. Pensate alle varie fasi del cosiddetto ciclo del progetto: sono state condivise, con responsabilità e scelte se non proprio alla pari, ma certamente con forte con-partecipazione? Dalla individuazione del problema/bisogno alla scrittura del progetto ed soprattutto alla sua gestione, budget compreso. Non sto parlando della sostenibilità futura, questa sarebbe una interpretazione riduttiva del ‘fare con’, penso al come si svolgono le varie fasi. Può darsi che riteniamo di fare già tutto questo, ma verifichiamolo una volta di più e mai da soli, ma con i cosiddetti ‘beneficiari’ termine che evoca il bene e quindi bellissimo, ma anche terribile, e verifichiamolo con altre esperienze. La strada dell’apprendimento e del cambiamento è sempre lunga e faticosa. Non mi faccio illusioni, lo so che manca ancora molto affinchè i ‘poveri’ riescano a ‘fare bene’ i pozzi, le scuole e gli ospedali, a tirare su i muri diritti, se mi passate l’immagine. Certo spesso i poveri fanno le cose malamente, almeno secondo le routines prevalenti e i nostri standards e soprattutto a gestire dei progetti. E tuttavia la direzione è questa e giustamente; anche nei paesi più poveri dell’Africa qualche cosa sta cambiando; con fatica, ma i segnali ci sono. C’è un’identità nazionale e anche un poco di orgoglio, corruzione certo, ma si sta formando una classe media, c’è più istruzione. Il problema del ricambio politico, insomma del come si passa da un presidente all’altro è enorme, eppure insieme a molte situazioni difficili ci sono anche qui segnali positivi. Voglio condividere con voi l’esperienza del master in Cooperazione di Pavia: negli ultimi 6-7 anni la determinazione e la preparazione delle ragazze e dei ragazzi che arrivano dall’Africa è aumentata tantissimo. Il futuro sono loro. I poveri saranno sempre con noi: nelle campagne e negli slums delle città i giovani esclusi anche. Eppure pian piano proviamo ad avere un nuovo atteggiamento, dobbiamo provare a vederli con occhi diversi. Siamo passati dal container e dalle costruzioni all’educazione, ora è tempo di incamminarci verso la cooperazione nel vero significato del termine.
3.2. La cooperazione come dialogo…..e conoscenza
Lavorare insieme dunque, ma c’è un altro passo che il mondo di oggi ci chiede di fare. Oltre al lavorare insieme c’è sempre più il problema della formulazione dei giudizi. Gli esseri umani continuamente esprimono opinioni su ciò che è giusto o sbagliato su ciò che è bene o male. E’ molto facile dividersi sui giudizi e assumere punti di vista opposti, come se fosse un problema di schieramento. La visione della giustizia come bianco o nero, abbastanza tipica della cultura occidentale, ma non solo, tende a collocarci ai poli opposti del problema. Lo stesso fatto storico viene letto ed interpretato in modo diverso. Sono i grandi fatti storici del tipo: sto con Israele o con la Palestina? Ma anche circostanze più semplici: il giudizio sul velo per le donne? Come si intende la vita politica e la democrazia, che rapporto lega i diritti della persona alle tradizioni culturali di un popolo? Non è che tutti noi dobbiamo condividere tutti gli stessi giudizi; più semplicemente quando la distanza dei giudizi diventa eccessiva, e quindi ci sono opinioni molto diverse su ciò che è giusto e sbagliato, possono facilmente nascere le tensioni e conflitti. Oltre a lavorare insieme per ridurre le differenze di reddito dovremo anche operarci per ridurre le differenze nei nostri giudizi. Si, ma come? Ci aiutano ancora due libri di Amartya Sen, Identità e violenza del 2006 e soprattutto L’idea di giustizia del 2009. Cari amici qui siamo nella parte più ripida della salita e vi chiedo un poco di pazienza. Nel primo libro Sen ci parla delle comunità etniche o religiose che convivono nelle città inglesi e grazie alle istituzioni possono esprimere e manifestare liberamente. E tuttavia non dialogano fra di loro, conoscono ciò che i media passano dell’altro, ma non sanno come gli altri formano i loro giudizi e le loro opinioni. Questo è monoculturalismo plurale da non confondere con il pluralismo. Ogni comunità mantiene le sue posizioni ed i suoi giudizi, ben venga la tolleranza, ma non ci sono incontro, comunicazione, dialogo e contaminazione. Sen ci ricorda inoltre, e questo è davvero fondamentale, che ognuno di noi ha in se diverse identità, io sono bianco ma anche padre, e cristiano, e insegnante, e mi occupo di cooperazione e così via. Sembra un ragionamento astratto ma è molto semplice: quanto tempo dedico alla famiglia rispetto al lavoro? Quanto importante per me è l’essere italiano rispetto ad essere europeo e cosi via. In questo ‘minestrone’ di identità l’aspetto decisivo è la mia libertà e la consapevolezza del poterle combinare in varia misura. Il ragionamento prosegue in L’idea di giustizia che in un certo senso arricchisce l’opera Una teoria della giustizia del 1971 di John Rawls. Di fronte alle differenti posizioni delle comunità umane Rawls sostiene la necessità di procedure e regole condivise per smussare le differenze. Sen concorda ma va oltre; al di la delle regole e delle procedure qual è l’ idea di giusto o sbagliato, di bene o male che le differenti comunità hanno? Per Sen è facile verificare che spesso queste comunità si garantiscono al loro interno, riconoscono ai loro membri i diritti, ma faticano ad aprirsi agli altri. Questa dice Sen è l’imparzialità chiusa, che si basa sull’idea di Rawls che all’interno di ogni comunità - sia essa, politica, etnica, religiosa - esista una specie di contratto originario, un nucleo di valori fortemente condivisi, ma validi per i membri di quella comunità e non al suo esterno, dove i valori potrebbero essere diversi. A questa visione Sen contrappone l’idea di imparzialità aperta, che si fonda su un libro di Adam Smith del 1759, La Teoria dei Sentimenti Morali. Smith teorizza la figura dello spettatore imparziale: la capacità che ognuno di noi ha di vedere le persone ed i fatti togliendosi dal suo punto di vista, ma diventando quasi un terzo estraneo, un giudice non coinvolto nella disputa. Ma anche la capacità di mettersi al posto dell’altro, di vedere i fatti con gli occhi degli altri. Attenzione: lo spettatore imparziale di Smith è attento e ben informato, cioè si sforza di conoscere, così aiuta il dialogo.
3.3 L’identità aperta
Lo spettatore imparziale e l’imparzialità aperta sono strumenti fondamentali di un processo di avvicinamento e di conoscenza, ma provo ad andare oltre. Io parlerei anche di identità aperta. Nel fare il gioco dello spettatore imparziale io cambio, cambio i miei giudizi, forse anche il mio modo di vivere, vengo contaminato. Il che non significa affatto rinunciare ai miei valori, o alla visione che io ho della mia identità originaria. In ogni momento io ho una mia identità, è impossibile che io abbia solo procedure e non anche un senso di ciò che sono e di ciò che sono quelli a me più vicini e di ciò che è giusto o sbagliato, ho un’idea di giustizia. Eppure la mia identità evolve, a volte semplicemente perché cambio il paese in cui vivo, oppure cambio lavoro, altre volte il cambiamento avviene per esperienze e riflessioni che mi portano a modificare i miei comportamenti ed i miei giudizi. Questa modificazione avviene anche grazie allo strumento dello spettatore imparziale, purché in ogni momento io senta la mia come identità aperta, da non confondersi con debole. Un ultimo sforzo, siamo quasi in cima. L’identità aperta ci pone il problema del contatto con l’altro, e quindi dell’alterità, la differenza spesso ci può spaventare, come scrive nel suo bel libro La ferita dell’altro Luigino Bruni. L’alterità è una dimensione difficile, da non banalizzare. Noi e gli altri, fratello uguale e diverso da me, universalità dei diritti, ma al tempo stesso diritto ad essere se stessi ed alle proprie differenze: tradizioni, costumi, modi di vita, modi di intendere il bene ed il male. L’identità aperta è una situazione per cui non ho paura dell’altro e dei suoi giudizi. Per Giovanni XXIII la giustizia è uno dei quattro pilastri della pace, gli altri sono libertà, amore e verità(Pacem in Terris, 1963). Della libertà abbiamo già parlato, più oltre troveremo la verità. Benedetto XVI ci aiuta con l’amore agape, ‘questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro…… Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro’(Deus caritas est, 6); l’alterità unita all’amore.
4. Terzo fatto, la Chiesa Cattolica ha un dono unico….e preziosissimo.
Ora la discesa. Un fatto tanto ovvio e banale, ma a cui spesso non prestiamo attenzione. La Chiesa Cattolica è l’unica istituzione al mondo che ha un radicamento profondo in quasi tutti i paesi del mondo. Religiosi e laici che passano tutta la loro vita in villaggi e comunità le più disparate, dal Laos all’Eritrea al Paraguay, conoscono la lingua locale, condividono le povertà, lavorano per e con. Le Nazioni Unite, la CIA le ONG non hanno niente di tutto questo in queste dimensioni: intendo sia in ampiezza nello spazio, che in durata nel tempo, che in profondità nel radicamento. Ognuno di noi conosce molti di questi sorelle e fratelli che sono gli occhi e le orecchie della Chiesa, ma di fatto anche i nostri. Essi sono anche un sesto senso, perché condividono e percepiscono la situazione locale in un modo impossibile dall’esterno. E poi ci sono le conferenze Episcopali locali ed i Sinodi regionali, insomma la Chiesa Cattolica ha tutti gli strumenti per favorire la conoscenza ed il dialogo, per portarla fino a noi. Certo non basta passare trent’anni della proprio vita presso una comunità in Etiopia per maturare nel senso della identità aperta. Si può benissimo restare fermi e fissi nelle proprie opinioni e vedere i bisogni più che le persone in quanto tali. Eppure queste realtà hanno potenzialità enormi; sono doni grandi ed unici, strumenti potenti nel cammino dell’imparzialità aperta, nell’aiutarci a muovere verso la condizione di identità aperta. Quale strumento potentissimo per vedere anche con gli occhi degli altri. Non sto facendo l’Apologia della Chiesa di Roma, ma solo registrando un fatto di cui spesso non ci rendiamo conto e che credo comporti tanta responsabilità, in un tempo in cui le persone ‘distanti’, per geografia, cultura, giudizi hanno bisogno di conoscersi e non solo attraverso internet. Quanti talenti! se il dialogo non lo interpretano i cristiani, chi altro? Ma forse più che come talenti preferisco pensarli come doni.
5. Secondo ed ultimo passo: aiutiamoci a dialogare
La presenza di tante associazioni differenti dedicate a realtà diverse e anche con attenzioni le più svariate, dalla salute all’educazione è una grande ricchezza per tutti noi. La ricerca dell’identità aperta non si può fare da soli, sarebbe chiaramente una contraddizione di termini. Nella processo di ricerca del dialogo abbiamo due aiuti potentissimi. Il primo è il lavoro in rete. Certamente nessuno può sapere/fare tutto, nessuno può
conoscere i popoli del mondo, ma abbiamo tante possibilità di conoscere e anche tante opportunità di aiutare a conoscere, cioè di informare, lo spettatore imparziale è attento. Le settimane di educazione, le esperienze estive, i bollettini, i convegni. E poi gli occhi degli altri funzionano con la proprietà transitiva: non sono mai stato in Casamanche in Senegal, ma attraverso i racconti degli amici che ci sono stati conosco un poco di quella realtà. Attraverso i racconti Malamine Tamba mio studente al master in cooperazione quattordici anni fa, eppure io sto imparando da lui. Funziona così amici miei. Nella cooperazione decentrata c’è poi una particolarità molto positiva, se ben sfruttata, la fedeltà. La cooperazione punto a punto, o l’adozione di una situazione, scuola o ospedale che sia, da la possibilità di continuare nel tempo anche per decenni, come mi pare sia il caso per Zuiguinchor ed Ayamé. La lunga durata del rapporto aiuta moltissimo il dialogo e il processo verso l’identità aperta, anche se anche in questo caso come in quello dei missionari si tratta di una condizione necessaria, ma non di per sé sufficiente. Ci è sempre richiesto un particolare lavoro su noi stessi di attenzione all’altro. Il secondo aiuto è la verità, il primo dei quattro pilastri della pace. C’è una VERITA’, grande, c’è poi la verità piccola, minuta, semplice: essa è il dire il vero, la sincerità, la trasparenza. Piccola ma disponibile a tutti, non c’è bisogno di avere il dottorato o di aver girato il mondo. Verità piccola, ma è la base per il dialogo, è essenziale per aiutarci a trovare un linguaggio comune e per costruire una comunicazione che possa portare alla fiducia, trust. La verità piccola anche come coerenza, anch’essa essenziale affinché il dialogo porti alla fiducia. Nei Vangeli Satana è menzogna, è la strumentalizzazione dell’altro, l’altro come mezzo non come fine, come strumento non come persona. La cooperazione è un ponte per lo sviluppo e per il dialogo. Perché ‘lo sviluppo è il nuovo nome della pace’(Populorum progressio, Conclusione). Ma è necessario che tutti ci aiutiamo ad auto educarci. Un ultimo passo. Trovare un linguaggio che ci aiuti nella conoscenza reciproca. Un linguaggio che non sia solo quello del profitto e del denaro, o quello della tecnologia. Ma neppure solo un linguaggio del fare, sia pure del ‘fare bene il bene’ come diceva Don Bosco, magari facendolo anche insieme. Un linguaggio che serva a conoscerci, anche nella gratuità del tempo donato agli altri, non per fare, anche se non si sta costruendo una scuola o un ospedale. La cooperazione è una scelta preferenziale per i poveri, gli esclusi. Il valore/dono dell’altro che incontro non sta nel fatto che lei o lui sono dei poveri, ma consiste nel fatto che sono esseri umani. Proviamo a vederli un pò meno come poveri e un poco di più come esseri umani, che però sono altro da noi.
Qualche lettura
Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas Est, 2005
Bruni L., La ferita dell’altro, Il Margine, 2007.
Giovanni XXIII, Lettera Enciclica Pacem in Terris, 1963
Paolo VI, Lettera Enciclica Populrom Progressio, 1967
Sen A., Lo sviluppo è libertà, (I ed.1999) Mondatori, 2000.
Sen A., Identità e violenza, Laterza, 2006
Sen A., L’idea di giustizia, (I ed. 2009) Mondatori, 2010
United Nations, World Commission on Environment and Development (Bruntland Report), Our Common Future, Oxford University Press, Oxford, 1987.
10 marzo 2013
"La nusica può cambiare la vita". Intervista a Simona Torretta
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Simona Torretta |
Simona Torretta è un nome salito tristemente alla ribalta delle cronache nel 2004 per il rapimento avvenuto a Bagdad insieme a Simona Pari. A quel tempo Simona Torretta stava lavorando come volontaria ad un progetto di ricostruzione della Biblioteca di Bagdad. Simona non è stata frenata nella sua voglia di aiutare gli altri da quell’incidente di percorso e oggi, a distanza di otto anni, è ancora testimone gioiosa dell’impegno umanitario a favore delle categorie più fragili. Lo sta facendo in Guatemala, uno dei Paesi a maggior tasso di criminalità e di devianza giovanile. Cooperazione Italiana da poco più di un anno ha attivato a Città del Guatemala il Progetto MuniJoven, che prevede la realizzazione di una serie di orchestre giovanili: attraverso la musica l’intento è quello di strappare bambini e ragazzi dalla strada, trasmettendo loro una passione che in futuro possa anche trasformarsi in occupazione. A coordinare questo progetto è proprio Simona Torretta.
Piccoli guatemaltechi crescono... grazie alla musica. Simona, in che cosa consiste il progetto MuniJoven?
“Il progetto MuniJoven, finanziato dalla Cooperazione Italiana, è attivo da oltre un anno e si pone come obiettivo principale quello di rafforzare il Municipio di Città del Guatemala, attraverso lo sviluppo di politiche pubbliche a favore dei giovani che vivono in condizioni svantaggiate e caratterizzate da alti tassi di povertà e di esclusione sociale. In questo ambito si inserisce questa importante iniziativa artistico-culturale e pedagogica, meglio conosciuta con il nome delle “Orchestre Giovanili del Comune di Città del Guatemala”, che si propone attraverso lo studio gratuito della musica di sottrarre i giovani dalla strada riscattandoli da una situazione di miseria e marginalità sociale. Attualmente il progetto MuniJoven che è realizzato in collaborazione con il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) porta beneficio a più di 1600 giovani guatemaltechi”.
E’ vero che sta riscuotendo un grande successo?
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Una giovane allieva della scuola di musica |
"Si, è vero, è un progetto di grande successo che sta contagiando tutta l’America Centrale, e anche l’Europa. Analoghe orchestre stanno nascendo anche in Italia, sotto il nome di “Sistema delle Orchestre Italiane” e di recente, presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma, si è svolta un’iniziativa “Costruire con la musica” dove ha partecipato anche la Cooperazione Italiana portando l’esempio del Guatemala, che ha presentato in anteprima un documentario su questo progetto con il nome “Cuento Musical” filmato dal regista italiano Stefano Scialotti. Certamente, questi risultati sono il frutto del lavoro quotidiano di tante persone, che credono nel valore della musica come strumento di coesione sociale".
Come reagiscono i genitori dei piccoli musicisti? Sono accondiscendenti oppure vedono la partecipazione dei loro figli come tempo sottratto ad altre attività?"I genitori svolgono un ruolo importante, sono loro ad accompagnare i figli alla Scuola di Musica, a fare in modo che possano partecipare ai concerti serali e agli eventi pubblici. Sono presenti e orgogliosi dei risultati raggiunti dai loro figli, e di contribuire alla formazione di una nuova generazione libera dai condizionamenti di un Paese tremendamente diseguale e segnato dalla violenza quotidiana delle bande criminali. Purtroppo il Guatemala offre poche opportunità di svago, che rimangono per lo più accessibili a un numero ristretto di persone. 1600 giovani impegnati nella musica, sono 1600 persone sottratte ai pericoli e alla vita della strada".
Una curiosità: dove avete reperito tutti gli strumenti musicali? È aggiungo anche una seconda curiosità: qual è lo strumento che più affascina i bimbi del Guatemala?
"Gli strumenti musicali sono frutto di donazioni. Il progetto MuniJoven nel 2011 e 2012 ha acquistato un numero complessivo di circa 100 strumenti musicali sia per l’orchestra sinfonica giovanile municipale che per la “marching band”, una nuova formazione musicale formata da 60 giovani integranti. Aggiungo che nel 2011 le orchestre giovanili hanno ricevuto una donazione anche da parte della Enel Cuore Onlus di Roma, per la ristrutturazione di alcuni locali della sede centrale della Scuola di Musica del Municipio di Città di Guatemala. Quindi, attraverso MuniJoven stiamo promuovendo una forte collaborazione tra il Guatemala e l’Italia, anche grazie all’Istituto Italiano di Cultura che invita regolarmente musicisti italiani a realizzare concerti con le orchestre guatemalteche. Inoltre, abbiamo favorito la professionalizzazione all’estero di alcuni musicisti dell’Orchestra Giovanile Municipale e nel 2012 abbiamo consegnato tre borse di studio in Europa per due giovani direttori d’orchestra e per una violoncellista che ha realizzato un corso nella città di Perugia.Rispetto alla seconda curiosità, non saprei, gli interessi sono equamente divisi”.
Potenziali spacciatori che diventano musicisti: fa riflettere su quanto siano determinanti le occasioni che la vita offre...
"Esatto; in Guatemala il 70% della popolazione è al di sotto dei 30 anni e solo una piccola parte accede facilmente al mondo del lavoro. Per tutti gli altri, il futuro è molto incerto. Quindi, offrire una possibilità di crescita personale e professionale attraverso lo studio gratuito della musica è un’opportunità che ti cambia la vita. Questi ragazzi infatti aspirano a diventare non solo dei bravi musicisti, ma anche e soprattutto delle persone migliori".
E Simona Torretta quanto di sè sta mettendo in questo progetto e in che misura si sta sentendo arricchita?
"Io ho avuto una vera e propria infatuazione per questo progetto delle orchestre giovanili del Guatemala. Fin dalla prima volta che li ho sentiti suonare in pubblico sono stata travolta dall’entusiasmo di questo corpo di giovani musicisti e dalla loro bravura tecnica, e da quel momento mi sono impegnata a dare il mio contributo con i mezzi della cooperazione internazionale, facendo conoscere il progetto e lavorando alla costruzione di una rete di sostenitori a livello internazionale. Ho sempre amato la musica classica, e sono contenta di avere avuto la possibilità di arricchire le mie conoscenze musicali, e tra le mie melodie preferite ci sono il “Danzon N. 2” del compositore messicano Arturo Marquez e “Huapango” del compositore messicano Jose Pablo Moncayo".
Lei ha girato il mondo: una ricchezza e una povertà particolari che connotano il Guatemala.
"La ricchezza del Guatemala è formata dalla sua stessa gente, grandi lavoratori che sognano come tutti di avere una vita normale e un lavoro dignitoso. Purtroppo però il Paese è ancora colpito da profonde diseguaglianze sociali che ne impediscono una reale crescita".Ultima domanda: come lei ben sa a Pavia c’è un’associazione che opera in Guatemala, Ains. Pensa sia possibile un rapporto che porti i pavesi a collaborare con voi?
"Sono in contatto con l’Associazione Ains. E spero presto di poterli conoscere di persona e approfondire le possibilità di collaborazioni, perchè sarebbe molto importante per noi".
Daniela Scherrer
Il Ticino8 marzo 2013
PAVIA ITALIA NO PROFIT: "ORDINI E COLLEGI PROFESSIONALI COME AIUTO AL SOCIALE"
La puntata racconta l'importanza del supporto degli ordini e collegi professionali alle associazioni di volontariato che operano in vari Paesi del mondo, ma anche sul territorio locale.
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Marco Majocchi |
Tale collaborazione può infatti offrire un aiuto non solo tecnico ma anche umano e organizzativo nell'ottica di uno scambio di competenze apprese in ambito formale ed informale.
Intervengono:
Marco Majocchi, consigliere ordine ingegneri Prov. Pavia in studio.
Lorenzo Buratti, ordine ingegneri,
Enrico Frisone, collegio infermieri,
Giovanni Belloni, ordine medici,
Ruggero Rizzini, AINS - Associazione Italiana Nursing Sociale
per vedere la puntata
http://youtu.be/_aQzWYSS3hU"
7 marzo 2013
Ains invita le onlus in Guatemala

maria grazia piccaluga
la provincia pavese, 27 marzo 2013
4 marzo 2013
VIDEOMAKING PER IL SOCIALE
CORSO DI FORMAZIONE PER VOLONTARI
SEDE: STRADELLA
martedì 19 marzo 2013, ore 17.30 – 20.30
Filippo Ticozzi è tra i fondatori della casa di produzione La Città Incantata, per la quale realizza diversi filmati istituzionali, spot sociali e documentari. Per Sky ha realizzato la serie documentaria sul Cile, “Il Paese Sottile”. Come indipendente ha scritto e diretto i cortometraggi "Lilli" e "Dall'altra parte della strada" e i documentari "Un cammino lungo un giorno" e "A tentoni come fosse notte" che sono stati selezionati in tutto a più di 90 festival cinematografici (tra gli altri: Visioni Italiane, Filmmaker Film Festival, San Francisco Independent Film Festival, Hamburg Film Festival, Valdarno Cinema, Duisburg Filmwoche, Ahmedabad International Film Festival, Trento Film festival, Opere Nuove, Manchester Film Festival, ecc.)
SCADENZA ISCRIZIONI VENERDI 15/03/2013
IN COLLABORAZIONE CON
Calypso Pavia e Oltrepò
Società dell’Accademia Stradella e Voghera
Associazione Nazionale Partigiani Stradella
Artemista Spessa Po
Chicercacrea Valverde
Energetica Stradella
Legambiente Stradella
Legambiente Circolo Jacaranda Oltrepò orientale
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA
CSV PAVIA
SEDE DI PAVIA
Via Bernardo da Pavia, 4 - Pavia
tel 0382.526328 fax 0382.524381
e-mail: comunicazione@csvpavia.it
www.csvpavia.it
SEDE: STRADELLA
IL CORSO
Il corso si concentrerà sui diversi aspetti della lavorazione di un film, concentrandosi in particolare sul documentario sociale e antropologico. Il percorso formativo inizierà con una panoramica generale sulle inevitabili questioni teoriche, cercando però assiduamente una loro applicazione immediata, apprendendo i rudimenti della tecnica, scoprendo quanto questo linguaggio sia ricco e articolato e come possa essere applicato all'approfondimento sociale. Particolare attenzione sarà data al filmmaking, ossia al cercare di utilizzare i proprio mezzi, facendo di necessità virtù, per riuscire a creare un'opera personale. La teoria non sarà mai fine a se stessa, ma sempre coadiuvata da esercitazioni pratiche ed esemplificazioni.
CALENDARIOmartedì 19 marzo 2013, ore 17.30 – 20.30
sabato 23 marzo 2013, ore 14.00 – 17.00
martedì 26 marzo 2013, ore 17.30 – 20.30
sabato 6 aprile 2013, ore 14.00 – 17.00
martedì 9 aprile 2013, ore 17.30 – 20.30
sabato 13 aprile 2013, ore 14.00 – 17.00
martedi 16 aprile 2013, ore 14.00 – 17.00
sabato 20 aprile 2013, ore 14.00 – 17.00
DOCENTE

Scrive di letteratura sulla rivista Pulp Libri e saltuariamente insegna cinematografia (Università di Pavia, Manchester University, Università di Brescia, Officina Film, CSV, Arci).
Il corso è gratuito e destinato a: volontari, aspiranti volontari, operatori di associazioni.
Il corso è aperto a un massimo di 15 partecipanti.SCADENZA ISCRIZIONI VENERDI 15/03/2013
IN COLLABORAZIONE CON
Calypso Pavia e Oltrepò
Società dell’Accademia Stradella e Voghera
Associazione Nazionale Partigiani Stradella
Artemista Spessa Po
Chicercacrea Valverde
Energetica Stradella
Legambiente Stradella
Legambiente Circolo Jacaranda Oltrepò orientale
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