Simone Deri ha incontrato Francesco Gesualdi, del Centro Nuovo Modello di Sviluppo per parlare del suo libro, che tratta delle prospettive concrete su cui lavorare per pensare diversamente e cambiare i nostri stili di vita ( tratto dal sito: www.ztl.eu)
Qual è stato lo spunto di partenza di questo libro, che tra l'altro inizia non con un'introduzione ma con un appello?
Lo spunto riguarda due ragioni, di carattere sociale e ambientale, perché fondamentalmente esse si tengono per mano e vanno di pari passo. Sai bene che noi ci occupiamo da sempre di squilibri internazionali, ma in questo caso non si tratta solo di scoprire i meccanismi che li stanno provocando; vogliamo cominciare a parlare di prospettive.Se vogliamo iniziare a fare un serio discorso di sollevamento dei popoli del Sud del mondo bisogna inevitabilmente fare i conti con la distribuzione delle risorse e il rispetto dell'ambiente. Questo ci fa capire quanto sia importante interrogarci sul nostro modello di sviluppo, cominciando a ragionare su come organizzare in modo migliore la nostra economia e la nostra società occidentale in un'ottica di sobrietà, intesa come minore utilizzo di risorse e minore produzione di rifiuti.
Cosa è cambiato, secondo te, nel sistema di sviluppo di questi ultimi anni rispetto ai decenni '70 e '80?
Il sistema sta procedendo in una maniera schizofrenica, rispetto agli anni '70 sta cominciando finalmente ad ammettere che esistono seri problemi di carattere ambientale. Lo dimostrano il protocollo di Kyoto, i problemi energetici attuali e, ahimé, anche la guerra in Iraq per il controllo del petrolio.Da una parte mi pare che il sistema stia cominciando ad ammettere la carenza di risorse e l'incontrollata emissione dei rifiuti, dall'altra però non accetta di trarre le dovute conseguenze, continuando a parlare in maniera folle di crescita.In altre parole, penso che ci troviamo in un momento di passaggio durante il quale si comincia ad ammettere che qualcosa bisogna rivedere, tuttavia questo sistema è ancora troppo ancorato al "vecchio" per indirizzarsi seriamente nell'ottica della trasformazione.
Sottolinei più volte in questo libro la questione del debito, qualsiasi debito, come una sorta di motore economico del capitalismo.Qual è il tuo pensiero, anche alla luce delle recenti esplosioni economiche di India e Cina?
Qui di nuovo il sistema è di fronte alle sue contraddizioni e alle sue schizofrenie. Credo che sia necessario premettere che questo è il sistema dei mercanti, pensato ad immagine e somiglianza dei mercanti.Dei grandi mercanti, naturalmente.La parola d'ordine è stata sempre quella di dare quanto più impulso possibile al commercio, così oggi ci troviamo in una situazione totalmente dominata dalle grandi imprese di livello mondiale dove l'unica prospettiva è quella del commercio globalizzato, che ha messo poi in moto tutta una serie di altri meccanismi i quali accompagnano - se addirittura non ne stanno alla base - il boom economico della Cina, dell'India e di altri paesi dei Sud del mondo.La prospettiva alla quale noi stiamo assistendo è che, se questa tendenza continua a proseguire lungo la strada che ha imboccato, risulterà poi possibile un reale trasferimento di produzione di ricchezza dal Nord verso il Sud.La Cina, ad esempio, si sta sempre più affermando come la fabbrica mondiale dei beni materiali.Il che significa che se non ci saranno dei settori di compensazione, e sono ancora tutti da individuare, ci potrà essere non un allargamento della ricchezza a livello mondiale, bensì un semplice spostamento: prima si produceva di qua, dopo si produrrà di là.Anche perché l'idea che ci sia una nuova divisione internazionale del lavoro dove in Cina e in India si producono i beni materiali e nel Nord del mondo i servizi e le tecnologie avanzate non è detto che funzioni. In effetti una nazione, quando si incammina verso la rivoluzione industriale, tenta di utilizzare tutte le ricerche tecnologiche per sostenere la propria crescita, pertanto è presumibile che in futuro occupi pure questi altri spazi di sviluppo. Aggiungo che, se da un lato non si capisce bene dove stiamo andando, dall'altro al capitale internazionale interessa produrre in Cina o in Italia esclusivamente per motivi economici.Se è così, allora l'unico potere che in una situazione del genere potrebbe incontrare qualche problema è quello politico il quale, per forza di cose, è ancora ancorato ai confini nazionali.Qualora si creasse una situazione che genera un eccessivo scontento nella nostra parte di mondo, il potere politico potrebbe trovarsi di fronte al decidere cosa fare: se appoggiare i capitalisti alimentando questa confusione sociale oppure accontentare le proprie popolazioni che ricercano sicurezza, occupazione, servizi. La chiave di volta potrebbe essere proprio l'indebitamento. Gli Stati Uniti fanno scuola da questo punto di vista dato che sono un paese che campa assolutamente al di sopra delle proprie possibilità; hanno una bilancia commerciale che è in deficit spaventoso, hanno un bilancio pubblico in deficit, sono indebitate le famiglie, lo stato, le imprese e la loro economia vive rastrellando risparmi dal resto del mondo.Quindi la situazione che si potrebbe creare in futuro è che in una parte del mondo si produce ma, in virtù della forza militare e politica che si è costruita nel tempo, il Nord continua a risucchiare risorse dal resto del pianeta anche attraverso il meccanismo del debito il quale, naturalmente, riesce poi a essere imposto anche attraverso l'uso delle armi.
Parliamo del lavoro, che oggi viene visto dalle imprese come un costo, anzitutto. Tra l'altro il FMI ha approvato le riforme sulla mobilità introdotte in Italia. Eppure per le attuali generazioni di giovani stanno scomparendo le tutele conquistate nei decenni scorsi.
Nella logica capitalista il lavoro è solo un costo ed è sganciato dalla persona umana. Mentre in altri tempi e culture il lavoro era visto come una necessità dell'uomo finalizzata alla sopravvivenza, il capitalismo l'ha trasformato in una questione esclusivamente monetaria, per cui se fosse svolto da robot a un costo ancora più basso, per il capitalismo andrebbe ancor meglio, perché i robot non avrebbero nemmeno pretese sindacali.Questo spiega perché il capitalismo si lascia andare anche alle forme più aberranti di lavoro, fino alla schiavitù. Non dobbiamo dimenticare che il processo di rivoluzione industriale si è costruito a partire dal 1700 sul lavoro in schiavitù degli africani che venivano deportati nelle piantagioni di cotone negli Stati Uniti, da cui poi partiva il cotone che veniva filato in Inghilterra attraverso l'industria tessile, che è stata la prima a usufruire di macchinari per la produzione.Poiché in questo momento di globalizzazione la concorrenza internazionale si è fatta più aspra, il lavoro è finito sotto assedio: per ridurne i costi vengono smantellate tutte le sicurezze che la socialdemocrazia aveva eretto e che le aziende vivono come rigidità.Da qui la richiesta delle aziende di avere più libertà per impiegare nuovi lavoratori, salvo poi licenziarli quando gli pare.
La domanda che ci dobbiamo fare è "lavoro per chi e per che cosa?"
Per questo dobbiamo cominciare a uscire dalla logica del lavoro come costo, propria di un'ottica di tipo mercantilistico, mentre si deve tornare a rivederlo come un qualcosa che serve anzitutto a soddisfare i propri bisogni. Può essere considerato come fatica, ma in effetti è fatica, però è anche creatività e realizzazione. Per costruire una società dal volto umano dobbiamo quindi ricreare le condizioni affinché il lavoro riacquisti queste caratteristiche. Deve essere un lavoro che dà sicurezze, un lavoro di qualità per la realizzazione della persona che lo compie, pertanto dobbiamo essere capaci di operare profonde trasformazioni.Intanto però si può cominciare a riaffermare, senza uscire dagli schemi di questo mondo, che il lavoro deve comunque rispettare alcune caratteristiche di fondo. Se continuiamo a considerare il lavoro come costo, non si può tuttavia trascinarlo su un piano di concorrenza che non ha limiti. Dobbiamo cominciare a mettere dei paletti; ad esempio il salario, in qualsiasi parte del mondo, deve permettere di vivere dignitosamente. In più, i diritti fondamentali devono essere rispettati ovunque. Questo impone che si rivedano i trattati internazionali dei rapporti economici come quelli del WTO.
Interpretando le tue risposte, mi sembra di capire che la politica possa agire come freno contro questa deriva capitalistica se noi, come società civile, riusciamo a farci sentire presso i nostri rappresentanti politici.
Certamente. La politica deve assumere un predominio sull'economia. Ma oggi sta succedendo l'esatto contrario; c'è una sudditanza paurosa da parte del mondo politico verso gli interessi economici. Viviamo in un paese, l'Italia, dove addirittura assistiamo a una coincidenza tra interessi politici ed economici, al punto che è perfino ovvio che la politica si diriga nella direzione opposta. Al contrario, essa deve riacquistare la chiarezza del suo ruolo tornando ad essere quel luogo dove si scrivono le regole per dare un volto umano alla società e all'economia.
Leggendo il tuo libro, riflettevo sul fatto che gli eventi degli ultimi anni hanno messo alle corde le democrazie occidentali. Siamo forse arrivati al limite della democrazia al punto di doverla ripensare?
A mio avviso non va ripensata come sistema di civiltà.Bisogna però chiedersi quali siano le condizioni che stanno alla base di una società democratica.La prima condizione è che la gente possa esercitare il proprio diritto di sovranità. Questo presuppone che la gente abbia un certo tipo di preparazione, dei princìpi e dei valori di riferimento. In tutto questo un ruolo centrale va alla scuola, ovviamente. Oggigiorno si sta utilizzando la democrazia come maschera, come un alibi per consentire ai furbi di poter governare per i loro interessi dando apparentemente l'impressione che abbiano ottenuto una delega a governare da parte della gente.Essi ci riescono proprio perché al tempo stesso stanno facendo di tutto per demolire la scuola, riducendola ad uno straccio che non garantisce più la preparazione necessaria per mettere la gente in condizione di partecipare, di capire e di determinare le scelte. Oltretutto il potere politico ha anche il controllo dei mezzi d'informazione.Ma in un sistema globalizzato le decisioni vengono prese in base all'idea che ti fai rispetto ai fatti, quindi il potere dei media diventa fondamentale, perché i media hanno il potere di poter interpretare la realtà facendotela vedere in una maniera o in un'altra, condizionando così il modo di pensare. In altre parole, non dobbiamo ripensare il sistema di gestione dei nostri stati, ma dobbiamo assolutamente creare le condizioni affinché la democrazia possa funzionare seriamente. La prospettiva è che si viva in uno stato dittatoriale dalle apparenze democratiche e questa è la peggior beffa che si possa fare alla democrazia.
Sviluppo e progresso. Nelle pagine del tuo libro mi sembra di leggere una limitata fiducia da parte tua nella tecnologia e nella scienza. Eppure il pensiero comune è tutto l'opposto: se si ammette che ci siano problemi di ordine ambientale ed energetico, al tempo stesso si presuppone che prima o poi le cose vadano a posto da sole.
Siamo in un mondo strano, da una parte pieno di affermazioni illuministe secondo le quali non ci dobbiamo fidare dei nostri sensi perché tutto deve essere rigorosamente scientifico, cioè basato sulle conoscenze e sui dati di fatto; dall'altra, invece, abbiamo un atteggiamento per una serie di tematiche, come il progresso e la tecnologia, che appartiene più alla fede e ai dogmi. La cosa curiosa è proprio questa: un settore altamente scientifico come la tecnologia sta in realtà trasmigrando verso una sorta di fede incondizionata, stando a quanto si legge nella mentalità della gente.Di fatto, tutto ciò toglie la scienza dalla sfera illuminista. Eppure si tratta solo di avere la capacità di dire: ancora non abbiamo trovato la soluzione a questo o a quel problema. Se è così non possiamo attendere speranzosi, perché la speranza ha a che fare con la fede, appunto, e non con la scientificità.Invece dobbiamo muoverci secondo le conoscenze e le tecnologie che abbiamo e se questo significa che la tecnologia attuale non mi permette di fare certi progetti, allora io faccio, molto scientificamente, un passo in linea con quel che ho. Se domani la tecnologia cambierà, farò un altro passo ancora. Oggi si vaneggia rispetto al creare il sole sulla terra come fonte d'energia, ma allo stato attuale è solamente un vaneggiamento; stiamo superando l'era dei combustibili fossili però non abbiamo ancora una soluzione futura in tasca. A conti fatti, questo sistema sta creando tutte le premesse per scavare la propria fossa, perché senza energia esso non può esistere.Allora mi permetto di fare un appello alla concretezza, anche in difesa degli esclusi che appartengono al Sud del mondo: costruiamo il presente e il futuro con quello che abbiamo e non con quello che potremmo solo avere.
Mi pare che questa visione "dogmatica" della tecnologia vada a braccetto con una certa visione consumistica comune: ci troviamo in un mondo pieno di cose da comprare, le compriamo, ma non riflettiamo sulle origini e sulle cause dei processi, fidandoci esclusivamente di quello che ci viene presentato…
Purtroppo oggi viviamo in una società terribilmente irresponsabile.Tutte le popolazioni che ci hanno preceduto, magari senza averlo scelto ma semplicemente perché si sentivano parte integrante di un mondo che avvertivano più grande di loro, inserivano il loro vivere dentro i cicli naturali e così facendo creavano le condizioni affinché le generazioni successive trovassero le medesime condizioni per poter continuare a vivere. Noi, in questa sbornia dell'essere i dominatori del mondo, non ci preoccupiamo assolutamente di ciò che succederà nel lungo periodo, ma puntiamo soltanto a fare le scorpacciate del momento, senza nessuna prospettiva storica. È un sistema che chiede ad ognuno di fare man bassa di ciò che può… e poi staremo a vedere.
In effetti sembra quasi che parliamo di due mondi diversi: quello apparente e quello reale che alcuni, come te, tentano di descrivere senza pregiudizi…
Credo che ci siano stati altri momenti storici in cui le "avanguardie della popolazione" avvertivano la crisi all'orizzonte, mentre le rappresentanze del sistema continuavano a ostentare e proporre il modello del momento senza pensare di trovarsi già sul crinale della decadenza.Pensando alle decadenze passate, mi viene da fare un paragone con la caduta dell'impero romano: fino a quando non c'è stata l'invasione dei barbari e la disfatta totale, credo che coloro che detenevano il potere continuassero a riproporre il loro modello. Un po' come sul Titanic; la barca stava affondando e i passeggeri continuavano a ballare.Credo che questo sia un po' il destino della storia: il potere in tutti i modi tenta di non ammettere che ci siano segnali del tracollo, continuando ad andare avanti come se niente fosse.Leggendo i giornali mi rendo conto che su pagine diverse si dicono cose totalmente contrarie: a pagina X mi capita di leggere qualcosa sui problemi della biosfera e del surriscaldamento, mentre poche pagine più avanti ci sono le notizie economiche dove si dice che si deve crescere sempre di più.La schizofrenia di cui si diceva prima si vede proprio dentro agli stessi strumenti del potere. Quest'ultimo tenta finché può di conservare se stesso, ma è solo quando l'avanguardia s'ingrossa fino a mostrare a tutti l'imperatore nudo che si creano le condizioni per poterci salvare in tempo.
Tempo fa ho letto sul sito di un quotidiano nazionale un articolo di Lovelock, lo scienziato che negli anni '70 rivoluzionò l'analisi dell'ambiente con la teoria di Gaia, il quale avvertiva che siamo ormai giunti ad un punto di non ritorno per quanto riguarda il surriscaldamento terrestre, con conseguenze catastrofiche per il clima.
In effetti il punto è proprio questo. Non è in gioco il futuro del pianeta terra, che continuerà a girare attorno al sole generando nuove forme di vita adattabili alle nuove condizioni. Il problema è il genere umano che probabilmente non possiede la capacità di adattarsi velocemente ai cambiamenti climatici mondiali.Le trasformazioni climatiche, che ci sono sempre state nel pianeta ma che avvenivano nel corso di millenni, oggi avvengono nell'arco di pochi anni.Noi corriamo il grosso rischio che queste rapide trasformazioni mettano a repentaglio attività per noi vitali come l'agricoltura. Inoltre assistiamo a catastrofi come gli uragani, sempre più frequenti, mentre la società che abbiamo costruito ci ha spinto ad un individualismo che mina la solidarietà umana.I problemi più seri sono proprio sul piano agricolo con probabili carenze di cibo.Ma è quantomeno preoccupante che i mass media, quando si rendono conto che un certo messaggio può essere dannoso per i loro interessi, lo omettano subito.Da un lato essi cercano di apparire come una vetrina democratica pubblicando certi messaggi, dall'altro si affrettano a toglierli perché non vogliono che si affermino. Da questo punto di vista la loro responsabilità è molto grave.
Cosa ne pensi della diffusione e dell'accettazione delle idee di cui tu parli - e non sei il solo a farlo? Potrebbero essere inserite in altre forme di comunicazione?
Ormai certe consapevolezze iniziano a radicarsi, dato che alcune trasformazioni sono ormai evidenti.Ma è perlomeno curiosa la schizofrenia attuale, a tutti livelli; se da un lato constatiamo certi cambiamenti, dall'altro abbiamo paura di rimettere in discussione l'esistente in quanto offre sempre più sicurezza rispetto al nuovo che richiede fantasia, impegno e creatività.Io credo che siamo anche sopraffatti dalla pigrizia oltre che dalla paura, quindi preferiamo poi rimettere la testa sotto la sabbia per far finta di non vedere. Ritorna ancora la "fede" di cui si diceva prima.Il numero di persone che acquistano la consapevolezza che le cose non funzionano sotto il profilo sociale e ambientale sta crescendo; i giovani lo stanno toccando con mano: non hanno più un lavoro sicuro, non possono più programmare la loro vita e così via. Da qui però a trasformarlo in un progetto di cambiamento ce ne corre.Questa è la grande sfida che abbiamo di fronte a noi: riuscire a capire che tipo di prospettiva ci vogliamo costruire. È questo lo sforzo più grande che faccio nel libro: capire quali potrebbero essere dei meccanismi nuovi di funzionamento di una società che fa i conti col senso del limite invece che con la crescita infinita. Per questo è importante che certi temi inizino a circolare proprio creando il consenso tra la gente.Anche la narrativa può giocare il suo ruolo: individuiamo tutti gli strumenti possibili per raggiungere la gente. Tuttavia non si può pensare di andare avanti a spot parlando di trasformazioni così profonde.Non si può passare attraverso semplici messaggi pubblicitari. La gente deve essere consapevole dello spessore della trasformazione necessaria. Però non abbiamo più molto tempo, quindi quelli che hanno raggiunto una certa consapevolezza si attrezzino per condividerla, questa consapevolezza.Chi sa fare saggistica, utilizzi quella forma, così pure la narrativa, la fumettistica e così via. Gli strumenti sono tanti e vanno usati tutti, ma io dico che soprattutto è importante iniziare a sperimentare nei fatti, perché la sperimentazione ha anche una connotazione di comunicazione che diventa testimonianza visibile.La gente vede e inizia a interrogarsi su questo sistema e su come sia possibile superarlo con delle alternative. Queste devono essere le nuove frontiere della comunicazione: la sperimentazione e la testimonianza.
Per finire, quali sono i tuoi progetti e a cosa stai lavorando attualmente?
È appena uscita la Guida al vestire critico. Nel nostro Centro ne parliamo da molto tempo, ma abbiamo sempre fatto molte resistenze rispetto a questo argomento perché sembrava estremamente difficile da indagare. Però alla fine ci siamo detti di provarci, provando a descrivere l'esistente, dando i consigli possibili per un vestire equo e rispettoso del lavoro che c'è dietro. Per il resto, siamo una piccola realtà che di volta in volta si misura con le proprie forze e con le proprie possibilità.
Francesco Gesualdi, Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti per tutti, Feltrinelli, 2005, pp.163, 9 €
22 dicembre 2009
Natale 2009: meno buoni e più giusti, meno caritatevoli e più solidali
Siamo a Natale e tutti diventano più buoni. Ma subito dopo tutti ritornano come prima. E poi noi italiani sembra che siamo di natura campioni di generosità. Infatti, lo si nota ogni qualvolta accadono delle emergenze umanitarie. Il terremoto degli Abruzzi ha scosso tutti e ha suscitato una grande generosità del nostro popolo italiano, sia in forma di aiuti economici e sia anche di disponibilità a livello di volontariato per l'assistenza dei colpiti dalla calamità. La stessa cosa è avvenuta anni fa nei confronti della vittime del Tsumani, oppure nei confronti di tante altre emergenze che sono avvenute sia in Italia che nel mondo. Anche la crisi economica ha provocato tante forme di generosità nei confronti di chi perde lavoro o di chi viene impoverito. Come pure quante campagne di beneficienza vengono promosse continuamente nei confronti dei poveri del Sud del Mondo.
Tutta questa generosità è senza dubbio importante e stimabile, si tratta di un segno evidente che il nostro popolo ha un substrato di bontà.
Ma quello che mi fa pensare parecchio è che si manifesta solamente nelle situazioni di emergenza e a livello assistenziale, mentre non riesce a diventare impegno quotidiano di ricerca della giustizia sociale. Con altre parole, si tratta di un agire legato solamente alla cura ma non riesce a diventare prevenzione per poter rimuovere le cause che generano poi l'emergenza, l’impoverimento, le ingiustizie e i conflitti sociali.
La crisi finanziaria ha cause ben precise e ci sono dei responsabili che sono coloro che da anni avevano predicato più mercato libero e meno Stato, permettendo la speculazione finanziaria proprio perché non hanno voluto norme e leggi in modo da inserire la giustizia nel mondo finanziario, dando etica alla finanza.
Così pure una analisi attenta e seria sulle calamità naturali ci rivela che la colpa non è sempre e solo della natura, ma ci sono delle cause umane ben precise. Come pure i cambiamenti climatici ci stanno rivelando che l’origine antropica è molto consistente, ossia provocati soprattutto da cause umane.
Di fronte a tutto questo noi continuiamo ad agire soprattutto ad un livello di generosità e di carità economica, coinvolgendo solamente il nostro portafoglio ma non la nostra vita. È la linea dell’assistenzialismo che primeggia ancora nelle nostra testa e nelle nostre azioni. Mentre facciamo ancora molto fatica coniugare la giustizia con le nostre scelte di vita.
Siamo dunque molto generosi e buoni, ma non riusciamo a fare un salto di qualità sulla linea della giustizia sociale. Facciamo molto fatica masticare la giustizia e farla diventare vita quotidiana. Con altre parole, farla diventare quel valore e quella virtù che orientano le nostre azioni e scelte.
Non sarebbe meglio essere meno buoni e caritatevoli, ma impegnarsi di più nell’essere giusti e per una solidarietà intelligente che rimuova finalmente le cause dei problemi?
Dobbiamo far uscire la nostra solidarietà dall’assistenzialismo e darle intelligenza, affinché possa rimuovere finalmente le cause che generano i vari problemi sociali.
Questo tessuto di giustizia sociale è molto fragile in Italia. Allora, ci si riduce ad essere buoni e generosi.
Questa bontà tende a non riconoscere i diritti, ma offre solamente dei favori in forma di assistenzialismo, esigendo dall’altra parte solo doveri, senza l’impegno di promuovere i loro diritti. Mentre la giustizia riconosce sia i diritti che i doveri: gli uni non esistono senza gli altri. E tutti devono farne l’asse portante della propria vita secondo le proprie responsabilità dovute dai propri compiti civili e umani.
Bisogna riscattare una politica che faccia della giustizia sociale l’asse portante del suo esistere, educando il proprio popolo in tutte le sue dimensioni ad incarnare nella propria vita quotidiana il valore del bene comune, della legalità, del senso civico delle istituzioni democratiche, del primato dell’umano sull’economico ecc.
Una politica che non insegua i consensi, conformandosi a quello che la gente vuole a livello di pancia o di istinto, ma educhi ai valori e alle realtà basilari per un futuro davvero migliore per tutti. Insomma, una politica che svolga il ruolo di leadership e non di followship nei confronti della gente, recuperando anche il primato sull’economia e sulla finanza.
Dobbiamo chiedere anche alla nostra Chiesa uno slancio nel riscoprire la giustizia come una delle caratteristiche fondamentali di Dio, come ci ha ricordato il Card. Carlo Maria Martini. Superando quel periodo storico, dove per molti anni si è chiesto ai ricchi solamente di dare qualcosa ai poveri, senza il coraggio di far capire a loro che devono fare giustizia, inserendola in tutte le fase della vita economica e non solamente nel dare una parte del profitto, come sottolinea molto bene la recente enciclica del Papa “Caritas in Veritate”.
Ecco perché nella coscienza della gente c’è un grande substrato di generosità ma molto scarso e debole è tuttora l’impegno per la giustizia.
E allora, dobbiamo imparare ad essere meno generosi e più giusti, meno caritatevoli e più solidali.
Che il “Dio con noi” ci sproni a fare della giustizia sociale una grande passione dell’umanità, per poter realizzare davvero il suo Regno in mezzo a noi: la convivialità delle differenze e il villaggio del bene comune.
Padova 21 dicembre 2009
Adriano Sella
(missionario del Creato e discepolo dei nuovi stili di vita
Tutta questa generosità è senza dubbio importante e stimabile, si tratta di un segno evidente che il nostro popolo ha un substrato di bontà.
Ma quello che mi fa pensare parecchio è che si manifesta solamente nelle situazioni di emergenza e a livello assistenziale, mentre non riesce a diventare impegno quotidiano di ricerca della giustizia sociale. Con altre parole, si tratta di un agire legato solamente alla cura ma non riesce a diventare prevenzione per poter rimuovere le cause che generano poi l'emergenza, l’impoverimento, le ingiustizie e i conflitti sociali.
La crisi finanziaria ha cause ben precise e ci sono dei responsabili che sono coloro che da anni avevano predicato più mercato libero e meno Stato, permettendo la speculazione finanziaria proprio perché non hanno voluto norme e leggi in modo da inserire la giustizia nel mondo finanziario, dando etica alla finanza.
Così pure una analisi attenta e seria sulle calamità naturali ci rivela che la colpa non è sempre e solo della natura, ma ci sono delle cause umane ben precise. Come pure i cambiamenti climatici ci stanno rivelando che l’origine antropica è molto consistente, ossia provocati soprattutto da cause umane.
Di fronte a tutto questo noi continuiamo ad agire soprattutto ad un livello di generosità e di carità economica, coinvolgendo solamente il nostro portafoglio ma non la nostra vita. È la linea dell’assistenzialismo che primeggia ancora nelle nostra testa e nelle nostre azioni. Mentre facciamo ancora molto fatica coniugare la giustizia con le nostre scelte di vita.
Siamo dunque molto generosi e buoni, ma non riusciamo a fare un salto di qualità sulla linea della giustizia sociale. Facciamo molto fatica masticare la giustizia e farla diventare vita quotidiana. Con altre parole, farla diventare quel valore e quella virtù che orientano le nostre azioni e scelte.
Non sarebbe meglio essere meno buoni e caritatevoli, ma impegnarsi di più nell’essere giusti e per una solidarietà intelligente che rimuova finalmente le cause dei problemi?
Dobbiamo far uscire la nostra solidarietà dall’assistenzialismo e darle intelligenza, affinché possa rimuovere finalmente le cause che generano i vari problemi sociali.
Questo tessuto di giustizia sociale è molto fragile in Italia. Allora, ci si riduce ad essere buoni e generosi.
Questa bontà tende a non riconoscere i diritti, ma offre solamente dei favori in forma di assistenzialismo, esigendo dall’altra parte solo doveri, senza l’impegno di promuovere i loro diritti. Mentre la giustizia riconosce sia i diritti che i doveri: gli uni non esistono senza gli altri. E tutti devono farne l’asse portante della propria vita secondo le proprie responsabilità dovute dai propri compiti civili e umani.
Bisogna riscattare una politica che faccia della giustizia sociale l’asse portante del suo esistere, educando il proprio popolo in tutte le sue dimensioni ad incarnare nella propria vita quotidiana il valore del bene comune, della legalità, del senso civico delle istituzioni democratiche, del primato dell’umano sull’economico ecc.
Una politica che non insegua i consensi, conformandosi a quello che la gente vuole a livello di pancia o di istinto, ma educhi ai valori e alle realtà basilari per un futuro davvero migliore per tutti. Insomma, una politica che svolga il ruolo di leadership e non di followship nei confronti della gente, recuperando anche il primato sull’economia e sulla finanza.
Dobbiamo chiedere anche alla nostra Chiesa uno slancio nel riscoprire la giustizia come una delle caratteristiche fondamentali di Dio, come ci ha ricordato il Card. Carlo Maria Martini. Superando quel periodo storico, dove per molti anni si è chiesto ai ricchi solamente di dare qualcosa ai poveri, senza il coraggio di far capire a loro che devono fare giustizia, inserendola in tutte le fase della vita economica e non solamente nel dare una parte del profitto, come sottolinea molto bene la recente enciclica del Papa “Caritas in Veritate”.
Ecco perché nella coscienza della gente c’è un grande substrato di generosità ma molto scarso e debole è tuttora l’impegno per la giustizia.
E allora, dobbiamo imparare ad essere meno generosi e più giusti, meno caritatevoli e più solidali.
Che il “Dio con noi” ci sproni a fare della giustizia sociale una grande passione dell’umanità, per poter realizzare davvero il suo Regno in mezzo a noi: la convivialità delle differenze e il villaggio del bene comune.
Padova 21 dicembre 2009
Adriano Sella
(missionario del Creato e discepolo dei nuovi stili di vita
21 dicembre 2009
Per un Natale sobrio
Legambiente Circolo "Chico Mendes"
Indichiamo di seguito alcuni suggerimenti per ridurre questi pesanti impatti ambientali e sociali e per trasformare le festività natalizie in un’occasione per ricercare uno stile di vita più sobrio e sostenibile:
1. Rinunciare ad ogni acquisto superfluo. Evitiamo di farci travolgere dalla corsa agli acquisti indotta dalla pubblicità, dalle offerte speciali e dalle vetrine luminose: dovremmo sempre chiederci se quello che stiamo acquistando è davvero necessario o se è solamente l’ennesimo bene superfluo di cui le nostre case sono già piene.
2. Regalare la solidarietà. Un suggerimento per un regalo alternativo e di forte valore sociale ed educativo, è quello di regalare una donazione ad un progetto di cooperazione internazionale e/o di una associazione di volontariato.
3. Autoproduzione: regalare un oggetto o un dolce fatto con le proprie mani è sicuramente più divertente ed apprezzato. Chi lo dice che dolci e decorazioni dobbiamo per forza acquistarli?
4. Scegliere i prodotti del commercio equo e solidale. Regali e oggetti davvero “buoni” , ottenuti senza lo sfruttamento dei lavoratori e che sostengono le popolazioni più povere del pianeta, possono essere acquistati nelle botteghe del commercio equo e solidale.
5. Scegliere oggetti durevoli e a basso impatto ambientale. Riteniamo fondamentale scegliere sempre prodotti resistenti e durevoli, rifiutando in ogni caso i prodotti “usa e getta”, che comportano uno spreco di risorse naturali e di energia e incrementano la produzione di rifiuti.
6. Ridurre le luminarie ed i consumi energetici. Proponiamo di ridurre il numero delle luminarie, da sostituire con altri addobbi riutilizzabili (magari autoprodotti) e di limitarne comunque il periodo e gli orari di accensione. In ogni caso, consigliamo di spegnere sempre le luminarie prima di andare a dormire e quando si esce di casa.
7. Per quanto riguarda i tradizionali “cenoni”, suggeriamo di sperimentare l’alternativa vegetariana: esistono infatti moltissime ricette per realizzare pietanze deliziose nel pieno rispetto degli animali.
Indichiamo di seguito alcuni suggerimenti per ridurre questi pesanti impatti ambientali e sociali e per trasformare le festività natalizie in un’occasione per ricercare uno stile di vita più sobrio e sostenibile:
1. Rinunciare ad ogni acquisto superfluo. Evitiamo di farci travolgere dalla corsa agli acquisti indotta dalla pubblicità, dalle offerte speciali e dalle vetrine luminose: dovremmo sempre chiederci se quello che stiamo acquistando è davvero necessario o se è solamente l’ennesimo bene superfluo di cui le nostre case sono già piene.
2. Regalare la solidarietà. Un suggerimento per un regalo alternativo e di forte valore sociale ed educativo, è quello di regalare una donazione ad un progetto di cooperazione internazionale e/o di una associazione di volontariato.
3. Autoproduzione: regalare un oggetto o un dolce fatto con le proprie mani è sicuramente più divertente ed apprezzato. Chi lo dice che dolci e decorazioni dobbiamo per forza acquistarli?
4. Scegliere i prodotti del commercio equo e solidale. Regali e oggetti davvero “buoni” , ottenuti senza lo sfruttamento dei lavoratori e che sostengono le popolazioni più povere del pianeta, possono essere acquistati nelle botteghe del commercio equo e solidale.
5. Scegliere oggetti durevoli e a basso impatto ambientale. Riteniamo fondamentale scegliere sempre prodotti resistenti e durevoli, rifiutando in ogni caso i prodotti “usa e getta”, che comportano uno spreco di risorse naturali e di energia e incrementano la produzione di rifiuti.
6. Ridurre le luminarie ed i consumi energetici. Proponiamo di ridurre il numero delle luminarie, da sostituire con altri addobbi riutilizzabili (magari autoprodotti) e di limitarne comunque il periodo e gli orari di accensione. In ogni caso, consigliamo di spegnere sempre le luminarie prima di andare a dormire e quando si esce di casa.
7. Per quanto riguarda i tradizionali “cenoni”, suggeriamo di sperimentare l’alternativa vegetariana: esistono infatti moltissime ricette per realizzare pietanze deliziose nel pieno rispetto degli animali.
16 dicembre 2009
Guatemala: rapporto di Amnesty International sulle uccisioni da parte della polizia
In un nuovo rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha condannato l'operato delle autorità del Guatemala, che non svolgono indagini approfondite sulle uccisioni extragiudiziali in cui sono coinvolti agenti di polizia. L'organizzazione per i diritti umani continua a ricevere segnalazioni di uccisioni di persone, spesso di giovane età, incensurate o sospettate di aver commesso reati.
"Nonostante le ripetute segnalazioni e inchieste da parte di organismi locali e internazionali per i diritti umani, si tratta di un problema costante" - ha dichiarato Kerrie Howard, vicedirettrice del Programma Americhe di Amnesty International. "Il governo del Guatemala deve prendere in seria considerazione le denunce e avviare indagini approfondite e tempestive".
Gli organi d'informazione e le autorità guatemalteche definiscono frequentemente queste uccisioni extragiudiziali come operazioni di "pulizia sociale", destinate a "ripulire" la società da persone sospettate di essere coinvolte in attività criminali.
Amnesty International chiede al governo del Guatemala di rispettare i suoi obblighi di diritto internazionale relativi al diritto alla vita e di sottoporre a processo i responsabili delle violazioni di tale diritto.
Il Guatemala presenta tassi assai alti di crimine violento, ma una percentuale di condanne molto bassa. Si stima che il 98 per cento dei casi di omicidio nel paese rimanga irrisolto.
Amnesty International ha ricevuto numerose notizie di persone che, dopo essere entrate in contatto con la polizia, non sono più state viste vive. I corpi delle vittime, in alcuni casi persino tredicenni, vengono ritrovati per lo più in discariche o in terreni abbandonati, con le mani legate dietro la schiena, strangolati o con molti segni di colpi di arma da fuoco esplosi da distanza ravvicinata. Le indagini vengono spesso aperte dopo mesi, un lasso di tempo nel corso del quale la maggior parte delle prove per identificare i responsabili finisce per essere persa.
Chiedendo la fine delle esecuzioni extragiudiziali ad opera della polizia, l'organizzazione per i diritti umani fa presente come finora non sia stata assunta alcuna seria iniziativa per portare i responsabili di queste violazioni a rispondere del loro operato.
Roma, 15 dicembre 2009
Per approfondimenti e interviste:
Amnesty International Italia - Ufficio stampa
Tel. 06 4490224 - cell. 348-6974361, e-mail: press@amnesty.it
"Nonostante le ripetute segnalazioni e inchieste da parte di organismi locali e internazionali per i diritti umani, si tratta di un problema costante" - ha dichiarato Kerrie Howard, vicedirettrice del Programma Americhe di Amnesty International. "Il governo del Guatemala deve prendere in seria considerazione le denunce e avviare indagini approfondite e tempestive".
Gli organi d'informazione e le autorità guatemalteche definiscono frequentemente queste uccisioni extragiudiziali come operazioni di "pulizia sociale", destinate a "ripulire" la società da persone sospettate di essere coinvolte in attività criminali.
Amnesty International chiede al governo del Guatemala di rispettare i suoi obblighi di diritto internazionale relativi al diritto alla vita e di sottoporre a processo i responsabili delle violazioni di tale diritto.
Il Guatemala presenta tassi assai alti di crimine violento, ma una percentuale di condanne molto bassa. Si stima che il 98 per cento dei casi di omicidio nel paese rimanga irrisolto.
Amnesty International ha ricevuto numerose notizie di persone che, dopo essere entrate in contatto con la polizia, non sono più state viste vive. I corpi delle vittime, in alcuni casi persino tredicenni, vengono ritrovati per lo più in discariche o in terreni abbandonati, con le mani legate dietro la schiena, strangolati o con molti segni di colpi di arma da fuoco esplosi da distanza ravvicinata. Le indagini vengono spesso aperte dopo mesi, un lasso di tempo nel corso del quale la maggior parte delle prove per identificare i responsabili finisce per essere persa.
Chiedendo la fine delle esecuzioni extragiudiziali ad opera della polizia, l'organizzazione per i diritti umani fa presente come finora non sia stata assunta alcuna seria iniziativa per portare i responsabili di queste violazioni a rispondere del loro operato.
Roma, 15 dicembre 2009
Per approfondimenti e interviste:
Amnesty International Italia - Ufficio stampa
Tel. 06 4490224 - cell. 348-6974361, e-mail: press@amnesty.it
5 dicembre 2009
Santo, sobrio Natale
Non sprecare inutilmente l’acqua, usare lampadine a basso consumo, non lasciare in stand by gli elettrodomestici, praticare il car-sharing, utilizzare criteri "etici" quando si fa la spesa: nel mondo cattolico si afferma la tendenza ad adottare quelli che vanno sotto il nome di "nuovi stili di vita". Una correzione ecologica ed evangelica al consumismo imperante: la rivoluzione, a partire dalle piccole cose.
Passare dal Pil al Fil (Felicità interna lorda). Da ciò che misura il portafoglio al termometro della felicità. Nel Natale della crisi, è questa la Buona Novella che annunciano gruppi, parrocchie e associazioni cattoliche, insieme a tanti uomini e donne di buona volontà. Non parlano di sacrifici, ma di consapevolezza. Propongono di cambiare il proprio stile di vita per migliorare la qualità dell’esistenza di tanti. Suggeriscono di sfruttare la crisi come "kairòs", tempo propizio per diventare "virtuosi", per individuare il superfluo e rinunciarvi.
È la filosofia che guida la Rete interdiocesana dei nuovi stili di vita – ventisei diocesi, fino a oggi, distribuite per lo più al Nord – e che anima tante esperienze che al Centro e al Sud indicano percorsi di vita controcorrente. «Non siamo né eroi né santi, ma cristiani responsabili e cittadini solidali», dice padre Adriano Sella, missionario, coordinatore della Rete. «Il nostro è un movimento nato dal basso che vuole coinvolgere le comunità e arrivare anche a livello istituzionale, avere un risvolto politico». L’idea del movimento è che cambiare è possibile senza fare cose straordinarie, ma intervenendo nella vita feriale, da quando ci si alza al mattino a quando si spegne la luce prima di addormentarsi: chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti, senza sprecare acqua; usare lampadine a basso consumo, non lasciare in stand by gli elettrodomestici, fare ogni tanto un "digiuno" da sms, automobile e gratta e vinci; praticare il car-sharing e, soprattutto, capire che fare la spesa non è un’operazione neutra ma "etica". «Quando si fa la spesa si esprime un voto», spiega padre Adriano, citando l’economista Leonardo Becchetti.
In un volume pubblicato da Il Margine lo scorso anno, il docente di Economia politica e presidente del Comitato etico di Banca etica spiega che, oltre al voto politico, anima della democrazia, c’è un voto che esercitiamo ogni giorno scegliendo quali prodotti acquistare. Preoccupandosi non soltanto del prezzo, ma orientando anche le scelte di spesa verso le aziende attente alla qualità sociale e ambientale, si attua una rivoluzione vera e propria, perché «le imprese, per fronteggiare una domanda etica forte ed esigente, sono costrette a corrispondere alle aspettative dei consumatori, mettendo la sostenibilità al primo posto».
Il "voto nel portafoglio" è dunque un’azione in grado di cambiare radicalmente l’economia e si esprime attraverso una scelta concreta che compie il consumatore. Pura utopia? «Non direi. Basta guardare al commercio equo e solidale, che è partito da un gruppetto di ragazzi e oggi è diffuso in maniera capillare. Sapere che dietro ogni prodotto c’è un’impresa, capire come tratta i lavoratori, quale rispetto ha per l’ambiente, imparare a leggere le etichette, sono operazioni etiche», aggiunge padre Adriano. «Una spesa giusta promuove meccanismi economici giusti».
Su queste tematiche da circa due anni gli uffici di alcune diocesi si sono messi in Rete: nella maggior parte dei casi, è la Pastorale sociale e del lavoro che promuove una tale attenzione. Ma in alcune realtà, come a Rimini, la Commissione nuovi stili di vita rientra nella Pastorale familiare; oppure, come nel caso di Fidenza, fa riferimento all’Ufficio missionario; o ancora, a Belluno, riguarda uno specifico Ufficio per la cultura e gli stili di vita in montagna. In concreto gli uffici organizzano riunioni interregionali a scadenze regolari. E, dal 2007 – anno in cui Padova, con padre Adriano, ha promosso la Rete, insieme con altre 5 diocesi – si sono alternati ogni anno laboratori e convegni. I primi per mettere a confronto gli operatori impegnati direttamente, una cinquantina di persone; i secondi per coinvolgere più realtà e persone su tematiche di interesse comune.
«Nel primo laboratorio fatto a Verona a fine 2007, abbiamo individuato le piste pastorali da seguire», spiega padre Sella. Lavorare in Rete tra uffici pastorali diocesani ma anche con realtà organizzate della società civile; approfondire la pista dell’economia, dal consumo consapevole ai "bilanci di giustizia"; prestare attenzione alla salvaguardia del creato; individuare linguaggi efficaci per comunicare, facendo lavorare cuore e cervello, fantasia e immaginazione, e non soltanto le parole. Da questa ultima suggestione, per esempio, sono nati alcuni laboratori proposti a gruppi e parrocchie. È il caso della "tenda degli stili di vita", un gazebo con sei pannelli espositivi che raccontano come una vita diversa generi a catena un rapporto nuovo con gli altri, le cose, la natura, la mondialità. La tenda in questi mesi gira per varie diocesi e sul sito di Padova (nuovistilidivitapadova.wordpress.com) è possibile richiedere un kit per fabbricarsela da soli. «La usiamo in scuole e parrocchie, cerchiamo di spiegare ai giovani l’influenza che le nostre scelte hanno anche sul Sud del mondo», racconta per esempio Francesco Panigaldi, responsabile dell’Ufficio animazione e formazione del Centro missionario di Modena. La tenda si ferma in media una settimana a parrocchia e viene accompagnata da un incontro formativo, ma alcuni richiedono più tempo e ulteriori approfondimenti per le varie fasce di età. «L’impressione è che la nostra proposta trovi comprensione soprattutto quando diciamo che occorre rallentare il ritmo di vita. Ma per tutti questa è la parte più difficile».
Grazie, invece, al laboratorio "Boicottega", si può capire che tipo di consumatore si nasconde in noi: integralista-maniaco, critico-consapevole, superficiale-istintivo o conformista-manipolabile. L’esperienza proposta, infatti, punta a far conoscere i prodotti delle multinazionali, del commercio equo e solidale e dell’agricoltura biologica e insegna a boicottare i prodotti di imprese che hanno comportamenti dannosi verso i lavoratori e verso l’ambiente. In concreto si tratta di fare una spesa virtuale in una bottega dove sono presenti merci di diversa provenienza, ciascuna con la sua etichetta di presentazione, che racconta la storia del marchio, della società, dell’azienda, e dei suoi comportamenti, più o meno responsabili. Dopo aver annotato cosa si vorrebbe comperare si passa alla valutazione delle scelte da cui emerge il profilo di consumatore. Alla fine, qualunque sia l’esito del test, viene consegnata una miniguida al consumo critico e al boicottaggio, realizzata dal movimento Gocce di Giustizia di Vicenza.
«È un cammino lento, ma notiamo che qualcosa sta cambiando», commenta Elisabetta Angelucci del Centro missionario di Reggio Emilia. «Le parrocchie alle sagre cominciano a usare materiali riciclabili. L’acqua è quella del rubinetto, in brocche di vetro, come suggerisce la campagna "Imbrocchiamo" lanciata da Altra Economia». Elisabetta parla di un ottimo lavoro di Rete, fatto in collaborazione con il Comune e con altre associazioni, che per esempio ha fatto registrare a Reggio Emilia, che aveva la percentuale più alta di consumo di bottiglie di acqua minerale in Italia, un calo del 10 per cento delle vendite. A Reggio la promozione delle campagne sui nuovi stili è affidata a un coordinamento di vari uffici diocesani, il Granello di Senape.
La fantasia fa moltiplicare le iniziative: all’ultimo meeting regionale missionario, tenuto a Piacenza, si è promosso il concorso "Impatto zero", che ha premiato i partecipanti che hanno usato mezzi di trasporto non inquinanti: «Da Fiorenzuola i ragazzi sono venuti in bicicletta, noi da Reggio siamo andati con un pullman di 72 posti, senza auto, e questo ha contribuito anche a farci scambiare quattro chiacchiere, a conoscerci meglio», dice Elisabetta.
Quello delle relazioni non è un argomento secondario. A Padova, per esempio, è stato realizzato un laboratorio da usare in gruppo, ai campi scuola, o in occasioni di ritrovo in piazza, tra sagre e feste popolari, proprio sulle relazioni umane. «Dobbiamo educarci a recuperarle e a farle diventare priorità della nostra vita quotidiana», dice padre Sella. «Noi europei non soffriamo molto la povertà economica, come nel Sud del mondo, ma viviamo in un contesto di grande povertà relazionale». Fermarsi ad ascoltare l’altro, parlare di sé, compiere un gesto di accoglienza: il laboratorio propone una sequenza di comportamenti guidati e finalizzati «a recuperare la ricchezza delle relazioni umane che abbiamo perso a causa del correre dietro all’accumulazione di tante cose. I beni relazionali sono essenziali per la vita umana e sono fondamentali per la felicità e il gusto del vivere», dice il religioso.
Nel 2007 queste riflessioni hanno portato al primo Convegno nazionale della neonata Rete, dove lo slogan «Dal Pil al Fil» venne coniato per parlare dei "Nuovi indicatori di benessere". Ai cambiamenti climatici è invece stato dedicato il secondo convegno nazionale, tenuto a Bologna lo scorso fine novembre. «La terra si scalda, è tempo di cambiare» è lo slogan delle Rete, che ha lanciato un appello in vista del vertice di Copenaghen, dal 7 al 18 dicembre.
Su "Giustizia, pace e salvaguardia del creato", temi lanciati dalle assemblee ecumeniche europee di Basilea e Graz, lavora da 15 anni la Fondazione della diocesi di Bolzano-Bressanone, che lo scorso mese è diventato Istituto di Etica sociale affiliato allo Studio teologico. L’uomo che ha guidato la Fondazione, monsignor Karl Golser, è oggi vescovo di questa diocesi, pioniera nello studio di tali tematiche, prima a lanciare in Italia la Giornata del creato, attenta alle esperienze maturate oltreconfine, interfaccia con il mondo tedesco.
«Oltre a trattare tematiche diverse, dall’educazione alla democrazia alla nuova Europa, con un’attenzione anche alle minoranze linguistiche e culturali», dice il teologo Paolo Renner, attuale direttore dell’Istituto, «siamo intervenuti su argomenti che riguardano la qualità della vita». Le proposte sono andate dai cimiteri eco-compatibili («corone realizzate con materiali biodegradabili?»), alla colazione responsabile («basta con marmellatine monodose, torniamo al vecchio barattolo per risparmiare sugli imballaggi»), alla borsa della spesa in tela, ai detergenti ecologici. Nel ’99 l’allora arcivescovo William Egger «dedicò all’ecologia la sua lettera pastorale e da allora la diocesi ha smesso di usare carta patinata e il giornale diocesano arriva agli abbonati in buste di carta».
Anche la vicina Trento ha lanciato una serie di proposte, prendendo spunto dall’anno liturgico. Così la scorsa Quaresima ogni settimana veniva proposto un digiuno particolare, motivato da un brano della Scrittura: penitenza da internet per valorizzare l’ascolto, digiuno dal denaro e quindi dal gioco dell’Enalotto e del gratta e vinci, per riflettere sulla speculazione e sul lavoro nero...
Un’altra diocesi pioniera su questi temi è Venezia. Si è partiti coltivando l’orto dietro la parrocchia e usando lampadine a basso consumo nelle sale dell’oratorio e si è arrivati al contatto con centinaia di famiglie e decine di sacerdoti. L’Ufficio per la pastorale degli stili di vita della diocesi è stato istituito il 25 maggio 2003 dal patriarca, il cardinale Angelo Scola. «Partendo dalla Parola di Dio, ci occupiamo di ecologia, problemi dell’ambiente e disparità nella divisione dei beni», racconta il responsabile dell’Ufficio, don Gianni Fazzini. Il pallino del sacerdote sembra proprio la formazione a «un’affascinante sobrietà»: sono numerosi, infatti, gli incontri rivolti a bambini, giovani, fidanzati, famiglie e preti per una qualità della vita lontana dal "torpore" del consumismo. Originale la proposta fatta a tutte le parrocchie affinché usino stoviglie lavabili (e non quelle di plastica). In una lettera ai parroci, don Gianni ha motivato così il gesto: compiere «un segno di amore per il creato» e arginare l’impatto sullo smaltimento rifiuti, acquistando anche piatti e bicchieri biodegradabili che tornano "terra" se raccolti come organico.
Con i vescovi emeriti Raffaele Nogaro (Caserta) e Luigi Bettazzi (Ivrea), don Fazzini figura pure tra i numerosi sacerdoti firmatari della petizione "Meno fuochi d’artificio, più compassione", rivolta ai comitati organizzatori delle feste patronali in tutta Italia. Migliaia di euro vanno in fumo tra botti, luminarie, bande e spettacoli: la proposta è destinare ogni anno il 10 per cento di queste spese alla realizzazione di impianti fotovoltaici sui tetti delle parrocchie e investire poi i soldi risparmiati delle bollette della luce in progetti di autosviluppo nel Sud del mondo. Virtù ecologiche che sembrano aver contagiato molti: don Domenico Francavilla, uno dei preti che hanno siglato l’appello, è direttore della Caritas diocesana di Andria, già da tempo impegnata a promuovere in ambito ecclesiale scelte eco-compatibili. Tra le altre cose, organizza corsi di educazione ambientale e nella parrocchia Madonna di Pompei – come al seminario diocesano – gli impianti fotovoltaici, con i quali si produce energia elettrica per conversione diretta dei raggi solari, sono già una realtà. «Opere-segno che testimoniano la praticabilità, oltre che il fascino e la forza educativa, di un modo di produrre energia a zero emissioni nell’atmosfera», le definisce don Francavilla.
Andria è una delle tante diocesi che potrebbe aderire a una potenziale Rete interdiocesana del Centro-Sud sui nuovi stili di vita. Fino a oggi, infatti, la Rete si estende soprattutto al Nord. «Noi siamo aperti a tutti», dice il coordinatore, padre Adriano, «ma le difficoltà logistiche per incontri e scambi regolari suggerirebbero di far nascere coordinamenti anche tra le diocesi del Centro-Sud». Tra l’altro, le esperienze non mancano, nelle diocesi e nel mondo dell’associazionismo cattolico: come la Rete capillare delle Acli, che quest’anno, nel popolare quartiere romano della Garbatella, ha aperto un Gruppo di Acquisto Solidale Familiare (Gasf). «L’esperienza è nata dal desiderio di circa 200 famiglie che si ritrovano per fare insieme formazione», racconta Rosario Pavone, responsabile del Gasf. Accorciando la filiera – dal produttore direttamente al consumatore – si ha la sicurezza della qualità e un ottimo rapporto prezzo-qualità. Via mail ogni settimana le famiglie ordinano la spesa e tra venerdì e sabato vanno a ritirarla.
Sostenibilità ambientale e monitoraggio dei consumi sono anche l’anima della campagna «Bilanci di giustizia», lanciata nel ’93 da Beati i costruttori di pace e rivolta alle famiglie (oggi 500), per indirizzare la microeconomia domestica verso scelte eque e solidali: un’esperienza approdata anche al Centro-Sud, in provincia di Chieti e di Bari. Su scala più "vasta" opera l’Associazione nazionale famiglie numerose (coppie con almeno quattro figli tra naturali, adottivi o affidati), nata nel 2006 e promotrice di "Gruppi d’acquisto familiari" per materiale scolastico, cibo, pannolini, fino ai pacchi natalizi per sostenere famiglie in difficoltà.
La possibilità di fare acquisti equi esiste anche tramite la Rete degli empori solidali del Magis (Movimento e azione dei Gesuiti italiani per lo sviluppo): cominciata con la vendita tramite Web e telefono a famiglie, associazioni e comunità religiose dei prodotti provenienti da progetti missionari, l’iniziativa si stabilizzerà in una serie di punti vendita sparsi per la penisola. La scelta dei nuovi stili di vita, in effetti, non poteva non esercitare il suo fascino anche sui consacrati: nel novembre scorso il coordinatore della Rete interdiocesana ha incontrato, a Roma, decine di responsabili di Commissioni giustizia, pace e salvaguardia del creato di vari ordini religiosi. L’incontro ha fatto seguito a quello del 2008 con economi ed econome delle direzioni generali delle Congregazioni femminili e maschili, ideato per «sensibilizzare chi è responsabile dell’economia delle congregazioni a mettere in atto nuovi stili di vita, come una spesa etica, giusta e solidale», dice padre Sella. Inoltre, annuncia il religioso, «abbiamo in programma di realizzare anche una Rete intercongregazionale dei nuovi stili di vita. Ho già la disponibilità di alcune congregazioni religiose. È un impegno per il futuro prossimo».
Passare dal Pil al Fil (Felicità interna lorda). Da ciò che misura il portafoglio al termometro della felicità. Nel Natale della crisi, è questa la Buona Novella che annunciano gruppi, parrocchie e associazioni cattoliche, insieme a tanti uomini e donne di buona volontà. Non parlano di sacrifici, ma di consapevolezza. Propongono di cambiare il proprio stile di vita per migliorare la qualità dell’esistenza di tanti. Suggeriscono di sfruttare la crisi come "kairòs", tempo propizio per diventare "virtuosi", per individuare il superfluo e rinunciarvi.
È la filosofia che guida la Rete interdiocesana dei nuovi stili di vita – ventisei diocesi, fino a oggi, distribuite per lo più al Nord – e che anima tante esperienze che al Centro e al Sud indicano percorsi di vita controcorrente. «Non siamo né eroi né santi, ma cristiani responsabili e cittadini solidali», dice padre Adriano Sella, missionario, coordinatore della Rete. «Il nostro è un movimento nato dal basso che vuole coinvolgere le comunità e arrivare anche a livello istituzionale, avere un risvolto politico». L’idea del movimento è che cambiare è possibile senza fare cose straordinarie, ma intervenendo nella vita feriale, da quando ci si alza al mattino a quando si spegne la luce prima di addormentarsi: chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti, senza sprecare acqua; usare lampadine a basso consumo, non lasciare in stand by gli elettrodomestici, fare ogni tanto un "digiuno" da sms, automobile e gratta e vinci; praticare il car-sharing e, soprattutto, capire che fare la spesa non è un’operazione neutra ma "etica". «Quando si fa la spesa si esprime un voto», spiega padre Adriano, citando l’economista Leonardo Becchetti.
In un volume pubblicato da Il Margine lo scorso anno, il docente di Economia politica e presidente del Comitato etico di Banca etica spiega che, oltre al voto politico, anima della democrazia, c’è un voto che esercitiamo ogni giorno scegliendo quali prodotti acquistare. Preoccupandosi non soltanto del prezzo, ma orientando anche le scelte di spesa verso le aziende attente alla qualità sociale e ambientale, si attua una rivoluzione vera e propria, perché «le imprese, per fronteggiare una domanda etica forte ed esigente, sono costrette a corrispondere alle aspettative dei consumatori, mettendo la sostenibilità al primo posto».
Il "voto nel portafoglio" è dunque un’azione in grado di cambiare radicalmente l’economia e si esprime attraverso una scelta concreta che compie il consumatore. Pura utopia? «Non direi. Basta guardare al commercio equo e solidale, che è partito da un gruppetto di ragazzi e oggi è diffuso in maniera capillare. Sapere che dietro ogni prodotto c’è un’impresa, capire come tratta i lavoratori, quale rispetto ha per l’ambiente, imparare a leggere le etichette, sono operazioni etiche», aggiunge padre Adriano. «Una spesa giusta promuove meccanismi economici giusti».
Su queste tematiche da circa due anni gli uffici di alcune diocesi si sono messi in Rete: nella maggior parte dei casi, è la Pastorale sociale e del lavoro che promuove una tale attenzione. Ma in alcune realtà, come a Rimini, la Commissione nuovi stili di vita rientra nella Pastorale familiare; oppure, come nel caso di Fidenza, fa riferimento all’Ufficio missionario; o ancora, a Belluno, riguarda uno specifico Ufficio per la cultura e gli stili di vita in montagna. In concreto gli uffici organizzano riunioni interregionali a scadenze regolari. E, dal 2007 – anno in cui Padova, con padre Adriano, ha promosso la Rete, insieme con altre 5 diocesi – si sono alternati ogni anno laboratori e convegni. I primi per mettere a confronto gli operatori impegnati direttamente, una cinquantina di persone; i secondi per coinvolgere più realtà e persone su tematiche di interesse comune.
«Nel primo laboratorio fatto a Verona a fine 2007, abbiamo individuato le piste pastorali da seguire», spiega padre Sella. Lavorare in Rete tra uffici pastorali diocesani ma anche con realtà organizzate della società civile; approfondire la pista dell’economia, dal consumo consapevole ai "bilanci di giustizia"; prestare attenzione alla salvaguardia del creato; individuare linguaggi efficaci per comunicare, facendo lavorare cuore e cervello, fantasia e immaginazione, e non soltanto le parole. Da questa ultima suggestione, per esempio, sono nati alcuni laboratori proposti a gruppi e parrocchie. È il caso della "tenda degli stili di vita", un gazebo con sei pannelli espositivi che raccontano come una vita diversa generi a catena un rapporto nuovo con gli altri, le cose, la natura, la mondialità. La tenda in questi mesi gira per varie diocesi e sul sito di Padova (nuovistilidivitapadova.wordpress.com) è possibile richiedere un kit per fabbricarsela da soli. «La usiamo in scuole e parrocchie, cerchiamo di spiegare ai giovani l’influenza che le nostre scelte hanno anche sul Sud del mondo», racconta per esempio Francesco Panigaldi, responsabile dell’Ufficio animazione e formazione del Centro missionario di Modena. La tenda si ferma in media una settimana a parrocchia e viene accompagnata da un incontro formativo, ma alcuni richiedono più tempo e ulteriori approfondimenti per le varie fasce di età. «L’impressione è che la nostra proposta trovi comprensione soprattutto quando diciamo che occorre rallentare il ritmo di vita. Ma per tutti questa è la parte più difficile».
Grazie, invece, al laboratorio "Boicottega", si può capire che tipo di consumatore si nasconde in noi: integralista-maniaco, critico-consapevole, superficiale-istintivo o conformista-manipolabile. L’esperienza proposta, infatti, punta a far conoscere i prodotti delle multinazionali, del commercio equo e solidale e dell’agricoltura biologica e insegna a boicottare i prodotti di imprese che hanno comportamenti dannosi verso i lavoratori e verso l’ambiente. In concreto si tratta di fare una spesa virtuale in una bottega dove sono presenti merci di diversa provenienza, ciascuna con la sua etichetta di presentazione, che racconta la storia del marchio, della società, dell’azienda, e dei suoi comportamenti, più o meno responsabili. Dopo aver annotato cosa si vorrebbe comperare si passa alla valutazione delle scelte da cui emerge il profilo di consumatore. Alla fine, qualunque sia l’esito del test, viene consegnata una miniguida al consumo critico e al boicottaggio, realizzata dal movimento Gocce di Giustizia di Vicenza.
«È un cammino lento, ma notiamo che qualcosa sta cambiando», commenta Elisabetta Angelucci del Centro missionario di Reggio Emilia. «Le parrocchie alle sagre cominciano a usare materiali riciclabili. L’acqua è quella del rubinetto, in brocche di vetro, come suggerisce la campagna "Imbrocchiamo" lanciata da Altra Economia». Elisabetta parla di un ottimo lavoro di Rete, fatto in collaborazione con il Comune e con altre associazioni, che per esempio ha fatto registrare a Reggio Emilia, che aveva la percentuale più alta di consumo di bottiglie di acqua minerale in Italia, un calo del 10 per cento delle vendite. A Reggio la promozione delle campagne sui nuovi stili è affidata a un coordinamento di vari uffici diocesani, il Granello di Senape.
La fantasia fa moltiplicare le iniziative: all’ultimo meeting regionale missionario, tenuto a Piacenza, si è promosso il concorso "Impatto zero", che ha premiato i partecipanti che hanno usato mezzi di trasporto non inquinanti: «Da Fiorenzuola i ragazzi sono venuti in bicicletta, noi da Reggio siamo andati con un pullman di 72 posti, senza auto, e questo ha contribuito anche a farci scambiare quattro chiacchiere, a conoscerci meglio», dice Elisabetta.
Quello delle relazioni non è un argomento secondario. A Padova, per esempio, è stato realizzato un laboratorio da usare in gruppo, ai campi scuola, o in occasioni di ritrovo in piazza, tra sagre e feste popolari, proprio sulle relazioni umane. «Dobbiamo educarci a recuperarle e a farle diventare priorità della nostra vita quotidiana», dice padre Sella. «Noi europei non soffriamo molto la povertà economica, come nel Sud del mondo, ma viviamo in un contesto di grande povertà relazionale». Fermarsi ad ascoltare l’altro, parlare di sé, compiere un gesto di accoglienza: il laboratorio propone una sequenza di comportamenti guidati e finalizzati «a recuperare la ricchezza delle relazioni umane che abbiamo perso a causa del correre dietro all’accumulazione di tante cose. I beni relazionali sono essenziali per la vita umana e sono fondamentali per la felicità e il gusto del vivere», dice il religioso.
Nel 2007 queste riflessioni hanno portato al primo Convegno nazionale della neonata Rete, dove lo slogan «Dal Pil al Fil» venne coniato per parlare dei "Nuovi indicatori di benessere". Ai cambiamenti climatici è invece stato dedicato il secondo convegno nazionale, tenuto a Bologna lo scorso fine novembre. «La terra si scalda, è tempo di cambiare» è lo slogan delle Rete, che ha lanciato un appello in vista del vertice di Copenaghen, dal 7 al 18 dicembre.
Su "Giustizia, pace e salvaguardia del creato", temi lanciati dalle assemblee ecumeniche europee di Basilea e Graz, lavora da 15 anni la Fondazione della diocesi di Bolzano-Bressanone, che lo scorso mese è diventato Istituto di Etica sociale affiliato allo Studio teologico. L’uomo che ha guidato la Fondazione, monsignor Karl Golser, è oggi vescovo di questa diocesi, pioniera nello studio di tali tematiche, prima a lanciare in Italia la Giornata del creato, attenta alle esperienze maturate oltreconfine, interfaccia con il mondo tedesco.
«Oltre a trattare tematiche diverse, dall’educazione alla democrazia alla nuova Europa, con un’attenzione anche alle minoranze linguistiche e culturali», dice il teologo Paolo Renner, attuale direttore dell’Istituto, «siamo intervenuti su argomenti che riguardano la qualità della vita». Le proposte sono andate dai cimiteri eco-compatibili («corone realizzate con materiali biodegradabili?»), alla colazione responsabile («basta con marmellatine monodose, torniamo al vecchio barattolo per risparmiare sugli imballaggi»), alla borsa della spesa in tela, ai detergenti ecologici. Nel ’99 l’allora arcivescovo William Egger «dedicò all’ecologia la sua lettera pastorale e da allora la diocesi ha smesso di usare carta patinata e il giornale diocesano arriva agli abbonati in buste di carta».
Anche la vicina Trento ha lanciato una serie di proposte, prendendo spunto dall’anno liturgico. Così la scorsa Quaresima ogni settimana veniva proposto un digiuno particolare, motivato da un brano della Scrittura: penitenza da internet per valorizzare l’ascolto, digiuno dal denaro e quindi dal gioco dell’Enalotto e del gratta e vinci, per riflettere sulla speculazione e sul lavoro nero...
Un’altra diocesi pioniera su questi temi è Venezia. Si è partiti coltivando l’orto dietro la parrocchia e usando lampadine a basso consumo nelle sale dell’oratorio e si è arrivati al contatto con centinaia di famiglie e decine di sacerdoti. L’Ufficio per la pastorale degli stili di vita della diocesi è stato istituito il 25 maggio 2003 dal patriarca, il cardinale Angelo Scola. «Partendo dalla Parola di Dio, ci occupiamo di ecologia, problemi dell’ambiente e disparità nella divisione dei beni», racconta il responsabile dell’Ufficio, don Gianni Fazzini. Il pallino del sacerdote sembra proprio la formazione a «un’affascinante sobrietà»: sono numerosi, infatti, gli incontri rivolti a bambini, giovani, fidanzati, famiglie e preti per una qualità della vita lontana dal "torpore" del consumismo. Originale la proposta fatta a tutte le parrocchie affinché usino stoviglie lavabili (e non quelle di plastica). In una lettera ai parroci, don Gianni ha motivato così il gesto: compiere «un segno di amore per il creato» e arginare l’impatto sullo smaltimento rifiuti, acquistando anche piatti e bicchieri biodegradabili che tornano "terra" se raccolti come organico.
Con i vescovi emeriti Raffaele Nogaro (Caserta) e Luigi Bettazzi (Ivrea), don Fazzini figura pure tra i numerosi sacerdoti firmatari della petizione "Meno fuochi d’artificio, più compassione", rivolta ai comitati organizzatori delle feste patronali in tutta Italia. Migliaia di euro vanno in fumo tra botti, luminarie, bande e spettacoli: la proposta è destinare ogni anno il 10 per cento di queste spese alla realizzazione di impianti fotovoltaici sui tetti delle parrocchie e investire poi i soldi risparmiati delle bollette della luce in progetti di autosviluppo nel Sud del mondo. Virtù ecologiche che sembrano aver contagiato molti: don Domenico Francavilla, uno dei preti che hanno siglato l’appello, è direttore della Caritas diocesana di Andria, già da tempo impegnata a promuovere in ambito ecclesiale scelte eco-compatibili. Tra le altre cose, organizza corsi di educazione ambientale e nella parrocchia Madonna di Pompei – come al seminario diocesano – gli impianti fotovoltaici, con i quali si produce energia elettrica per conversione diretta dei raggi solari, sono già una realtà. «Opere-segno che testimoniano la praticabilità, oltre che il fascino e la forza educativa, di un modo di produrre energia a zero emissioni nell’atmosfera», le definisce don Francavilla.
Andria è una delle tante diocesi che potrebbe aderire a una potenziale Rete interdiocesana del Centro-Sud sui nuovi stili di vita. Fino a oggi, infatti, la Rete si estende soprattutto al Nord. «Noi siamo aperti a tutti», dice il coordinatore, padre Adriano, «ma le difficoltà logistiche per incontri e scambi regolari suggerirebbero di far nascere coordinamenti anche tra le diocesi del Centro-Sud». Tra l’altro, le esperienze non mancano, nelle diocesi e nel mondo dell’associazionismo cattolico: come la Rete capillare delle Acli, che quest’anno, nel popolare quartiere romano della Garbatella, ha aperto un Gruppo di Acquisto Solidale Familiare (Gasf). «L’esperienza è nata dal desiderio di circa 200 famiglie che si ritrovano per fare insieme formazione», racconta Rosario Pavone, responsabile del Gasf. Accorciando la filiera – dal produttore direttamente al consumatore – si ha la sicurezza della qualità e un ottimo rapporto prezzo-qualità. Via mail ogni settimana le famiglie ordinano la spesa e tra venerdì e sabato vanno a ritirarla.
Sostenibilità ambientale e monitoraggio dei consumi sono anche l’anima della campagna «Bilanci di giustizia», lanciata nel ’93 da Beati i costruttori di pace e rivolta alle famiglie (oggi 500), per indirizzare la microeconomia domestica verso scelte eque e solidali: un’esperienza approdata anche al Centro-Sud, in provincia di Chieti e di Bari. Su scala più "vasta" opera l’Associazione nazionale famiglie numerose (coppie con almeno quattro figli tra naturali, adottivi o affidati), nata nel 2006 e promotrice di "Gruppi d’acquisto familiari" per materiale scolastico, cibo, pannolini, fino ai pacchi natalizi per sostenere famiglie in difficoltà.
La possibilità di fare acquisti equi esiste anche tramite la Rete degli empori solidali del Magis (Movimento e azione dei Gesuiti italiani per lo sviluppo): cominciata con la vendita tramite Web e telefono a famiglie, associazioni e comunità religiose dei prodotti provenienti da progetti missionari, l’iniziativa si stabilizzerà in una serie di punti vendita sparsi per la penisola. La scelta dei nuovi stili di vita, in effetti, non poteva non esercitare il suo fascino anche sui consacrati: nel novembre scorso il coordinatore della Rete interdiocesana ha incontrato, a Roma, decine di responsabili di Commissioni giustizia, pace e salvaguardia del creato di vari ordini religiosi. L’incontro ha fatto seguito a quello del 2008 con economi ed econome delle direzioni generali delle Congregazioni femminili e maschili, ideato per «sensibilizzare chi è responsabile dell’economia delle congregazioni a mettere in atto nuovi stili di vita, come una spesa etica, giusta e solidale», dice padre Sella. Inoltre, annuncia il religioso, «abbiamo in programma di realizzare anche una Rete intercongregazionale dei nuovi stili di vita. Ho già la disponibilità di alcune congregazioni religiose. È un impegno per il futuro prossimo».
Vittoria Prisciandaro
(ha collaborato Laura Badaracchi)
tratto da Jesus di dicembre 2009
30 novembre 2009
La Terra è malata se scompaiono le api e i rospi
di Adolfo Pérez Esquivel *
Se gli esseri umani non inizieranno ad amare, curare e proteggere la casa comune dell’umanità - questo piccolo pianeta chiamato Terra - ogni essere vivente sarà in pericolo. I contadini sanno per esperienza diretta che ciò che si semina si raccoglie, e che non esiste un cammino diverso. È necessario riconoscere il ritmo del ciclo naturale e aspettare i suoi risultati. La scienza e la tecnica hanno modificato la comprensione e la dinamica della vita provocando l’accelerazione del tempo e l’alterazione dei ritmi naturali. Tutto ciò ha costretto l’umanità ad affrontare nuove sfide e nuovi valori, facendo perdere la comunione e l’equilibrio con la Madre Terra. Qualche giorno fa, durante l’incontro delle Assemblee popolari sulla difesa dell’ambiente, davanti alla devastazione e ai danni provocati dalle imprese minerarie, un medico che lavora nell’ospedale della provincia con pazienti oncologici mi ha detto: «Sai, a San Juan non ci sono più uccelli, né rospi. Sono scomparsi a causa del forte indice di inquinamento che ha spezzato la catena biologica e ha provocato numerose calamità, come ad esempio quella delle zanzare che causano il dengue».
Lo squilibrio ambientale, la contaminazione a cielo aperto delle miniere, l’inquinamento dell’acqua con cianuro e mercurio utilizzati per estrarre oro, argento e rame hanno fatto aumentare il numero di malattie e di decessi tra la popolazione locale. La produzione agricola della soia transgenica con le sue monocolture e l’utilizzo intensivo di prodotti chimici come il glifosato hanno provocato la distruzione dell’economia familiare e regionale generando malformazioni genetiche negli esseri umani e negli animali. Sono, inoltre, scomparse alcune specie animali come per esempio le api o le serpi. Quando si rompe l’equilibrio tra l’essere umano e la natura si origina la violenza. Sappiamo che le conseguenze dell’inquinamento si accumulano nel tempo. Le grandi imprese multinazionali, che privilegiano il capitale finanziario rispetto alla vita dei popoli, causano il deterioramento dell’ambiente, la desertificazione sempre maggiore nei vari paesi che soffrono la mancanza d’acqua, la distruzione dei boschi e la scomparsa della biodiversità. Esse distorcono i concetti di sviluppo e sfruttamento con la complicità e il permesso dei governi dove queste imprese operano. Il Mahatma Gandhi con la sua saggezza e la sua esperienza diceva che: «La Terra offre risorse sufficienti per i bisogni di tutti ma non per l’avidità di alcuni».
* Intellettuale Premio Nobel per la Pace nel 1980 per l’impegno civile e l’attività di denuncia contro gli abusi commessi dalla dittatura militare argentina negli anni 70. San Juan è una provincia argentina nella Cordillera delle Ande, al confine con il Cile. È zona di sfruttamento minerario a cielo aperto che provoca gravi danni ambientali irreversibili.
29 novembre 2009
Ains, un Natale per il Guatemala
L’associazione di San Martino chiede un aiuto per i più poveri
SAN MARTINO. L’Ains, l’Associazione italiana nursing sociale, organizza un Natale di solidarietà. L’associazione di San Martino impegnata per il Guatemala ha obiettivi concreti per questa campagna di raccolta fondi. Come già per le scorse festività natalizie anche per il Natale 2009 l’associazione conta di raccogliere innanzitutto materiale utile, quali dentifrici e spazzolini da denti, oltre alla piccola cancelleria ad uso scolastico come matite, biro, pennarelli, gomme e temperini. Tra gli obiettivi a medio e lungo termine innanzitutto il sostegno alla casa d’accoglienza per bambine «Santa Maria de Jesus» di Mazatenango, città situata nel nord del Guatemala al confine con il Messico. La casa da ospitalità a bambine e adolescenti con problemi familiari o di violenze subite. L’aiuto dato dall’associazione riguarda necessità economiche come per vitto e alloggio e altre di tipo psicologico-assistenziale: «Quest’anno la scommessa è il sostegno anche delle spese che riguardano la scuola», dice Emanuele Chiodini, volontario dell’associazione. Saranno sufficienti 4.000 euro per garantire la sopravvivenza dei più piccoli e 4.500 per garantire la continuità scolastica ai 35 ospiti della casa: 300 euro l’anno per impegnarsi in questo progetto solidale.
Per informazioni: Ruggero Rizzini 339.2546932 o edicola Chiodini (via Roma).
(chiara pelizza, la provincia pavese, 29 novembre 2009)
SAN MARTINO. L’Ains, l’Associazione italiana nursing sociale, organizza un Natale di solidarietà. L’associazione di San Martino impegnata per il Guatemala ha obiettivi concreti per questa campagna di raccolta fondi. Come già per le scorse festività natalizie anche per il Natale 2009 l’associazione conta di raccogliere innanzitutto materiale utile, quali dentifrici e spazzolini da denti, oltre alla piccola cancelleria ad uso scolastico come matite, biro, pennarelli, gomme e temperini. Tra gli obiettivi a medio e lungo termine innanzitutto il sostegno alla casa d’accoglienza per bambine «Santa Maria de Jesus» di Mazatenango, città situata nel nord del Guatemala al confine con il Messico. La casa da ospitalità a bambine e adolescenti con problemi familiari o di violenze subite. L’aiuto dato dall’associazione riguarda necessità economiche come per vitto e alloggio e altre di tipo psicologico-assistenziale: «Quest’anno la scommessa è il sostegno anche delle spese che riguardano la scuola», dice Emanuele Chiodini, volontario dell’associazione. Saranno sufficienti 4.000 euro per garantire la sopravvivenza dei più piccoli e 4.500 per garantire la continuità scolastica ai 35 ospiti della casa: 300 euro l’anno per impegnarsi in questo progetto solidale.
Per informazioni: Ruggero Rizzini 339.2546932 o edicola Chiodini (via Roma).
(chiara pelizza, la provincia pavese, 29 novembre 2009)
Pinuccia Balzamo eletta presidente del Csv di Pavia
PAVIA. Pinuccia Balzamo succede a Gianpietro Viazzoli alla guida del Centro servizi volontariato. Ieri (28 novembre 2009) si è svolta l’assemblea per l’elezione del Presidente, dopo la prematura scomparsa di Viazzoli. In apertura, l’assemblea, insieme al direttore del settimanale diocesano Il Ticino, don Franco Tassone, ha voluto ricordare il presidente Viazzoli, che, con le sue grandi spalle, ha portato il Csv di Pavia ad essere uno fra i migliori centri per le associazioni di volontariato della Lombardia. Le oltre quaranta associazioni presenti hanno eletto, all’unanimità, e per acclamazione, presidente Pinuccia Balzamo già eletta nel Consiglio Direttivo del Centro nel marzo scorso. Pinuccia Balzamo, ex assessore comunale all’Ambiente a Pavia, infatti, ricopriva già la carica di vicepresidente. Le numerose associazioni presenti all’assemblea di ieri, hanno voluto esprimere grande fiducia alla nuova presidente, in un momento storico che si presenta tutt’altro che facile per i Csv in tutta Italia, caratterizzato da un’importante riduzione dei fondi, in conseguenza della crisi economica, e dalla conseguente fase di incertezza. L’attività di Pinuccia Balzamo è da anni nota nel mondo delle associazioni ambientaliste. E’ stata assessore comunale all’Ecologia all’inizio degli anni Novanta e nella giunta di centrosinistra guidata da Piera Capitelli. Da tempo collabora con le cooperative sociali.
22 novembre 2009
Aspettando il 10 dicembre
Quando: dal 25/11/2005 al 10/12/2009
Dove: Sesto SanGiovanni (MI)
"Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.
Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti.
Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni."
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ONU, Assemblea Generale, 10 dicembre 1948
Questi sono alcuni degli articoli più significativi della Dichiarazione Universale.
Possono sembrare affermazioni scontate, ma così non è.
Purtroppo ancora oggi questi diritti sono negati a milioni di esseri umani persino nei paesi più democratici.
Per questo la nostra amministrazione comunale, dal 2002, partecipa alla Giornata Internazionale dei Diritti Umani che si celebra il 10 dicembre.
In questa giornata il Sindaco, il Presidente del Consiglio comunale e gli Assessori incontrano gli studenti di Sesto per riflettere insieme a loro sui temi dei diritti umani e per lasciare ad ogni scuola un dono simbolico: il canzoniere della pace
Quest’anno, con l’iniziativa Aspettando il 10 dicembre, abbiamo voluto allargare la riflessione proponendo eventi aperti a tutti i cittadini: inizieremo il 25 novembre con un incontro sul Guatemala per concludere il 10 dicembre in Sala consiliare con "Ricordiamo Teresa", in memoria di Teresa Sarti Strada.
Guatemala, che succede?
Costo: gratuito
Proposto da: Pace e Cooperazione Internazionale
Telefono: 02-24440428-05
Proiezione del documentario "Historias de Guatemala", a cura di Ains onlus di Pavia.
Presenta Felice Cagliani, Presidente del Consiglio comunale.
Introduce Dante Liano, scrittore guatemalteco, docente di letteratura ispanoamericana.
Seguirà un dibattito.
L'evento fa parte di: Aspettando il 10 dicembre
Dove: Sesto SanGiovanni (MI)
"Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.
Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti.
Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni."
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ONU, Assemblea Generale, 10 dicembre 1948
Questi sono alcuni degli articoli più significativi della Dichiarazione Universale.
Possono sembrare affermazioni scontate, ma così non è.
Purtroppo ancora oggi questi diritti sono negati a milioni di esseri umani persino nei paesi più democratici.
Per questo la nostra amministrazione comunale, dal 2002, partecipa alla Giornata Internazionale dei Diritti Umani che si celebra il 10 dicembre.
In questa giornata il Sindaco, il Presidente del Consiglio comunale e gli Assessori incontrano gli studenti di Sesto per riflettere insieme a loro sui temi dei diritti umani e per lasciare ad ogni scuola un dono simbolico: il canzoniere della pace
Quest’anno, con l’iniziativa Aspettando il 10 dicembre, abbiamo voluto allargare la riflessione proponendo eventi aperti a tutti i cittadini: inizieremo il 25 novembre con un incontro sul Guatemala per concludere il 10 dicembre in Sala consiliare con "Ricordiamo Teresa", in memoria di Teresa Sarti Strada.
Guatemala, che succede?
Quando: il 25/11/2009Ora: 21.00
Dove: sala Talamucci, villa Visconti d'Aragona, via Dante 6, Sesto San GiovanniCosto: gratuito
Proposto da: Pace e Cooperazione Internazionale
Telefono: 02-24440428-05
Proiezione del documentario "Historias de Guatemala", a cura di Ains onlus di Pavia.
Presenta Felice Cagliani, Presidente del Consiglio comunale.
Introduce Dante Liano, scrittore guatemalteco, docente di letteratura ispanoamericana.
Seguirà un dibattito.
L'evento fa parte di: Aspettando il 10 dicembre
21 novembre 2009
Progetto di microcredito per la produzione agricola presso l’aldea Aguahiel, Caseario El Guapinol
Il progetto consiste nel prestare a tasso d’interesse zero, l’equivalente di 150 euro ad ognuno dei 12 contadini facente parte del progetto, per la coltivazione e produzione di fagioli, mais ed ortaggi. Si è pensato di proporre questo tipo di progetto in quanto si sono già avute esperienze positive in altre aree rurali del paese. Concretamente la metodologia progettuale utilizzata sarà la seguente: individuazione dei 12 componenti il progetto, individuazione di due referenti (uno interno al gruppo e uno esterno), apertura di un conto bancario da parte del rappresentante del gruppo e del rappresentante esterno con doppia firma, istruzione al gruppo dei 12 per quanto concerne la gestione del fondo con monitoraggio da parte del referente esterno, gestione del 5% del guadagno proveniente dal proget to che sarà accantonato per essere restituito dopo un anno. Costo totale del progetto 2080 euro.
Progetto ittico presso l’aldee di Colmenas
Il progetto dal costo di 855 euro permette, attraverso l’allevamento di una particolare specie di pesce, di migliorare la nutrizione delle famiglie coinvolte e iniziare un processo di commercializzazione nell’aldea e nelle comunità confinanti. Il progetto è già iniziato con la creazione di una vasca d’allevamento grazie all’apporto dei gruppi familiari coinvolti nel progetto. Il progetto necessita di un finanziamento di sostenibilità avendo successivamente le caratteristiche di auto-sostenibilità.
Progetto per l’acquisto sementi per ortaggi (carote, lattuga, cipolla, pomodori,ecc,ecc) presso le aldee di Colmenas, Tatutù e Jocotan
Anche in questo caso con 1500 euro si forniscono sementi varie per la semina con l’obiettivo di migliorare la coltivazione e a questo obiettivo modificare in meglio l’alimentazione dei membri delle famiglie coinvolte nel progetto.
Progetto per la coltivazione di mais, fagioli e ortaggi presso l’aldea Aguahiel
Attraverso questo progetto si forniscono 100 quintali di fertilizzante a 25 famiglie di contadini per la semina di mais e fagioli con l’obiettivo di migliorarne la coltivazione e conseguentemente a questo obiettivo modificare in meglio l’alimentazione dei membri delle famiglie coinvolte nel progetto.
Il costo è di 2300 euro.
Il costo è di 2300 euro.
Progetto semina e trasformazione della soya presso l’Aldea Las Sidras
Il progetto consiste nel fornire a 5 famiglie semi di soya, concime organico e tutto il necessario per iniziare la semina e la conseguente lavorazione del raccolto. L’obiettivo è di creare un micro-circuito imprenditoriale che permetta alle famiglie l’autosostentamento e il miglioramento nutrizionale.
Il finanziamento di 2728 euro prevede momenti di formazione rivolti ai contadini impegnati nel progetto e il suo monitoraggio.
Il finanziamento di 2728 euro prevede momenti di formazione rivolti ai contadini impegnati nel progetto e il suo monitoraggio.
Simona Aztori: «Il mio splendido volo senz’ali»
La danzatrice ospite al Festival dei Diritti del CSV
PAVIA. Una cascata di capelli castani e un corpo che si libra leggero nell’aria: la danza di Simona Atzori, il suo “volo senz’ali”, come lei lo definisce, ti incanta. La ballerina e pittrice nata senza gli arti superiori ha ormai una fama mondiale. Esprime la sua vitalità attraverso la realizzazione di quadri (che dipinge con il piede), nella danza o semplicemente chiacchierando.
Lei dichiara: l’importante è non lasciare agli altri la possibilità di vedere dei limiti che tu non senti di avere. Qualcuno le ha mai fatto pesare i limiti che lei sa di non avere?
«Spesso la gente può pensare che dipingere con i piedi o danzare, come nel mio caso, sia una cosa particolare o limitante. Rappresenta invece la mia ricchezza, mi consente di fare ciò che amo».
Lei ammette di aver avuto la possibilità di esprimersi in modo speciale. Qual è il messaggio che trasmette mentre balla o dipinge?
«Che la vita è un dono grande e bisogna viverla con positività e passione per trovare i nostri talenti e esprimerli. Credo che danzare sia un modo per andare al di là della vita quotidiana e provare sensazioni speciali, la bellezza della vita stessa».
Il suo sogno da bimba?
«Diventare ballerina o pittrice. Non bisogna mai smettere di sognare, ciò ti può portare lontano, a capire ciò che sei».
La sua arte implica un grande lavoro sul corpo. Ha interesse anche per la voce?
«Amo molto cantare ma non ho mai pensato, anche per mancanza di tempo, di fare la cantante. La danza che faccio è molto teatrale e spesso in scena uso anche la voce. Il teatro unisce corpo e voce in modo perfetto».
di Michela cantarella, la provincia pavese, 20 novembre 2009
PAVIA. Una cascata di capelli castani e un corpo che si libra leggero nell’aria: la danza di Simona Atzori, il suo “volo senz’ali”, come lei lo definisce, ti incanta. La ballerina e pittrice nata senza gli arti superiori ha ormai una fama mondiale. Esprime la sua vitalità attraverso la realizzazione di quadri (che dipinge con il piede), nella danza o semplicemente chiacchierando.
Lei dichiara: l’importante è non lasciare agli altri la possibilità di vedere dei limiti che tu non senti di avere. Qualcuno le ha mai fatto pesare i limiti che lei sa di non avere?
«Spesso la gente può pensare che dipingere con i piedi o danzare, come nel mio caso, sia una cosa particolare o limitante. Rappresenta invece la mia ricchezza, mi consente di fare ciò che amo».
Lei ammette di aver avuto la possibilità di esprimersi in modo speciale. Qual è il messaggio che trasmette mentre balla o dipinge?
«Che la vita è un dono grande e bisogna viverla con positività e passione per trovare i nostri talenti e esprimerli. Credo che danzare sia un modo per andare al di là della vita quotidiana e provare sensazioni speciali, la bellezza della vita stessa».
Il suo sogno da bimba?
«Diventare ballerina o pittrice. Non bisogna mai smettere di sognare, ciò ti può portare lontano, a capire ciò che sei».
La sua arte implica un grande lavoro sul corpo. Ha interesse anche per la voce?
«Amo molto cantare ma non ho mai pensato, anche per mancanza di tempo, di fare la cantante. La danza che faccio è molto teatrale e spesso in scena uso anche la voce. Il teatro unisce corpo e voce in modo perfetto».
di Michela cantarella, la provincia pavese, 20 novembre 2009
14 novembre 2009
GUATEMALA: GLI INDIOS SANNO SCRIVERE?
di Maurizio Chierici
L’attenzione per le lingue indigene considerate ” reperti culturali da non disperdere “, ha involontariamente favorito un fenomeno: <”il risveglio della scrittura che non resta fenomeno isolato nei laboratori etnografici o negli archivi dei linguisti “, osserva lo scrittore ed etnologo messicano Carlos Montemayor. ” Ha istigato un risveglio politico conseguenza dei problemi che l’appartenenza sottolinea comuni. Dialogano gruppi contadini, si ritrovano nuove alleanze di integrazione regionale, nascono fronti di politica indigena e trova impulso l’educazione nelle zone rurali indigene. La stessa insurrezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale ne è il sintomo più conosciuto. Appaiono nuovi scrittori. Marcos ritrascrive e pubblica le loro favole in spagnolo e gli editori della fiera di Francoforte per un momento ne sono incuriositi. Altri poeti fanno da soli, non proprio soli: Carlos Montremayor che conosce un certo numero di lingue indiane rende accessibili i loro versi nella traduzione spagnol raccolta nell’ antologia più conosciuta apparsa in Messico negli anni Novanta. Che diventa francese, inglese, anche italiana.
Allora gli indios sanno leggere ? ” Forse anche scrivere “: sorride Humberto Ak’abal. E’ il poeta del Guatemala, simbolo della letteratura Maya? resuscitata. Anche nei sogni evoca la natura che ” i bianchi bruciano, tagliano, distruggono. Quando cerco la mia ombra e la trovo nell’acqua, mi accorgo di avere rami, foglie. Sono un albero. E guardo il cielo che ha il colore degli alberi, colore dell’acqua. Se tagliano i rami, tagliano le braccia”. Versi raccolti? nell’ antologia: ” Tessitore di parole “. Montemayor traduttore in castigliano; Lettere di Firenze, editore in Italia con testo a fronte curato da Emanuela Jossa, prefazione di Martha L. Canfield. Humberto viene da un mondo nascosto nelle montagne. Humberto obbliga a penetrare la realtà che disconosciamo invitando a scoprire l’anima indigena che vive e respira al fianco di ogni americano nello stesso tempo del loro tempo, stessa vita della loro vita che è la vita di un continente.
Ak’abal? abita nelle montagne del Guatemala. Sta diventando qualcuno e i curiosi di passaggio vanno a trovarlo. <”Devi assolutamente vederlo “, raccomandano gli intellettuali della capitale. E il giornalista lascia città di Guatemala per Monostenango, 2500 metri, due ore dopo Chichicastenango il mercato indio più famoso d’America. Humberto non è in casa, sta pascolando perché Humberto si guadagna da vivere facendo il pastore. E’ partito due giorni fa. La moglie svizzera non se ne preoccupa. Ha conosciuto Humberto quando è arrivata su questa montagna? con una Ong della solidarietà: da Losanna alle nuvole del Guatemala povero e sconosciuto, ed incontra Humberto.
Alto, massiccio, zoppica per una caduta dalla scala. E’ sopra i cinquant’anni. Una fascia rossa stringe la fronte. I capelli scendono sulle spalle. Proprio un indiano.
Il giornalista cammina per un ‘ora e trova il poeta nei prati. Si meraviglia: fuori da due giorni e dorme sull’erba ?? ” Dormo protetto dalle pecore. Le pecore mi riscaldano “. ” Paura ? “. ” Nello zaino porto un corno. Prima di chiudere gli occhi soffio e aspetto. Di là dal bosco risponde un altro corno ed un altro, e tanti ancora. E’ bello non essere soli. Mi addormento sereno “. ” I lupi ? “. ” Le pecore? sì inquietano e mi sveglio. Soffio nel corno in un certo modo soffocando il suono con la mano per imitare il verso del lupo femmina. Soffio controvento e il vento lo porta via. E il branco insegue il vento e il gregge torna tranquillo “.
Humberto non ha finito le prime scuole, ma a scuola era l’allievo preferito di un poeta guatemalteco: Alfredo Arango. ” Quasi bianco eppure viveva come un indio. Arrivava a scuola a cavallo. Inorridiva ogni mattina nel fare l’appello: ‘ Garcia…’. ‘ Morto stanotte maestro ‘. Ogni mattina un posto vuoto. A fine anno restavamo in pochi,. Fame e malattie? rubavano i ragazzi. La mia vita somigliava a quella di tutti, eppure mi sentivo diverso: continuavo a sognare “.
Il villaggio aveva un capo: suo nonno, sciamano dal cuore d’oro. Un giorno arrivano i gendarmi e lo arrestano per ordine del grande proprietario. ” Aveva chiesto qualche pannocchia in più per i contadini al lavoro da sole a sole, pochi centesimi: fame. Lo hanno portato via con le mani legate, trascinato a piedi dai gendarmi a cavallo e la nonna lo rincorreva con una bottiglia d’acqua e qualche tortilla “.
Dai prati del pascolo il giornalista e il poeta sono scesi nell’albergo della capitale. I turisti entrano felici mentre ad Ak’abal? si rompe la voce e smette di ricordare. Piange come un bambino asciugando gli occhi nella tovaglia del pranzo e i turisti lo guardano con compassione: indigeni maleducati.
Il nonno torna dagli anni della prigione con una cassa di libri. E’ il regalo di un dissidente politico rimasto dentro. Gli ha insegnato a fare la firma puntando l’indice sulla terra umida della cella. Humberto non sa ancora cosa sono i libri. Il solo libro della classe restava nelle mani del maestro, oggetto misterioso che ammirava da lontano. Il nonno nasconde i libri e lo invita a diffidare. ” Sono pensieri che diventano di carta, guardarli potrebbe essere pericoloso “. Mai dire mai a un ragazzo che spia goloso il libro del maestro. Un giorno scende nella cantina dove il nonno ha sepolto i volumi. Sa appena sillabare ma comincia? a volare.
Mentre gli ospiti dell’albergo lo stanno fotografando con risolini? per la fascia rossa, fronte sudata e? voce che si alza e si abbassa mentre batte il tavolo con la mano aperta, Ak’abal che sta bevendo troppo perché ” bere in comoagnia per un Maya è un modo per diventare amici “, all’improvviso smette di parlare. ” Non ti ho ancora recitato una poesia ? Ascolta:..”. E il giornalista ascolta. Declama versi ai quali non serve la traduzione ” perché la natura parla attraverso la voce di lupi e uccelli. I rumori diventano versi. Il maya è una lingua semplice come la natura. Un esempio: non si dice ‘ piegare un ramo’.? Scriviamo ‘ goch’ il rumore di quando il ramo si spezza. E tu capisci.”
L’attenzione per le lingue indigene considerate ” reperti culturali da non disperdere “, ha involontariamente favorito un fenomeno: <”il risveglio della scrittura che non resta fenomeno isolato nei laboratori etnografici o negli archivi dei linguisti “, osserva lo scrittore ed etnologo messicano Carlos Montemayor. ” Ha istigato un risveglio politico conseguenza dei problemi che l’appartenenza sottolinea comuni. Dialogano gruppi contadini, si ritrovano nuove alleanze di integrazione regionale, nascono fronti di politica indigena e trova impulso l’educazione nelle zone rurali indigene. La stessa insurrezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale ne è il sintomo più conosciuto. Appaiono nuovi scrittori. Marcos ritrascrive e pubblica le loro favole in spagnolo e gli editori della fiera di Francoforte per un momento ne sono incuriositi. Altri poeti fanno da soli, non proprio soli: Carlos Montremayor che conosce un certo numero di lingue indiane rende accessibili i loro versi nella traduzione spagnol raccolta nell’ antologia più conosciuta apparsa in Messico negli anni Novanta. Che diventa francese, inglese, anche italiana.
Allora gli indios sanno leggere ? ” Forse anche scrivere “: sorride Humberto Ak’abal. E’ il poeta del Guatemala, simbolo della letteratura Maya? resuscitata. Anche nei sogni evoca la natura che ” i bianchi bruciano, tagliano, distruggono. Quando cerco la mia ombra e la trovo nell’acqua, mi accorgo di avere rami, foglie. Sono un albero. E guardo il cielo che ha il colore degli alberi, colore dell’acqua. Se tagliano i rami, tagliano le braccia”. Versi raccolti? nell’ antologia: ” Tessitore di parole “. Montemayor traduttore in castigliano; Lettere di Firenze, editore in Italia con testo a fronte curato da Emanuela Jossa, prefazione di Martha L. Canfield. Humberto viene da un mondo nascosto nelle montagne. Humberto obbliga a penetrare la realtà che disconosciamo invitando a scoprire l’anima indigena che vive e respira al fianco di ogni americano nello stesso tempo del loro tempo, stessa vita della loro vita che è la vita di un continente.
Ak’abal? abita nelle montagne del Guatemala. Sta diventando qualcuno e i curiosi di passaggio vanno a trovarlo. <”Devi assolutamente vederlo “, raccomandano gli intellettuali della capitale. E il giornalista lascia città di Guatemala per Monostenango, 2500 metri, due ore dopo Chichicastenango il mercato indio più famoso d’America. Humberto non è in casa, sta pascolando perché Humberto si guadagna da vivere facendo il pastore. E’ partito due giorni fa. La moglie svizzera non se ne preoccupa. Ha conosciuto Humberto quando è arrivata su questa montagna? con una Ong della solidarietà: da Losanna alle nuvole del Guatemala povero e sconosciuto, ed incontra Humberto.
Alto, massiccio, zoppica per una caduta dalla scala. E’ sopra i cinquant’anni. Una fascia rossa stringe la fronte. I capelli scendono sulle spalle. Proprio un indiano.
Il giornalista cammina per un ‘ora e trova il poeta nei prati. Si meraviglia: fuori da due giorni e dorme sull’erba ?? ” Dormo protetto dalle pecore. Le pecore mi riscaldano “. ” Paura ? “. ” Nello zaino porto un corno. Prima di chiudere gli occhi soffio e aspetto. Di là dal bosco risponde un altro corno ed un altro, e tanti ancora. E’ bello non essere soli. Mi addormento sereno “. ” I lupi ? “. ” Le pecore? sì inquietano e mi sveglio. Soffio nel corno in un certo modo soffocando il suono con la mano per imitare il verso del lupo femmina. Soffio controvento e il vento lo porta via. E il branco insegue il vento e il gregge torna tranquillo “.
Humberto non ha finito le prime scuole, ma a scuola era l’allievo preferito di un poeta guatemalteco: Alfredo Arango. ” Quasi bianco eppure viveva come un indio. Arrivava a scuola a cavallo. Inorridiva ogni mattina nel fare l’appello: ‘ Garcia…’. ‘ Morto stanotte maestro ‘. Ogni mattina un posto vuoto. A fine anno restavamo in pochi,. Fame e malattie? rubavano i ragazzi. La mia vita somigliava a quella di tutti, eppure mi sentivo diverso: continuavo a sognare “.
Il villaggio aveva un capo: suo nonno, sciamano dal cuore d’oro. Un giorno arrivano i gendarmi e lo arrestano per ordine del grande proprietario. ” Aveva chiesto qualche pannocchia in più per i contadini al lavoro da sole a sole, pochi centesimi: fame. Lo hanno portato via con le mani legate, trascinato a piedi dai gendarmi a cavallo e la nonna lo rincorreva con una bottiglia d’acqua e qualche tortilla “.
Dai prati del pascolo il giornalista e il poeta sono scesi nell’albergo della capitale. I turisti entrano felici mentre ad Ak’abal? si rompe la voce e smette di ricordare. Piange come un bambino asciugando gli occhi nella tovaglia del pranzo e i turisti lo guardano con compassione: indigeni maleducati.
Il nonno torna dagli anni della prigione con una cassa di libri. E’ il regalo di un dissidente politico rimasto dentro. Gli ha insegnato a fare la firma puntando l’indice sulla terra umida della cella. Humberto non sa ancora cosa sono i libri. Il solo libro della classe restava nelle mani del maestro, oggetto misterioso che ammirava da lontano. Il nonno nasconde i libri e lo invita a diffidare. ” Sono pensieri che diventano di carta, guardarli potrebbe essere pericoloso “. Mai dire mai a un ragazzo che spia goloso il libro del maestro. Un giorno scende nella cantina dove il nonno ha sepolto i volumi. Sa appena sillabare ma comincia? a volare.
Mentre gli ospiti dell’albergo lo stanno fotografando con risolini? per la fascia rossa, fronte sudata e? voce che si alza e si abbassa mentre batte il tavolo con la mano aperta, Ak’abal che sta bevendo troppo perché ” bere in comoagnia per un Maya è un modo per diventare amici “, all’improvviso smette di parlare. ” Non ti ho ancora recitato una poesia ? Ascolta:..”. E il giornalista ascolta. Declama versi ai quali non serve la traduzione ” perché la natura parla attraverso la voce di lupi e uccelli. I rumori diventano versi. Il maya è una lingua semplice come la natura. Un esempio: non si dice ‘ piegare un ramo’.? Scriviamo ‘ goch’ il rumore di quando il ramo si spezza. E tu capisci.”
6 novembre 2009
«Fame: al Guatemala giustizia, non elemosina»
di Alvaro Ramazzini, Vescovo di San Marcos
Il vescovo di San Marcos sulla crisi alimentare nel Paese: «Finché in Guatemala non ci sarà una profonda riforma agraria, il fantasma della fame continuerà a mietere vittime»
inspiegabile che negli ultimi giorni l’opinione pubblica (mondiale, ndr) sia stata fomentata facendo leva su un problema che in Guatemala è cronico. È vero che la siccità ha colpito i raccolti, ma la fame reale è la compagna fedele e inseparabile di migliaia di guatemaltechi e soprattutto del 49 per cento dei bambini tra 1 e 5 anni di età (percentuale che sale al 59 per cento nella popolazione indigena).Non basta pensare che bisogna chiedere l’elemosina alla solidarietà internazionale per risolvere questo problema. E tantomeno serve farlo. Ripartire viveri che provengono da fuori tranquillizza la coscienza di coloro che hanno il potere di cambiare le cose e migliorare la situazione di fame permanente del Paese. Mi riferisco in primo luogo ai grandi e medi latifondisti; e in secondo luogo agli imprenditori e ai commercianti che trattano prodotti di prima necessità in Guatemala. I primi perché invece di destinare la terra alla produzione di prodotti di esportazione o alla produzione di agrocombustibili, dovrebbero destinarla a seminare cibo e abbassare il prezzo degli alimenti fondamentali della nostra dieta: mais, fagioli, riso, latte. I secondi perché, in mancanza di un controllo del mercato, fanno quello che vogliono, alzando i prezzi e speculando sulla fame della gente.Finché in Guatemala non ci sarà una profonda riforma agraria, come l’ha descritta anni fa un documento del Pontificio consiglio di giustizia e pace del Vaticano e come suggerisce papa Benedetto XVI nella sua ultima enciclica, Caritas in veritate, il fantasma della fame con la sua falce affilata continuerà a mietere la vita di moltissime persone in Guatemala.La solidarietà genuina dei guatemaltechi che si dicono cristiani implica la giustizia e dovrebbe brillare adesso con forza e spaventare il fantasma della fame, mettendolo in fuga verso orizzonti sconosciuti.
Il vescovo di San Marcos sulla crisi alimentare nel Paese: «Finché in Guatemala non ci sarà una profonda riforma agraria, il fantasma della fame continuerà a mietere vittime»
inspiegabile che negli ultimi giorni l’opinione pubblica (mondiale, ndr) sia stata fomentata facendo leva su un problema che in Guatemala è cronico. È vero che la siccità ha colpito i raccolti, ma la fame reale è la compagna fedele e inseparabile di migliaia di guatemaltechi e soprattutto del 49 per cento dei bambini tra 1 e 5 anni di età (percentuale che sale al 59 per cento nella popolazione indigena).Non basta pensare che bisogna chiedere l’elemosina alla solidarietà internazionale per risolvere questo problema. E tantomeno serve farlo. Ripartire viveri che provengono da fuori tranquillizza la coscienza di coloro che hanno il potere di cambiare le cose e migliorare la situazione di fame permanente del Paese. Mi riferisco in primo luogo ai grandi e medi latifondisti; e in secondo luogo agli imprenditori e ai commercianti che trattano prodotti di prima necessità in Guatemala. I primi perché invece di destinare la terra alla produzione di prodotti di esportazione o alla produzione di agrocombustibili, dovrebbero destinarla a seminare cibo e abbassare il prezzo degli alimenti fondamentali della nostra dieta: mais, fagioli, riso, latte. I secondi perché, in mancanza di un controllo del mercato, fanno quello che vogliono, alzando i prezzi e speculando sulla fame della gente.Finché in Guatemala non ci sarà una profonda riforma agraria, come l’ha descritta anni fa un documento del Pontificio consiglio di giustizia e pace del Vaticano e come suggerisce papa Benedetto XVI nella sua ultima enciclica, Caritas in veritate, il fantasma della fame con la sua falce affilata continuerà a mietere la vita di moltissime persone in Guatemala.La solidarietà genuina dei guatemaltechi che si dicono cristiani implica la giustizia e dovrebbe brillare adesso con forza e spaventare il fantasma della fame, mettendolo in fuga verso orizzonti sconosciuti.
31 ottobre 2009
Malore stronca Viazzoli
E’ morto ieri mattina nella casa di Chignolo Sindacalista alla Necchi, poi presidente del Csv
PAVIA. Si è spento improvvisamente Giampietro Viazzoli, 67 anni, presidente del Centro servizi volontariato. Una vita da sindacalista e poi nell’Auser, di cui da poco aveva lasciato la presidenza provinciale. «Eravamo delegati sindacali insieme - racconta Giorgio Bergamaschi - Ricordo il periodo in cui era morto Necchi. Sui giornali era uscito il titolo “6mila sul lastrico” era stato un periodo duro, avevamo perso subito duemila dipendenti». Poi Viazzoli era entrato nella Fiom. «In fabbrica era stimato, era un battagliero», ricorda Bergamaschi. «E’ stato il mio papà spirituale - dice Michele Fucci, segretario della Fiom - quando ho iniziato la mia esperienza sindacale lui è stato il mio primo funzionario della Fiom». «Ci siamo conosciuti nel 1969 - ricorda Riccardo Agostini, vice presidente del Csv - io ero studente a medicina e lui sindacalista. Ricordo la sua passione nella ricerca costante del dialogo, non si imponeva mai, cercava sempre di ragionare». Così anche nei 13 anni all’Auser. Domenico Fornasari ricorda quando insieme hanno costruito la sezione di Vigevano. «Era il ‘96, eravamo entrambi in pensione - dice Fornasari - Viazzoli era il primo presidente provinciale dell’Auser, prima se ne occupava il sindacato dei pensionati. Lui ha ereditato 8 circoli, oggi la nostra provincia ne ha 54». Da pochissimo aveva lasciato la presidenza dell’Auser ad Elena Borroni, come direttore e Angelo Zorzoli, presidente. Intanto però aveva iniziato un’altra avventura, come presidente del Csv. «Aveva questa attitudine all’apertura, a dare fiducia alle persone - ricorda ancora Agostini - Aveva una grande sensibilità, teneva fede ai suoi impegni sempre con riservatezza». I funerali saranno lunedì alle 10.30 a Chignolo Po, dove abitava con la moglie, una figlia e i suoi due nipotini, a cui si dedicava da nonno affettuoso. (ma.br.)
PAVIA. Si è spento improvvisamente Giampietro Viazzoli, 67 anni, presidente del Centro servizi volontariato. Una vita da sindacalista e poi nell’Auser, di cui da poco aveva lasciato la presidenza provinciale. «Eravamo delegati sindacali insieme - racconta Giorgio Bergamaschi - Ricordo il periodo in cui era morto Necchi. Sui giornali era uscito il titolo “6mila sul lastrico” era stato un periodo duro, avevamo perso subito duemila dipendenti». Poi Viazzoli era entrato nella Fiom. «In fabbrica era stimato, era un battagliero», ricorda Bergamaschi. «E’ stato il mio papà spirituale - dice Michele Fucci, segretario della Fiom - quando ho iniziato la mia esperienza sindacale lui è stato il mio primo funzionario della Fiom». «Ci siamo conosciuti nel 1969 - ricorda Riccardo Agostini, vice presidente del Csv - io ero studente a medicina e lui sindacalista. Ricordo la sua passione nella ricerca costante del dialogo, non si imponeva mai, cercava sempre di ragionare». Così anche nei 13 anni all’Auser. Domenico Fornasari ricorda quando insieme hanno costruito la sezione di Vigevano. «Era il ‘96, eravamo entrambi in pensione - dice Fornasari - Viazzoli era il primo presidente provinciale dell’Auser, prima se ne occupava il sindacato dei pensionati. Lui ha ereditato 8 circoli, oggi la nostra provincia ne ha 54». Da pochissimo aveva lasciato la presidenza dell’Auser ad Elena Borroni, come direttore e Angelo Zorzoli, presidente. Intanto però aveva iniziato un’altra avventura, come presidente del Csv. «Aveva questa attitudine all’apertura, a dare fiducia alle persone - ricorda ancora Agostini - Aveva una grande sensibilità, teneva fede ai suoi impegni sempre con riservatezza». I funerali saranno lunedì alle 10.30 a Chignolo Po, dove abitava con la moglie, una figlia e i suoi due nipotini, a cui si dedicava da nonno affettuoso. (ma.br.)
26 ottobre 2009
Don Ciotti: "Politica dei fatti per combattere la mafia"
di Claudia Fusani, l'Unità del 25 ottobre 2009
Fa le scale di corsa, risponde agli sms che lo ringraziano «per la meravigliosa esperienza» («è una poliziotta» spiega), corre da una riunione all’altra, ieri ce ne sono state 17 in sedi diverse sui temi dell’antimafia che hanno coinvolto 2.500 persone. Vero uomo del fare, don Luigi Ciotti trova anche il tempo di passare dalla redazione dell’Unità, prima di preparare il Manifesto di Contromafie 2009, che verrà letto stamani giornata di chiusura degli Stati generali dell’Antimafia.
Don Luigi, è come se l’antimafia in questo paese dove la mafia è il primo dei problemi, dalla legalità all’economia, non fosse una priorità della politica ma una delega in bianco ad associazioni come Libera.
«Guai se fosse così. In questa lotta, che è prima di tutto culturale, è fondamentale il ruolo di tutti. Ci tengo a dire che in questi anni, pur tra mille difficoltà e molti silenzi, non è mai venuto meno l’impegno delle forze di polizia e della magistratura. Però, non basta: per combattere le mafie serve una politica più consapevole e uno Stato sociale più forte».
Quella che lei chiama «la buona politica»?
«Una politica che sappia incontrare la partecipazione dei cittadini e, soprattutto, farsene arricchire. Nella cittadinanza ci deve essere sempre più politica e nella politica sempre più cittadinanza. Essere contro le mafie significa riaffermare che l’io è per la vita e non la vita per l’io».
Quella di oggi sembra invece una società molto concentrata sull’Io. Qual è lo stato di salute della politica oggi in Italia?
«Preferisco parlare di cosa fa Libera, del recupero dei beni mafiosi, delle cooperative che danno un progetto di vita in tante zone del paese, dell’impegno a coltivare memoria, cultura, informazione. La credibilità e l’autorevolezza di un progetto non sono misurate dall’attenzione mediatica ma dalla capacità di lasciare un segno. Ognuno di noi è quello che fa».
Corruzione sulla bonifica dei terreni; assunzioni in cambio di soldi e voti; politici collusi che si candidano ai vertici delle istituzioni: le ultime inchieste giudiziarie raccontano di una diffusa cultura mafiosa. La mafia è anche un atteggiamento culturale?
Il primo nemico è l’atteggiamento culturale. E la prima mafia è quella delle parole, quella per cui tutti si riempiono la bocca di concetti come legalità, diritti e poi però si fa poco o nulla. Essere contro le mafie significa soprattutto riaffermare la corresponsabilità, la centralità delle persone e del legame sociale e agire in questa direzione. Rita Atria, la giovane testimone di giustizia suicida a 17 anni, nell’ultima pagina del suo diario, scrive: «La prima mafia da combattere è quella dentro ciascuno di noi. La mafia siamo noi». Ancora oggi la sua tomba, a Partanna, non riesce ad avere una lapide».
La maggioranza sembra avere un’unica ossessione: la giustizia. Che ne pensa delle riforme?
"Non c’è magistratura senza indipendenza e dico guai a toccare la norma sulle intercettazioni. Se bisogna fare delle riforme, ecco che cosa chiede Libera: applicare la norma della Finanziaria 2006, quella che stabiliva l’uso sociale dei beni confiscati ai corrotti; la nascita di un’Agenzia nazionale, non nominata dalla politica, per la gestione dei beni confiscati; un testo unico per le leggi antimafia perché dall’organicità delle norme dipende l’efficacia; l’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice penale, un nuovo modello per il sistema di protezione dei testimoni». Improvviso ritorno delle inchieste sulle stragi del ’92-’93. Perché?
«Non so dire perché, Vedo che periodicamente alcune cose tornano in cima alla lista, urgenti. Facciano presto, abbiamo bisogna di verità. Di tante verità, un elenco lunghissimo».
Il boss Spatuzza, le cui rivelazioni un anno fa hanno dato impulso ai nuovi filoni di indagine, si è pentito dopo una crisi spirituale.
«Non è il solo. La parola del Vangelo è incompatibile con quella della mafia. Lo dico per chiarezza. Sa, anche Provenzano aveva il covo pieno di santini. Non esiste una mafia devota. E non si può appartenere alle mafie, o esserne conniventi, e ritenersi parte della comunità cristiana».
Fa le scale di corsa, risponde agli sms che lo ringraziano «per la meravigliosa esperienza» («è una poliziotta» spiega), corre da una riunione all’altra, ieri ce ne sono state 17 in sedi diverse sui temi dell’antimafia che hanno coinvolto 2.500 persone. Vero uomo del fare, don Luigi Ciotti trova anche il tempo di passare dalla redazione dell’Unità, prima di preparare il Manifesto di Contromafie 2009, che verrà letto stamani giornata di chiusura degli Stati generali dell’Antimafia.
Don Luigi, è come se l’antimafia in questo paese dove la mafia è il primo dei problemi, dalla legalità all’economia, non fosse una priorità della politica ma una delega in bianco ad associazioni come Libera.
«Guai se fosse così. In questa lotta, che è prima di tutto culturale, è fondamentale il ruolo di tutti. Ci tengo a dire che in questi anni, pur tra mille difficoltà e molti silenzi, non è mai venuto meno l’impegno delle forze di polizia e della magistratura. Però, non basta: per combattere le mafie serve una politica più consapevole e uno Stato sociale più forte».
Quella che lei chiama «la buona politica»?
«Una politica che sappia incontrare la partecipazione dei cittadini e, soprattutto, farsene arricchire. Nella cittadinanza ci deve essere sempre più politica e nella politica sempre più cittadinanza. Essere contro le mafie significa riaffermare che l’io è per la vita e non la vita per l’io».
Quella di oggi sembra invece una società molto concentrata sull’Io. Qual è lo stato di salute della politica oggi in Italia?
«Preferisco parlare di cosa fa Libera, del recupero dei beni mafiosi, delle cooperative che danno un progetto di vita in tante zone del paese, dell’impegno a coltivare memoria, cultura, informazione. La credibilità e l’autorevolezza di un progetto non sono misurate dall’attenzione mediatica ma dalla capacità di lasciare un segno. Ognuno di noi è quello che fa».
Corruzione sulla bonifica dei terreni; assunzioni in cambio di soldi e voti; politici collusi che si candidano ai vertici delle istituzioni: le ultime inchieste giudiziarie raccontano di una diffusa cultura mafiosa. La mafia è anche un atteggiamento culturale?
Il primo nemico è l’atteggiamento culturale. E la prima mafia è quella delle parole, quella per cui tutti si riempiono la bocca di concetti come legalità, diritti e poi però si fa poco o nulla. Essere contro le mafie significa soprattutto riaffermare la corresponsabilità, la centralità delle persone e del legame sociale e agire in questa direzione. Rita Atria, la giovane testimone di giustizia suicida a 17 anni, nell’ultima pagina del suo diario, scrive: «La prima mafia da combattere è quella dentro ciascuno di noi. La mafia siamo noi». Ancora oggi la sua tomba, a Partanna, non riesce ad avere una lapide».
La maggioranza sembra avere un’unica ossessione: la giustizia. Che ne pensa delle riforme?
"Non c’è magistratura senza indipendenza e dico guai a toccare la norma sulle intercettazioni. Se bisogna fare delle riforme, ecco che cosa chiede Libera: applicare la norma della Finanziaria 2006, quella che stabiliva l’uso sociale dei beni confiscati ai corrotti; la nascita di un’Agenzia nazionale, non nominata dalla politica, per la gestione dei beni confiscati; un testo unico per le leggi antimafia perché dall’organicità delle norme dipende l’efficacia; l’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice penale, un nuovo modello per il sistema di protezione dei testimoni». Improvviso ritorno delle inchieste sulle stragi del ’92-’93. Perché?
«Non so dire perché, Vedo che periodicamente alcune cose tornano in cima alla lista, urgenti. Facciano presto, abbiamo bisogna di verità. Di tante verità, un elenco lunghissimo».
Il boss Spatuzza, le cui rivelazioni un anno fa hanno dato impulso ai nuovi filoni di indagine, si è pentito dopo una crisi spirituale.
«Non è il solo. La parola del Vangelo è incompatibile con quella della mafia. Lo dico per chiarezza. Sa, anche Provenzano aveva il covo pieno di santini. Non esiste una mafia devota. E non si può appartenere alle mafie, o esserne conniventi, e ritenersi parte della comunità cristiana».
25 ottobre 2009
URGENTE HANNO ASSASSINATO FAUSTO OTZIN AVVOCATO MAYA DI COMALAPA COLLEGA E AMICO
Riceviamo e pubblichiamo questa mail dagli amici dell'associazione REKKO7 di Ravenna:
Care amiche e cari amici,ritengo giusto inoltrarvi questa lettera che viene dal Guatemala.Infatti, Alessandra Vecchi, che me l'ha inviata, è una nostra cara amica italo-guatemalteca, molto impegnata (assieme al marito Arnoldo e al figlio) nel movimento per la difesa dei popoli indigeni e per il riscatto dei poveri del Guatemala.A nome del nostro Centro Studi Juan Gerardi ho già inviato ad Alessandra il nostro cordoglio.Ma credo che sarà gradito, per lei e per la sua associazione, ricevere numerosi messaggi di solidarietà.Chiunque si senta di farlo, quindi, le scriva.
Grazie
Pippo
Carissimi:
con profondo, immenso dolore vi mando questa notizia. Fausto Otzin, come dice il comunicato di Waqib Kej, era un avvocato maya di 32 anni assasinato sabato scorso, 17 ottobre a San Juan Comalapa, Guatemala.
Fausto era un mio collega di lavoro nell'Associazione dei Sindaci e delle autoritá maya AGAAI ed era uno dei piú cari amici di Arnoldo.
Assieme ad Arnoldo e ad altri cari compagni di Comalapa, ha fondato AJESA che é il nucleo della Coordinadora Juvenil di Comalapa.
AJESA (Associazione di giovani in solidarietâ e Appoggio ) é un' associazione che si inizió a formare a Comalapa nel 1988, quando ancora era assai lontana la firma degli accordi di pace. E' una associazione nata tra giovani vittime della violenza repressiva dell'esercito: alcuni hanno visto uccidere i propri genitori, i propri famigliari, altri li hanno visti scomparire, e aggiungersi alla lista dei desaparecidos, altri hanno accompagnato, ancora bambini, le proprie madri quando stava sorgendo CONAVIGUA (l'associazione delle Vedove del Guatemala) ed hanno lottato contro il reclutamento militare forzoso. Tutti hanno agito e stanno agendo con coscienza, con intelligenza, con coraggio nel loro ambito di lavoro, continuando la lotta iniziata da bambini per una Guatemala piú giusta, senza razzismo, senza violenza, senza repressione militare.
Il loro motto é: ci temono perché non abbiamo paura. Non abbiamo paura di parlare con la veritá, non abbiamo paura di rivendicare i nostri diritti come popolo maya, non abbiamo paura di denunciare i corrotti, i razzisti, i violenti, gli assassini, i ladri; non abbiamo paura di lottare contro le miniere d'oro a cielo aperto che avvelenano col loro cianuro le nostre terre, non abbiamo paura di organizzarci e di organizzare.
Fausto, oltre alle attivitá descritte negli articoli e comunicati come difensore dei diritti del popolo maya, ha diretto lo scorso anno, come consulente dell'AGAAI, il II Incontro latinoamericano di governi municipali in territorio indigeno- Kychemb'il. Il tema era il diritto all'acqua, a quell'acqua che le miniere rubano o avvelenano, a quell'acqua che le multinazionali privatizzano e che imprese estere, come l'ENEL, rubano per generare elettricitá che mai arriverá a chi ne ha veramente bisogno.
Lo hanno ucciso nel suo paese, in un centro urbano abitato di 20000 abitanti. Lo hanno rapito, dopo una riunione familiare a casa di suo zio, lo hanno torturato, lo hanno colpito ripetutamente nella testa con il machete, lo hanno denudato e lo hanno buttato in un canale di scarico in un burrone accanto alla piazza centrale del paese. Una morte terribile che porta con se un messaggio assai chiaro: deve essere distrutta la testa di chi é intelligente, di chi osa pensare, di chi osa opporsi al potere del narcotraffico, della mafia, dei militari, dei governanti corrotti.
Una morte che ricorda in Guatemala i momenti peggiori del Conflitto armato interno e in Italia, l'agire della mafia o della camorra.
Una morte che a tutti noi della Coordinadora Juvenil di Comalapa, a tutti noi dell'AGAAI, a tutti noi che siamo parte di Waqib Kej ci rafforza ancora di piú a continuare, a non desistere.
Alessandra Vecchi, (alevecchi@intelnett.com)
con profondo, immenso dolore vi mando questa notizia. Fausto Otzin, come dice il comunicato di Waqib Kej, era un avvocato maya di 32 anni assasinato sabato scorso, 17 ottobre a San Juan Comalapa, Guatemala.
Fausto era un mio collega di lavoro nell'Associazione dei Sindaci e delle autoritá maya AGAAI ed era uno dei piú cari amici di Arnoldo.
Assieme ad Arnoldo e ad altri cari compagni di Comalapa, ha fondato AJESA che é il nucleo della Coordinadora Juvenil di Comalapa.
AJESA (Associazione di giovani in solidarietâ e Appoggio ) é un' associazione che si inizió a formare a Comalapa nel 1988, quando ancora era assai lontana la firma degli accordi di pace. E' una associazione nata tra giovani vittime della violenza repressiva dell'esercito: alcuni hanno visto uccidere i propri genitori, i propri famigliari, altri li hanno visti scomparire, e aggiungersi alla lista dei desaparecidos, altri hanno accompagnato, ancora bambini, le proprie madri quando stava sorgendo CONAVIGUA (l'associazione delle Vedove del Guatemala) ed hanno lottato contro il reclutamento militare forzoso. Tutti hanno agito e stanno agendo con coscienza, con intelligenza, con coraggio nel loro ambito di lavoro, continuando la lotta iniziata da bambini per una Guatemala piú giusta, senza razzismo, senza violenza, senza repressione militare.
Il loro motto é: ci temono perché non abbiamo paura. Non abbiamo paura di parlare con la veritá, non abbiamo paura di rivendicare i nostri diritti come popolo maya, non abbiamo paura di denunciare i corrotti, i razzisti, i violenti, gli assassini, i ladri; non abbiamo paura di lottare contro le miniere d'oro a cielo aperto che avvelenano col loro cianuro le nostre terre, non abbiamo paura di organizzarci e di organizzare.
Fausto, oltre alle attivitá descritte negli articoli e comunicati come difensore dei diritti del popolo maya, ha diretto lo scorso anno, come consulente dell'AGAAI, il II Incontro latinoamericano di governi municipali in territorio indigeno- Kychemb'il. Il tema era il diritto all'acqua, a quell'acqua che le miniere rubano o avvelenano, a quell'acqua che le multinazionali privatizzano e che imprese estere, come l'ENEL, rubano per generare elettricitá che mai arriverá a chi ne ha veramente bisogno.
Lo hanno ucciso nel suo paese, in un centro urbano abitato di 20000 abitanti. Lo hanno rapito, dopo una riunione familiare a casa di suo zio, lo hanno torturato, lo hanno colpito ripetutamente nella testa con il machete, lo hanno denudato e lo hanno buttato in un canale di scarico in un burrone accanto alla piazza centrale del paese. Una morte terribile che porta con se un messaggio assai chiaro: deve essere distrutta la testa di chi é intelligente, di chi osa pensare, di chi osa opporsi al potere del narcotraffico, della mafia, dei militari, dei governanti corrotti.
Una morte che ricorda in Guatemala i momenti peggiori del Conflitto armato interno e in Italia, l'agire della mafia o della camorra.
Una morte che a tutti noi della Coordinadora Juvenil di Comalapa, a tutti noi dell'AGAAI, a tutti noi che siamo parte di Waqib Kej ci rafforza ancora di piú a continuare, a non desistere.
Alessandra Vecchi, (alevecchi@intelnett.com)
Una settimana in Guatemala per vedere come funziona il microcredito
PAVIA. E’ appena tornato Ruggero Rizzini dopo una settimana in Guatemala per sondare l’andamento dei progetti di cooperazione dell’Associazione italiana di nursing sociale sostenuti dai contributi dei volontari della provincia di Pavia. «Nel paese c’è carestia e siccità, stanno diminuendo le scorte di fagioli e mais - dice Rizzini - ma grazie al microcredito partito quest’estate già 15 capifamiglia hanno iniziato la formazione e una piccola attività imprenditoriale che integra il loro reddito». Il micro prestito ha un valore corrispondente a circa 150 euro, l’attività principale è la coltivazione di frutta e verdura, la programmazione biennale: «Il primo anno non ci sono interessi - spiega Ruggero Rizzini - il secondo anno invece si paga il 5%, che però non va all’associazione, ma viene depositato su un libretto di risparmio che i destinatari del credito riavranno alla fine dell’anno: un modo per abituare al risparmio chi è da sempre abituato a pensare alla sopravvivenza quotidiana». L’obiettivo è la creazione di una cooperativa, a partire dai gruppi di microcredito, come nell’India del banchiere dei poveri che ha inventato questo tipo di credito per chi non può accedere alle banche normali. (anna ghezzi)
la provincia pavese, 25 ottobre 2009
la provincia pavese, 25 ottobre 2009
23 ottobre 2009
La Chiesa in Guatemala
IL VANGELO DELLA TERRA
di Mauro Castagnaro
La riforma agraria, la lotta alla povertà, all’ingiustizia e all’emarginazione delle popolazioni indigene: queste le grandi questioni che dovrebbero essere nell’agenda del governo, secondo monsignor Alvaro Ramazzini, vescovo di una delle diocesi più povere del Guatemala. Perché la fede è anche lotta per l’uomo.
Monsignor Alvaro Ramazzini, vescovo di San Marcos, in Guatemala, e presidente del Segretariato episcopale dell’America centrale (Sedac), è da anni in prima linea nella difesa dei diritti dei braccianti senza terra. Ciò lo ha reso più volte oggetto di intimidazioni e minacce di morte. La sua diocesi ha un’estensione di circa 4 mila chilometri quadrati con 800 mila abitanti, di cui il 60 per cento indigeni mames e sipacapenses, anche se una quota non trascurabile è in via di ladinizzazione, cioè ha perso la propria identità e non parla più la lingua né usa gli abiti tradizionali. Essendo una zona per lo più rurale, la maggioranza della popolazione è contadina e ci sono grandi latifondi in cui si coltivava il caffè, ma ora la crisi ha portato all’abbandono di molte piantagioni, con la crescita della disoccupazione. A ciò si aggiungono i problemi che derivano dal trovarsi vicino al confine col Messico, terra di passaggio degli emigranti provenienti soprattutto dal Salvador e dall’America del Sud.
Come giudica la situazione del Guatemala?
«Il nuovo governo, insediatosi il 14 gennaio, è formato soprattutto da esponenti delle classi agiate, in particolare imprenditori e uomini d’affari. D’altro canto nelle ultime elezioni le alternative non erano molto buone: il generale Efrain Rios Montt, leader del Fronte repubblicano guatemalteco (Frg), grazie alla maggioranza di cui disponeva in Parlamento, era riuscito a far convalidare la sua candidatura, nonostante violasse la Costituzione, che vieta di presentarsi a persone responsabili di colpi di Stato. Tuttavia l’ex dittatore ha perso la corsa alla presidenza e per il ballottaggio l’Frg ha stipulato un’alleanza occulta con l’Unione nazionale della speranza che candidava Alvaro Colom. Le forze di sinistra erano divise e non hanno raccolto molti voti. Il presidente Berger ha assunto la guida di un Paese che conosce un crescente impoverimento, dove non calano gli indici di violenza e insicurezza, con una forte presenza del narcotraffico e problemi strutturali non risolti. Come vescovi abbiamo sempre criticato le carenze del sistema giudiziario, denunciato la corruzione di cui stanno emergendo casi incredibili, e rilevato come la povertà cresca, soprattutto nelle regioni dell’interno. La crisi economica è forte e un chiaro indicatore ne è l’incremento dell’emigrazione, specie verso gli Stati Uniti».
Quali sono i nodi strutturali?
«C’è prima di tutto la persistente emarginazione dei popoli indigeni e dei contadini nello sviluppo sociale. Poi c’è il problema della terra: in Guatemala non è mai stata realizzata una riforma agraria, anzi parlarne è ancora oggi pericoloso. Il modello agricolo del Guatemala si fonda sull’esportazione di banane, zucchero e caffè, i tre grandi prodotti tradizionali del Paese. Ciò richiede latifondi, che occupano tutta la zona costiera, la più fertile. Nelle aree montagnose, dove vivono le popolazioni indigene, prevale invece il minifondo. Il modello agroesportatore, invece di creare ricchezza per tutto il Paese, ha generato povertà e conflittualità, tanto che in questo momento sono molte le aziende occupate da organizzazioni contadine, che vogliono accedere alla terra. Al di là della realtà schiavista che si registra nelle grandi aziende agricole, esiste il problema di non aver creato nuove fonti di lavoro per la grande maggioranza dei contadini del Paese. E per di più, il 70 per cento dei guatemaltechi ha meno di 23 anni».
Tutti questi giovani che prospettive hanno?
«Continuano a fare quello che facevano i loro padri e i loro nonni, cioè i braccianti, e allora molti cercano di emigrare negli Stati Uniti. Quando parliamo di riforma agraria non ci riferiamo comunque semplicemente a una ripartizione delle terre, ma come Commissione di pastorale della terra della Conferenza episcopale abbiamo presentato una proposta di "sviluppo rurale", che implica anche la trasformazione e commercializzazione dei prodotti, l’accesso al credito, ecc. In sostanza in Guatemala c’è povertà perché vige un modello agroesportatore che non genera ricchezza per tutti, ma anche perché è mancato un piano di sviluppo nazionale a lungo termine, che desse uguali opportunità a tutti. Gli interventi sono sempre molto parziali, legati al partito che vince le elezioni e non basati su una politica di Stato, su un progetto di Paese. L’altra causa strutturale è la concentrazione della ricchezza in poche mani».
Il Guatemala è considerato il Paese più povero dell’America centrale. Quali le ragioni?
«Perché la produzione del reddito è insufficiente e la sua distribuzione è la più ingiusta della regione. La maggioranza della popolazione non può accedere a un’istruzione di alta qualità. Gli imprenditori ripetono che il Guatemala deve essere più produttivo e competitivo, ma come può esserlo se lo Stato non adempie l’obbligo di offrire educazione di buon livello a tutti? La scorsa settimana ero in una comunità nei pressi di una grande azienda di produzione del caffè e ho chiesto dove fosse la scuola. Non c’era, ma 35 bambini ricevevano lezioni in un capanno molto caldo, poco illuminato, con la lavagna logora e dove il maestro senza contratto col governo deve insegnare contemporaneamente ad alunni di prima, seconda e terza elementare. Gli ho chiesto come facesse. "Io comincio a dare un compito al primo gruppo", mi ha risposto, "poi, mentre questi lo stanno eseguendo, ne do un altro al secondo, e poi al terzo". È assurdo! Ma questa è da sempre la situazione in Guatemala, dall’epoca coloniale non è cambiato nulla in questo settore, anche se girando alcune zone della capitale si ha l’impressione di vivere in un altro Paese. In Guatemala ci sono collegi privati che hanno rette mensili di 3 mila quetzales, mentre nell’interno del Paese un maestro quando inizia a lavorare ha un salario che non arriva a 2.500. In Guatemala i ricchi hanno accesso a un’istruzione ottima e naturalmente sono poi loro che gestiscono l’economia nazionale, in collegamento con la politica economica degli Stati Uniti».
Che fate di fronte a questa situazione?
«Nella nostra diocesi abbiamo un programma di appoggio ai contadini, ne sosteniamo le organizzazioni, forniamo loro consulenza giuridica nei conflitti sindacali, cerchiamo di aiutarli a trovare la terra, ma possiamo fare ben poco. Per esempio, ci scontriamo col fatto che l’amministrazione della giustizia non funziona: stiamo ora accompagnando sette gruppi di famiglie contadine in lotta per i loro diritti, ma da quattro anni attendiamo una sentenza, e nel frattempo queste persone non possono lasciare l’azienda agricola per cercare lavoro altrove, perché perderebbero il diritto che stanno rivendicando. Ma i conflitti sindacali sono solo un aspetto del problema, servono mutamenti strutturali».
Com’è la situazione nella sua diocesi?
«C’è molta fame, sta aumentando la denutrizione e la gente vive in condizioni penose. Povertà e mancanza di legalità favoriscono la crescita della criminalità organizzata, la diffusione delle bande giovanili, una pratica religiosa alienante. Per me questa è una delle principali spiegazioni dell’incremento dei gruppi cristiani pentecostali fondamentalisti: la gente che si barcamena ogni giorno per sopravvivere vuole almeno avere qualche spazio di sicurezza e rifiuta una proposta religiosa che chiami alla lotta per la trasformazione della società».
Che può dirci dell’assassinio, nel dicembre 2003, di padre José Maria Furlan, il sacerdote che aveva duramente criticato il precedente governo di destra del presidente Alfonso Portillo per le ripetute violazioni dei diritti umani?
«Le ragioni di quell’omicidio non sono ancora state chiarite. Padre "Chemita" era una persona molto controversa. Nella prima metà degli anni ’70 aveva assunto una posizione conflittuale nei confronti dell’allora arcivescovo di Città del Guatemala, il cardinale Mario Casariego, quindi si era candidato a sindaco della capitale, dicendo che la vittoria gli era stata scippata con i brogli. Negli ultimi anni la sua visibilità pubblica si era però ridotta: si era dedicato soprattutto a organizzare viaggi in Terrasanta, partecipando poi ad alcuni progetti di costruzione di case popolari. Era un uomo che aiutava molto i poveri, ma era coinvolto anche nel mondo degli affari e aveva un paio di alberghi. Perciò la sua uccisione ha sorpreso un po’ tutti: qualcuno dice che sia stato ammazzato da una persona che gli doveva del denaro o a cui aveva negato un prestito, qualcun altro parla di un terreno della parrocchia che egli avrebbe prestato e poi chiesto indietro. Tutto resta molto oscuro».
Come mai Rios Montt, l’ex dittatore del Guatemala durante gli anni ’80, non è riuscito ad arrivare neppure al ballottaggio?
«Penso che a un certo punto la gente abbia aperto gli occhi e si sia resa conto che non era una buona scelta. Ci sono anche state molte prese di posizione contro di lui e ha influito quanto avvenuto lo scorso anno, quando il Frg, per sostenere la sua candidatura, ha spinto i propri militanti a scendere in piazza e occupare le strade con la violenza. Senza contare che sono emersi casi di corruzione che coinvolgevano esponenti del governo uscente. Inoltre essi contavano molto sugli ex membri delle Pattuglie di autodifesa civile, ma tale appoggio si fondava sul denaro che avevano loro promesso a titolo di indennizzo per l’attività prestata durante la guerra civile e quando il governo non ha mantenuto l’impegno, dando solo un terzo di quanto promesso, molti non hanno votato Rios Montt».
Come accompagnate le lotte contadine, soprattutto quando le leggi non vengono rispettate o gli avversari sono molto potenti, senza cadere in un puro assistenzialismo economico o in un intervento limitato a risolvere situazioni particolari?
«Abbiamo l’appoggio di organismi internazionali, ecclesiali e non, come la fondazione For the right to feed oneself (Fian), che promuove le riforme agrarie. Questi esercitano pressioni sul nostro governo. Riceviamo un grande sostegno anche dall’Ufficio delle relazioni internazionali della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, che attualmente sta realizzando a Washington una campagna di pressione su deputati e senatori a proposito del Trattato di libero commercio tra Usa e America centrale (Cafta), con particolare riferimento all’eliminazione dei sussidi all’agricoltura».
Questo a livello internazionale. E sul piano interno come siete organizzati?
«C’è la Piattaforma agraria, che riunisce varie realtà, tra cui la Pastorale della terra della Conferenza episcopale, i sindacati contadini, l’Associazione per il progresso delle scienze sociali (Avancso) e il Centro di azione legale sui diritti umani (Caldh). Da due anni la Piattaforma agraria ha iniziato un negoziato col governo per risolvere la crisi sociale determinata dalla caduta del prezzo del caffè e proporre un piano di sviluppo rurale. Con le nuove autorità abbiamo avviato la discussione sulla questione agraria. Ci sono però alcuni problemi specifici da risolvere, come le occupazioni di terre, che continuano, gli ordini di sgombero che si vogliono mettere in atto, i mandati di cattura per i dirigenti contadini. Ci stiamo poi sforzando di organizzare i piccoli produttori, soprattutto di caffè, per favorire il loro ingresso nel circuito del commercio equo».
Rigoberta Menchù ha sempre chiesto che vengano processati i responsabili del genocidio della popolazione indigena, ma anche l’attuale Esecutivo non sembra interessato a questo. Come si giustifica allora la presenza di Rigoberta Menchù nel governo?
«Rigoberta ha detto di voler essere una "ambasciatrice di buona volontà" di fronte al resto del mondo, sostenendo che tale incarico le era stato affidato dall’Unesco. È stata anche molto chiara nel dire che non fa parte del governo, il che presuppone la libertà di continuare a chiedere giustizia».
In Guatemala dagli anni ’80 il movimento popolare non è mai stato molto forte, perché la paura era tale da impedirne la crescita. Qual è la situazione oggi?
«Il movimento popolare resta molto debole. C’è un’estrema disgregazione. Ci sono proteste, ma non si ottengono risultati. Uno dei segnali per me più chiari della mancanza di partecipazione della società civile è l’assenza di rappresentanti delle organizzazioni popolari nei negoziati per il Trattato di libero commercio; né ci sono state pressioni per esigere tale presenza. Bisogna rafforzare il movimento popolare per farne una forza di critica all’attuale governo».
I latifondisti l’hanno molto criticata per il suo impegno a favore dei contadini e lei è stato anche minacciato di morte nel 1996 e poi nel 2002.
«Negli ultimi due anni non ho più ricevuto minacce. Ci sono stati momenti molto difficili, ma la situazione ora è tranquilla».
Come giudica la Santa Sede il vostro lavoro e il vostro impegno?
«Le autorità vaticane non ci hanno mai fatto particolari osservazioni. Quando è stato ucciso monsignor Gerardi abbiamo ricevuto un grande appoggio da Roma. D’altro canto, non stiamo facendo nulla che sia al di fuori dell’insegnamento della Chiesa. I nostri punti di riferimento sono il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa, per cui non ci si può accusare di seguire una strada sbagliata».
Vuol dire che Roma vede la realtà nel vostro stesso modo?
«Una cosa è essere direttamente a contatto con la sofferenza e l’ingiustizia, un’altra osservarla da lontano. Ciò influisce sul modo di essere e agire. Quando ero prete a Città del Guatemala, pensavo di conoscere bene la realtà guatemalteca e di operare in modo coerente col Vangelo. Ma quando sono arrivato a San Marcos, mi sono reso conto che non avevo una comprensione sufficiente né il mio impegno era abbastanza profondo. Per cui è vero che c’è differenza. D’altro canto anche qui ci sono molti cattolici cui non si può neppure parlare di unire fede e impegno sociale. Nella stessa San Marcos ci sono praticanti che non conoscono la realtà dei poveri. La Chiesa guatemalteca ha compiuto un’opzione chiara a favore dei poveri e degli indigeni, ma quando si tratta di tradurla nella pratica ci sono livelli diversi di impegno, tra i vescovi, tra i sacerdoti e le religiose, e tra i laici».
In questa realtà che influenza hanno le comunità di base?
«Abbiamo perso molto questa presenza di comunità di base, soprattutto perché negli anni del conflitto armato era molto pericoloso formare gruppi e questo ha fatto sì che esse rimanessero un po’ ai margini. Tuttavia ora stiamo tornando a parlare di piccole comunità, cioè nuclei in cui si vivano veramente i valori del Vangelo. Non si deve comunque dimenticare che nelle zone indigene questo modello non attecchisce, perché gli indigeni hanno una mentalità che mette l’accento sull’organizzazione comunitaria ampia. Nei paesini la gente si conosce, tutti sanno i problemi e i difetti altrui, e la grande maggioranza delle diocesi riunisce villaggi di piccole dimensioni. Invece a Città del Guatemala, che ha una grande periferia povera, le comunità di base funzionano meglio».
Dopo la fine della guerra, la Chiesa guatemalteca, che aveva svolto un ruolo profetico, è parsa faticare ad adeguare il proprio ruolo al nuovo momento storico. Che ne pensa?
«L’incisività della Conferenza episcopale si è effettivamente ridotta, forse per stanchezza, forse per il timore di favorire il ritorno a situazioni di violenza come quelle vissute durante la guerra civile, forse perché dovremmo rinnovare le nostre opzioni, nel senso di essere più coerenti con quanto abbiamo detto e scritto. Per esempio, qualche anno fa, come Conferenza episcopale si era pensato di scrivere una nuova lettera sul problema agrario, per dare seguito a quella del 1987, ma alla fine non siamo riusciti a metterci d’accordo. Non tutti i vescovi vivono la stessa realtà né le necessità della gente delle diverse diocesi sono parimenti pressanti, e questo influisce al momento di prendere decisioni, che dovrebbero essere più nette. C’è solidarietà tra i vescovi, ma su alcuni temi non abbiamo tutti la stessa opinione, soprattutto sulla questione agraria o su come affrontare la povertà».
A sei anni dalla pubblicazione del rapporto Guatemala: mai più, il processo di "recupero della memoria storica" prosegue?
«Solo cinque diocesi sono andate avanti. A San Marcos stiamo preparando la pubblicazione del nostro rapporto locale, che inquadra i risultati della ricerca nel contesto storico e sociale del dipartimento. È un modo per restituirlo alle comunità. Ci stiamo sforzando di unire su questo tutte le diocesi, ma non è facile».
di Mauro Castagnaro
La riforma agraria, la lotta alla povertà, all’ingiustizia e all’emarginazione delle popolazioni indigene: queste le grandi questioni che dovrebbero essere nell’agenda del governo, secondo monsignor Alvaro Ramazzini, vescovo di una delle diocesi più povere del Guatemala. Perché la fede è anche lotta per l’uomo.
Monsignor Alvaro Ramazzini, vescovo di San Marcos, in Guatemala, e presidente del Segretariato episcopale dell’America centrale (Sedac), è da anni in prima linea nella difesa dei diritti dei braccianti senza terra. Ciò lo ha reso più volte oggetto di intimidazioni e minacce di morte. La sua diocesi ha un’estensione di circa 4 mila chilometri quadrati con 800 mila abitanti, di cui il 60 per cento indigeni mames e sipacapenses, anche se una quota non trascurabile è in via di ladinizzazione, cioè ha perso la propria identità e non parla più la lingua né usa gli abiti tradizionali. Essendo una zona per lo più rurale, la maggioranza della popolazione è contadina e ci sono grandi latifondi in cui si coltivava il caffè, ma ora la crisi ha portato all’abbandono di molte piantagioni, con la crescita della disoccupazione. A ciò si aggiungono i problemi che derivano dal trovarsi vicino al confine col Messico, terra di passaggio degli emigranti provenienti soprattutto dal Salvador e dall’America del Sud.
Come giudica la situazione del Guatemala?
«Il nuovo governo, insediatosi il 14 gennaio, è formato soprattutto da esponenti delle classi agiate, in particolare imprenditori e uomini d’affari. D’altro canto nelle ultime elezioni le alternative non erano molto buone: il generale Efrain Rios Montt, leader del Fronte repubblicano guatemalteco (Frg), grazie alla maggioranza di cui disponeva in Parlamento, era riuscito a far convalidare la sua candidatura, nonostante violasse la Costituzione, che vieta di presentarsi a persone responsabili di colpi di Stato. Tuttavia l’ex dittatore ha perso la corsa alla presidenza e per il ballottaggio l’Frg ha stipulato un’alleanza occulta con l’Unione nazionale della speranza che candidava Alvaro Colom. Le forze di sinistra erano divise e non hanno raccolto molti voti. Il presidente Berger ha assunto la guida di un Paese che conosce un crescente impoverimento, dove non calano gli indici di violenza e insicurezza, con una forte presenza del narcotraffico e problemi strutturali non risolti. Come vescovi abbiamo sempre criticato le carenze del sistema giudiziario, denunciato la corruzione di cui stanno emergendo casi incredibili, e rilevato come la povertà cresca, soprattutto nelle regioni dell’interno. La crisi economica è forte e un chiaro indicatore ne è l’incremento dell’emigrazione, specie verso gli Stati Uniti».
Quali sono i nodi strutturali?
«C’è prima di tutto la persistente emarginazione dei popoli indigeni e dei contadini nello sviluppo sociale. Poi c’è il problema della terra: in Guatemala non è mai stata realizzata una riforma agraria, anzi parlarne è ancora oggi pericoloso. Il modello agricolo del Guatemala si fonda sull’esportazione di banane, zucchero e caffè, i tre grandi prodotti tradizionali del Paese. Ciò richiede latifondi, che occupano tutta la zona costiera, la più fertile. Nelle aree montagnose, dove vivono le popolazioni indigene, prevale invece il minifondo. Il modello agroesportatore, invece di creare ricchezza per tutto il Paese, ha generato povertà e conflittualità, tanto che in questo momento sono molte le aziende occupate da organizzazioni contadine, che vogliono accedere alla terra. Al di là della realtà schiavista che si registra nelle grandi aziende agricole, esiste il problema di non aver creato nuove fonti di lavoro per la grande maggioranza dei contadini del Paese. E per di più, il 70 per cento dei guatemaltechi ha meno di 23 anni».
Tutti questi giovani che prospettive hanno?
«Continuano a fare quello che facevano i loro padri e i loro nonni, cioè i braccianti, e allora molti cercano di emigrare negli Stati Uniti. Quando parliamo di riforma agraria non ci riferiamo comunque semplicemente a una ripartizione delle terre, ma come Commissione di pastorale della terra della Conferenza episcopale abbiamo presentato una proposta di "sviluppo rurale", che implica anche la trasformazione e commercializzazione dei prodotti, l’accesso al credito, ecc. In sostanza in Guatemala c’è povertà perché vige un modello agroesportatore che non genera ricchezza per tutti, ma anche perché è mancato un piano di sviluppo nazionale a lungo termine, che desse uguali opportunità a tutti. Gli interventi sono sempre molto parziali, legati al partito che vince le elezioni e non basati su una politica di Stato, su un progetto di Paese. L’altra causa strutturale è la concentrazione della ricchezza in poche mani».
Il Guatemala è considerato il Paese più povero dell’America centrale. Quali le ragioni?
«Perché la produzione del reddito è insufficiente e la sua distribuzione è la più ingiusta della regione. La maggioranza della popolazione non può accedere a un’istruzione di alta qualità. Gli imprenditori ripetono che il Guatemala deve essere più produttivo e competitivo, ma come può esserlo se lo Stato non adempie l’obbligo di offrire educazione di buon livello a tutti? La scorsa settimana ero in una comunità nei pressi di una grande azienda di produzione del caffè e ho chiesto dove fosse la scuola. Non c’era, ma 35 bambini ricevevano lezioni in un capanno molto caldo, poco illuminato, con la lavagna logora e dove il maestro senza contratto col governo deve insegnare contemporaneamente ad alunni di prima, seconda e terza elementare. Gli ho chiesto come facesse. "Io comincio a dare un compito al primo gruppo", mi ha risposto, "poi, mentre questi lo stanno eseguendo, ne do un altro al secondo, e poi al terzo". È assurdo! Ma questa è da sempre la situazione in Guatemala, dall’epoca coloniale non è cambiato nulla in questo settore, anche se girando alcune zone della capitale si ha l’impressione di vivere in un altro Paese. In Guatemala ci sono collegi privati che hanno rette mensili di 3 mila quetzales, mentre nell’interno del Paese un maestro quando inizia a lavorare ha un salario che non arriva a 2.500. In Guatemala i ricchi hanno accesso a un’istruzione ottima e naturalmente sono poi loro che gestiscono l’economia nazionale, in collegamento con la politica economica degli Stati Uniti».
Che fate di fronte a questa situazione?
«Nella nostra diocesi abbiamo un programma di appoggio ai contadini, ne sosteniamo le organizzazioni, forniamo loro consulenza giuridica nei conflitti sindacali, cerchiamo di aiutarli a trovare la terra, ma possiamo fare ben poco. Per esempio, ci scontriamo col fatto che l’amministrazione della giustizia non funziona: stiamo ora accompagnando sette gruppi di famiglie contadine in lotta per i loro diritti, ma da quattro anni attendiamo una sentenza, e nel frattempo queste persone non possono lasciare l’azienda agricola per cercare lavoro altrove, perché perderebbero il diritto che stanno rivendicando. Ma i conflitti sindacali sono solo un aspetto del problema, servono mutamenti strutturali».
Com’è la situazione nella sua diocesi?
«C’è molta fame, sta aumentando la denutrizione e la gente vive in condizioni penose. Povertà e mancanza di legalità favoriscono la crescita della criminalità organizzata, la diffusione delle bande giovanili, una pratica religiosa alienante. Per me questa è una delle principali spiegazioni dell’incremento dei gruppi cristiani pentecostali fondamentalisti: la gente che si barcamena ogni giorno per sopravvivere vuole almeno avere qualche spazio di sicurezza e rifiuta una proposta religiosa che chiami alla lotta per la trasformazione della società».
Che può dirci dell’assassinio, nel dicembre 2003, di padre José Maria Furlan, il sacerdote che aveva duramente criticato il precedente governo di destra del presidente Alfonso Portillo per le ripetute violazioni dei diritti umani?
«Le ragioni di quell’omicidio non sono ancora state chiarite. Padre "Chemita" era una persona molto controversa. Nella prima metà degli anni ’70 aveva assunto una posizione conflittuale nei confronti dell’allora arcivescovo di Città del Guatemala, il cardinale Mario Casariego, quindi si era candidato a sindaco della capitale, dicendo che la vittoria gli era stata scippata con i brogli. Negli ultimi anni la sua visibilità pubblica si era però ridotta: si era dedicato soprattutto a organizzare viaggi in Terrasanta, partecipando poi ad alcuni progetti di costruzione di case popolari. Era un uomo che aiutava molto i poveri, ma era coinvolto anche nel mondo degli affari e aveva un paio di alberghi. Perciò la sua uccisione ha sorpreso un po’ tutti: qualcuno dice che sia stato ammazzato da una persona che gli doveva del denaro o a cui aveva negato un prestito, qualcun altro parla di un terreno della parrocchia che egli avrebbe prestato e poi chiesto indietro. Tutto resta molto oscuro».
Come mai Rios Montt, l’ex dittatore del Guatemala durante gli anni ’80, non è riuscito ad arrivare neppure al ballottaggio?
«Penso che a un certo punto la gente abbia aperto gli occhi e si sia resa conto che non era una buona scelta. Ci sono anche state molte prese di posizione contro di lui e ha influito quanto avvenuto lo scorso anno, quando il Frg, per sostenere la sua candidatura, ha spinto i propri militanti a scendere in piazza e occupare le strade con la violenza. Senza contare che sono emersi casi di corruzione che coinvolgevano esponenti del governo uscente. Inoltre essi contavano molto sugli ex membri delle Pattuglie di autodifesa civile, ma tale appoggio si fondava sul denaro che avevano loro promesso a titolo di indennizzo per l’attività prestata durante la guerra civile e quando il governo non ha mantenuto l’impegno, dando solo un terzo di quanto promesso, molti non hanno votato Rios Montt».
Come accompagnate le lotte contadine, soprattutto quando le leggi non vengono rispettate o gli avversari sono molto potenti, senza cadere in un puro assistenzialismo economico o in un intervento limitato a risolvere situazioni particolari?
«Abbiamo l’appoggio di organismi internazionali, ecclesiali e non, come la fondazione For the right to feed oneself (Fian), che promuove le riforme agrarie. Questi esercitano pressioni sul nostro governo. Riceviamo un grande sostegno anche dall’Ufficio delle relazioni internazionali della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, che attualmente sta realizzando a Washington una campagna di pressione su deputati e senatori a proposito del Trattato di libero commercio tra Usa e America centrale (Cafta), con particolare riferimento all’eliminazione dei sussidi all’agricoltura».
Questo a livello internazionale. E sul piano interno come siete organizzati?
«C’è la Piattaforma agraria, che riunisce varie realtà, tra cui la Pastorale della terra della Conferenza episcopale, i sindacati contadini, l’Associazione per il progresso delle scienze sociali (Avancso) e il Centro di azione legale sui diritti umani (Caldh). Da due anni la Piattaforma agraria ha iniziato un negoziato col governo per risolvere la crisi sociale determinata dalla caduta del prezzo del caffè e proporre un piano di sviluppo rurale. Con le nuove autorità abbiamo avviato la discussione sulla questione agraria. Ci sono però alcuni problemi specifici da risolvere, come le occupazioni di terre, che continuano, gli ordini di sgombero che si vogliono mettere in atto, i mandati di cattura per i dirigenti contadini. Ci stiamo poi sforzando di organizzare i piccoli produttori, soprattutto di caffè, per favorire il loro ingresso nel circuito del commercio equo».
Rigoberta Menchù ha sempre chiesto che vengano processati i responsabili del genocidio della popolazione indigena, ma anche l’attuale Esecutivo non sembra interessato a questo. Come si giustifica allora la presenza di Rigoberta Menchù nel governo?
«Rigoberta ha detto di voler essere una "ambasciatrice di buona volontà" di fronte al resto del mondo, sostenendo che tale incarico le era stato affidato dall’Unesco. È stata anche molto chiara nel dire che non fa parte del governo, il che presuppone la libertà di continuare a chiedere giustizia».
In Guatemala dagli anni ’80 il movimento popolare non è mai stato molto forte, perché la paura era tale da impedirne la crescita. Qual è la situazione oggi?
«Il movimento popolare resta molto debole. C’è un’estrema disgregazione. Ci sono proteste, ma non si ottengono risultati. Uno dei segnali per me più chiari della mancanza di partecipazione della società civile è l’assenza di rappresentanti delle organizzazioni popolari nei negoziati per il Trattato di libero commercio; né ci sono state pressioni per esigere tale presenza. Bisogna rafforzare il movimento popolare per farne una forza di critica all’attuale governo».
I latifondisti l’hanno molto criticata per il suo impegno a favore dei contadini e lei è stato anche minacciato di morte nel 1996 e poi nel 2002.
«Negli ultimi due anni non ho più ricevuto minacce. Ci sono stati momenti molto difficili, ma la situazione ora è tranquilla».
Come giudica la Santa Sede il vostro lavoro e il vostro impegno?
«Le autorità vaticane non ci hanno mai fatto particolari osservazioni. Quando è stato ucciso monsignor Gerardi abbiamo ricevuto un grande appoggio da Roma. D’altro canto, non stiamo facendo nulla che sia al di fuori dell’insegnamento della Chiesa. I nostri punti di riferimento sono il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa, per cui non ci si può accusare di seguire una strada sbagliata».
Vuol dire che Roma vede la realtà nel vostro stesso modo?
«Una cosa è essere direttamente a contatto con la sofferenza e l’ingiustizia, un’altra osservarla da lontano. Ciò influisce sul modo di essere e agire. Quando ero prete a Città del Guatemala, pensavo di conoscere bene la realtà guatemalteca e di operare in modo coerente col Vangelo. Ma quando sono arrivato a San Marcos, mi sono reso conto che non avevo una comprensione sufficiente né il mio impegno era abbastanza profondo. Per cui è vero che c’è differenza. D’altro canto anche qui ci sono molti cattolici cui non si può neppure parlare di unire fede e impegno sociale. Nella stessa San Marcos ci sono praticanti che non conoscono la realtà dei poveri. La Chiesa guatemalteca ha compiuto un’opzione chiara a favore dei poveri e degli indigeni, ma quando si tratta di tradurla nella pratica ci sono livelli diversi di impegno, tra i vescovi, tra i sacerdoti e le religiose, e tra i laici».
In questa realtà che influenza hanno le comunità di base?
«Abbiamo perso molto questa presenza di comunità di base, soprattutto perché negli anni del conflitto armato era molto pericoloso formare gruppi e questo ha fatto sì che esse rimanessero un po’ ai margini. Tuttavia ora stiamo tornando a parlare di piccole comunità, cioè nuclei in cui si vivano veramente i valori del Vangelo. Non si deve comunque dimenticare che nelle zone indigene questo modello non attecchisce, perché gli indigeni hanno una mentalità che mette l’accento sull’organizzazione comunitaria ampia. Nei paesini la gente si conosce, tutti sanno i problemi e i difetti altrui, e la grande maggioranza delle diocesi riunisce villaggi di piccole dimensioni. Invece a Città del Guatemala, che ha una grande periferia povera, le comunità di base funzionano meglio».
Dopo la fine della guerra, la Chiesa guatemalteca, che aveva svolto un ruolo profetico, è parsa faticare ad adeguare il proprio ruolo al nuovo momento storico. Che ne pensa?
«L’incisività della Conferenza episcopale si è effettivamente ridotta, forse per stanchezza, forse per il timore di favorire il ritorno a situazioni di violenza come quelle vissute durante la guerra civile, forse perché dovremmo rinnovare le nostre opzioni, nel senso di essere più coerenti con quanto abbiamo detto e scritto. Per esempio, qualche anno fa, come Conferenza episcopale si era pensato di scrivere una nuova lettera sul problema agrario, per dare seguito a quella del 1987, ma alla fine non siamo riusciti a metterci d’accordo. Non tutti i vescovi vivono la stessa realtà né le necessità della gente delle diverse diocesi sono parimenti pressanti, e questo influisce al momento di prendere decisioni, che dovrebbero essere più nette. C’è solidarietà tra i vescovi, ma su alcuni temi non abbiamo tutti la stessa opinione, soprattutto sulla questione agraria o su come affrontare la povertà».
A sei anni dalla pubblicazione del rapporto Guatemala: mai più, il processo di "recupero della memoria storica" prosegue?
«Solo cinque diocesi sono andate avanti. A San Marcos stiamo preparando la pubblicazione del nostro rapporto locale, che inquadra i risultati della ricerca nel contesto storico e sociale del dipartimento. È un modo per restituirlo alle comunità. Ci stiamo sforzando di unire su questo tutte le diocesi, ma non è facile».
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