31 ottobre 2009

Malore stronca Viazzoli

E’ morto ieri mattina nella casa di Chignolo Sindacalista alla Necchi, poi presidente del Csv

PAVIA. Si è spento improvvisamente Giampietro Viazzoli, 67 anni, presidente del Centro servizi volontariato. Una vita da sindacalista e poi nell’Auser, di cui da poco aveva lasciato la presidenza provinciale. «Eravamo delegati sindacali insieme - racconta Giorgio Bergamaschi - Ricordo il periodo in cui era morto Necchi. Sui giornali era uscito il titolo “6mila sul lastrico” era stato un periodo duro, avevamo perso subito duemila dipendenti». Poi Viazzoli era entrato nella Fiom. «In fabbrica era stimato, era un battagliero», ricorda Bergamaschi. «E’ stato il mio papà spirituale - dice Michele Fucci, segretario della Fiom - quando ho iniziato la mia esperienza sindacale lui è stato il mio primo funzionario della Fiom». «Ci siamo conosciuti nel 1969 - ricorda Riccardo Agostini, vice presidente del Csv - io ero studente a medicina e lui sindacalista. Ricordo la sua passione nella ricerca costante del dialogo, non si imponeva mai, cercava sempre di ragionare». Così anche nei 13 anni all’Auser. Domenico Fornasari ricorda quando insieme hanno costruito la sezione di Vigevano. «Era il ‘96, eravamo entrambi in pensione - dice Fornasari - Viazzoli era il primo presidente provinciale dell’Auser, prima se ne occupava il sindacato dei pensionati. Lui ha ereditato 8 circoli, oggi la nostra provincia ne ha 54». Da pochissimo aveva lasciato la presidenza dell’Auser ad Elena Borroni, come direttore e Angelo Zorzoli, presidente. Intanto però aveva iniziato un’altra avventura, come presidente del Csv. «Aveva questa attitudine all’apertura, a dare fiducia alle persone - ricorda ancora Agostini - Aveva una grande sensibilità, teneva fede ai suoi impegni sempre con riservatezza». I funerali saranno lunedì alle 10.30 a Chignolo Po, dove abitava con la moglie, una figlia e i suoi due nipotini, a cui si dedicava da nonno affettuoso. (ma.br.)

26 ottobre 2009

Don Ciotti: "Politica dei fatti per combattere la mafia"

di Claudia Fusani, l'Unità del 25 ottobre 2009

Fa le scale di corsa, risponde agli sms che lo ringraziano «per la meravigliosa esperienza» («è una poliziotta» spiega), corre da una riunione all’altra, ieri ce ne sono state 17 in sedi diverse sui temi dell’antimafia che hanno coinvolto 2.500 persone. Vero uomo del fare, don Luigi Ciotti trova anche il tempo di passare dalla redazione dell’Unità, prima di preparare il Manifesto di Contromafie 2009, che verrà letto stamani giornata di chiusura degli Stati generali dell’Antimafia.

Don Luigi, è come se l’antimafia in questo paese dove la mafia è il primo dei problemi, dalla legalità all’economia, non fosse una priorità della politica ma una delega in bianco ad associazioni come Libera.
«Guai se fosse così. In questa lotta, che è prima di tutto culturale, è fondamentale il ruolo di tutti. Ci tengo a dire che in questi anni, pur tra mille difficoltà e molti silenzi, non è mai venuto meno l’impegno delle forze di polizia e della magistratura. Però, non basta: per combattere le mafie serve una politica più consapevole e uno Stato sociale più forte».
Quella che lei chiama «la buona politica»?
«Una politica che sappia incontrare la partecipazione dei cittadini e, soprattutto, farsene arricchire. Nella cittadinanza ci deve essere sempre più politica e nella politica sempre più cittadinanza. Essere contro le mafie significa riaffermare che l’io è per la vita e non la vita per l’io».
Quella di oggi sembra invece una società molto concentrata sull’Io. Qual è lo stato di salute della politica oggi in Italia?
«Preferisco parlare di cosa fa Libera, del recupero dei beni mafiosi, delle cooperative che danno un progetto di vita in tante zone del paese, dell’impegno a coltivare memoria, cultura, informazione. La credibilità e l’autorevolezza di un progetto non sono misurate dall’attenzione mediatica ma dalla capacità di lasciare un segno. Ognuno di noi è quello che fa».
Corruzione sulla bonifica dei terreni; assunzioni in cambio di soldi e voti; politici collusi che si candidano ai vertici delle istituzioni: le ultime inchieste giudiziarie raccontano di una diffusa cultura mafiosa. La mafia è anche un atteggiamento culturale?
Il primo nemico è l’atteggiamento culturale. E la prima mafia è quella delle parole, quella per cui tutti si riempiono la bocca di concetti come legalità, diritti e poi però si fa poco o nulla. Essere contro le mafie significa soprattutto riaffermare la corresponsabilità, la centralità delle persone e del legame sociale e agire in questa direzione. Rita Atria, la giovane testimone di giustizia suicida a 17 anni, nell’ultima pagina del suo diario, scrive: «La prima mafia da combattere è quella dentro ciascuno di noi. La mafia siamo noi». Ancora oggi la sua tomba, a Partanna, non riesce ad avere una lapide».
La maggioranza sembra avere un’unica ossessione: la giustizia. Che ne pensa delle riforme?
"Non c’è magistratura senza indipendenza e dico guai a toccare la norma sulle intercettazioni. Se bisogna fare delle riforme, ecco che cosa chiede Libera: applicare la norma della Finanziaria 2006, quella che stabiliva l’uso sociale dei beni confiscati ai corrotti; la nascita di un’Agenzia nazionale, non nominata dalla politica, per la gestione dei beni confiscati; un testo unico per le leggi antimafia perché dall’organicità delle norme dipende l’efficacia; l’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice penale, un nuovo modello per il sistema di protezione dei testimoni». Improvviso ritorno delle inchieste sulle stragi del ’92-’93. Perché?
«Non so dire perché, Vedo che periodicamente alcune cose tornano in cima alla lista, urgenti. Facciano presto, abbiamo bisogna di verità. Di tante verità, un elenco lunghissimo».
Il boss Spatuzza, le cui rivelazioni un anno fa hanno dato impulso ai nuovi filoni di indagine, si è pentito dopo una crisi spirituale.
«Non è il solo. La parola del Vangelo è incompatibile con quella della mafia. Lo dico per chiarezza. Sa, anche Provenzano aveva il covo pieno di santini. Non esiste una mafia devota. E non si può appartenere alle mafie, o esserne conniventi, e ritenersi parte della comunità cristiana».

25 ottobre 2009

URGENTE HANNO ASSASSINATO FAUSTO OTZIN AVVOCATO MAYA DI COMALAPA COLLEGA E AMICO

Riceviamo e pubblichiamo questa mail dagli amici dell'associazione REKKO7 di Ravenna:

Care amiche e cari amici,ritengo giusto inoltrarvi questa lettera che viene dal Guatemala.Infatti, Alessandra Vecchi, che me l'ha inviata, è una nostra cara amica italo-guatemalteca, molto impegnata (assieme al marito Arnoldo e al figlio) nel movimento per la difesa dei popoli indigeni e per il riscatto dei poveri del Guatemala.A nome del nostro Centro Studi Juan Gerardi ho già inviato ad Alessandra il nostro cordoglio.Ma credo che sarà gradito, per lei e per la sua associazione, ricevere numerosi messaggi di solidarietà.Chiunque si senta di farlo, quindi, le scriva.
Grazie
Pippo
Carissimi:
con profondo, immenso dolore vi mando questa notizia. Fausto Otzin, come dice il comunicato di Waqib Kej, era un avvocato maya di 32 anni assasinato sabato scorso, 17 ottobre a San Juan Comalapa, Guatemala.

Fausto era un mio collega di lavoro nell'Associazione dei Sindaci e delle autoritá maya AGAAI ed era uno dei piú cari amici di Arnoldo.

Assieme ad Arnoldo e ad altri cari compagni di Comalapa, ha fondato AJESA che é il nucleo della Coordinadora Juvenil di Comalapa.

AJESA (Associazione di giovani in solidarietâ e Appoggio ) é un' associazione che si inizió a formare a Comalapa nel 1988, quando ancora era assai lontana la firma degli accordi di pace. E' una associazione nata tra giovani vittime della violenza repressiva dell'esercito: alcuni hanno visto uccidere i propri genitori, i propri famigliari, altri li hanno visti scomparire, e aggiungersi alla lista dei desaparecidos, altri hanno accompagnato, ancora bambini, le proprie madri quando stava sorgendo CONAVIGUA (l'associazione delle Vedove del Guatemala) ed hanno lottato contro il reclutamento militare forzoso. Tutti hanno agito e stanno agendo con coscienza, con intelligenza, con coraggio nel loro ambito di lavoro, continuando la lotta iniziata da bambini per una Guatemala piú giusta, senza razzismo, senza violenza, senza repressione militare.

Il loro motto é: ci temono perché non abbiamo paura. Non abbiamo paura di parlare con la veritá, non abbiamo paura di rivendicare i nostri diritti come popolo maya, non abbiamo paura di denunciare i corrotti, i razzisti, i violenti, gli assassini, i ladri; non abbiamo paura di lottare contro le miniere d'oro a cielo aperto che avvelenano col loro cianuro le nostre terre, non abbiamo paura di organizzarci e di organizzare.

Fausto, oltre alle attivitá descritte negli articoli e comunicati come difensore dei diritti del popolo maya, ha diretto lo scorso anno, come consulente dell'AGAAI, il II Incontro latinoamericano di governi municipali in territorio indigeno- Kychemb'il. Il tema era il diritto all'acqua, a quell'acqua che le miniere rubano o avvelenano, a quell'acqua che le multinazionali privatizzano e che imprese estere, come l'ENEL, rubano per generare elettricitá che mai arriverá a chi ne ha veramente bisogno.

Lo hanno ucciso nel suo paese, in un centro urbano abitato di 20000 abitanti. Lo hanno rapito, dopo una riunione familiare a casa di suo zio, lo hanno torturato, lo hanno colpito ripetutamente nella testa con il machete, lo hanno denudato e lo hanno buttato in un canale di scarico in un burrone accanto alla piazza centrale del paese. Una morte terribile che porta con se un messaggio assai chiaro: deve essere distrutta la testa di chi é intelligente, di chi osa pensare, di chi osa opporsi al potere del narcotraffico, della mafia, dei militari, dei governanti corrotti.

Una morte che ricorda in Guatemala i momenti peggiori del Conflitto armato interno e in Italia, l'agire della mafia o della camorra.

Una morte che a tutti noi della Coordinadora Juvenil di Comalapa, a tutti noi dell'AGAAI, a tutti noi che siamo parte di Waqib Kej ci rafforza ancora di piú a continuare, a non desistere.

Alessandra Vecchi,
(alevecchi@intelnett.com)

Una settimana in Guatemala per vedere come funziona il microcredito

PAVIA. E’ appena tornato Ruggero Rizzini dopo una settimana in Guatemala per sondare l’andamento dei progetti di cooperazione dell’Associazione italiana di nursing sociale sostenuti dai contributi dei volontari della provincia di Pavia. «Nel paese c’è carestia e siccità, stanno diminuendo le scorte di fagioli e mais - dice Rizzini - ma grazie al microcredito partito quest’estate già 15 capifamiglia hanno iniziato la formazione e una piccola attività imprenditoriale che integra il loro reddito». Il micro prestito ha un valore corrispondente a circa 150 euro, l’attività principale è la coltivazione di frutta e verdura, la programmazione biennale: «Il primo anno non ci sono interessi - spiega Ruggero Rizzini - il secondo anno invece si paga il 5%, che però non va all’associazione, ma viene depositato su un libretto di risparmio che i destinatari del credito riavranno alla fine dell’anno: un modo per abituare al risparmio chi è da sempre abituato a pensare alla sopravvivenza quotidiana». L’obiettivo è la creazione di una cooperativa, a partire dai gruppi di microcredito, come nell’India del banchiere dei poveri che ha inventato questo tipo di credito per chi non può accedere alle banche normali. (anna ghezzi)

la provincia pavese, 25 ottobre 2009

23 ottobre 2009

La Chiesa in Guatemala

IL VANGELO DELLA TERRA
di Mauro Castagnaro

La riforma agraria, la lotta alla povertà, all’ingiustizia e all’emarginazione delle popolazioni indigene: queste le grandi questioni che dovrebbero essere nell’agenda del governo, secondo monsignor Alvaro Ramazzini, vescovo di una delle diocesi più povere del Guatemala. Perché la fede è anche lotta per l’uomo.

Monsignor Alvaro Ramazzini, vescovo di San Marcos, in Guatemala, e presidente del Segretariato episcopale dell’America centrale (Sedac), è da anni in prima linea nella difesa dei diritti dei braccianti senza terra. Ciò lo ha reso più volte oggetto di intimidazioni e minacce di morte. La sua diocesi ha un’estensione di circa 4 mila chilometri quadrati con 800 mila abitanti, di cui il 60 per cento indigeni mames e sipacapenses, anche se una quota non trascurabile è in via di ladinizzazione, cioè ha perso la propria identità e non parla più la lingua né usa gli abiti tradizionali. Essendo una zona per lo più rurale, la maggioranza della popolazione è contadina e ci sono grandi latifondi in cui si coltivava il caffè, ma ora la crisi ha portato all’abbandono di molte piantagioni, con la crescita della disoccupazione. A ciò si aggiungono i problemi che derivano dal trovarsi vicino al confine col Messico, terra di passaggio degli emigranti provenienti soprattutto dal Salvador e dall’America del Sud.


Come giudica la situazione del Guatemala?

«Il nuovo governo, insediatosi il 14 gennaio, è formato soprattutto da esponenti delle classi agiate, in particolare imprenditori e uomini d’affari. D’altro canto nelle ultime elezioni le alternative non erano molto buone: il generale Efrain Rios Montt, leader del Fronte repubblicano guatemalteco (Frg), grazie alla maggioranza di cui disponeva in Parlamento, era riuscito a far convalidare la sua candidatura, nonostante violasse la Costituzione, che vieta di presentarsi a persone responsabili di colpi di Stato. Tuttavia l’ex dittatore ha perso la corsa alla presidenza e per il ballottaggio l’Frg ha stipulato un’alleanza occulta con l’Unione nazionale della speranza che candidava Alvaro Colom. Le forze di sinistra erano divise e non hanno raccolto molti voti. Il presidente Berger ha assunto la guida di un Paese che conosce un crescente impoverimento, dove non calano gli indici di violenza e insicurezza, con una forte presenza del narcotraffico e problemi strutturali non risolti. Come vescovi abbiamo sempre criticato le carenze del sistema giudiziario, denunciato la corruzione di cui stanno emergendo casi incredibili, e rilevato come la povertà cresca, soprattutto nelle regioni dell’interno. La crisi economica è forte e un chiaro indicatore ne è l’incremento dell’emigrazione, specie verso gli Stati Uniti».


Quali sono i nodi strutturali?

«C’è prima di tutto la persistente emarginazione dei popoli indigeni e dei contadini nello sviluppo sociale. Poi c’è il problema della terra: in Guatemala non è mai stata realizzata una riforma agraria, anzi parlarne è ancora oggi pericoloso. Il modello agricolo del Guatemala si fonda sull’esportazione di banane, zucchero e caffè, i tre grandi prodotti tradizionali del Paese. Ciò richiede latifondi, che occupano tutta la zona costiera, la più fertile. Nelle aree montagnose, dove vivono le popolazioni indigene, prevale invece il minifondo. Il modello agroesportatore, invece di creare ricchezza per tutto il Paese, ha generato povertà e conflittualità, tanto che in questo momento sono molte le aziende occupate da organizzazioni contadine, che vogliono accedere alla terra. Al di là della realtà schiavista che si registra nelle grandi aziende agricole, esiste il problema di non aver creato nuove fonti di lavoro per la grande maggioranza dei contadini del Paese. E per di più, il 70 per cento dei guatemaltechi ha meno di 23 anni».


Tutti questi giovani che prospettive hanno?

«Continuano a fare quello che facevano i loro padri e i loro nonni, cioè i braccianti, e allora molti cercano di emigrare negli Stati Uniti. Quando parliamo di riforma agraria non ci riferiamo comunque semplicemente a una ripartizione delle terre, ma come Commissione di pastorale della terra della Conferenza episcopale abbiamo presentato una proposta di "sviluppo rurale", che implica anche la trasformazione e commercializzazione dei prodotti, l’accesso al credito, ecc. In sostanza in Guatemala c’è povertà perché vige un modello agroesportatore che non genera ricchezza per tutti, ma anche perché è mancato un piano di sviluppo nazionale a lungo termine, che desse uguali opportunità a tutti. Gli interventi sono sempre molto parziali, legati al partito che vince le elezioni e non basati su una politica di Stato, su un progetto di Paese. L’altra causa strutturale è la concentrazione della ricchezza in poche mani».


Il Guatemala è considerato il Paese più povero dell’America centrale. Quali le ragioni?

«Perché la produzione del reddito è insufficiente e la sua distribuzione è la più ingiusta della regione. La maggioranza della popolazione non può accedere a un’istruzione di alta qualità. Gli imprenditori ripetono che il Guatemala deve essere più produttivo e competitivo, ma come può esserlo se lo Stato non adempie l’obbligo di offrire educazione di buon livello a tutti? La scorsa settimana ero in una comunità nei pressi di una grande azienda di produzione del caffè e ho chiesto dove fosse la scuola. Non c’era, ma 35 bambini ricevevano lezioni in un capanno molto caldo, poco illuminato, con la lavagna logora e dove il maestro senza contratto col governo deve insegnare contemporaneamente ad alunni di prima, seconda e terza elementare. Gli ho chiesto come facesse. "Io comincio a dare un compito al primo gruppo", mi ha risposto, "poi, mentre questi lo stanno eseguendo, ne do un altro al secondo, e poi al terzo". È assurdo! Ma questa è da sempre la situazione in Guatemala, dall’epoca coloniale non è cambiato nulla in questo settore, anche se girando alcune zone della capitale si ha l’impressione di vivere in un altro Paese. In Guatemala ci sono collegi privati che hanno rette mensili di 3 mila quetzales, mentre nell’interno del Paese un maestro quando inizia a lavorare ha un salario che non arriva a 2.500. In Guatemala i ricchi hanno accesso a un’istruzione ottima e naturalmente sono poi loro che gestiscono l’economia nazionale, in collegamento con la politica economica degli Stati Uniti».


Che fate di fronte a questa situazione?

«Nella nostra diocesi abbiamo un programma di appoggio ai contadini, ne sosteniamo le organizzazioni, forniamo loro consulenza giuridica nei conflitti sindacali, cerchiamo di aiutarli a trovare la terra, ma possiamo fare ben poco. Per esempio, ci scontriamo col fatto che l’amministrazione della giustizia non funziona: stiamo ora accompagnando sette gruppi di famiglie contadine in lotta per i loro diritti, ma da quattro anni attendiamo una sentenza, e nel frattempo queste persone non possono lasciare l’azienda agricola per cercare lavoro altrove, perché perderebbero il diritto che stanno rivendicando. Ma i conflitti sindacali sono solo un aspetto del problema, servono mutamenti strutturali».

Com’è la situazione nella sua diocesi?

«C’è molta fame, sta aumentando la denutrizione e la gente vive in condizioni penose. Povertà e mancanza di legalità favoriscono la crescita della criminalità organizzata, la diffusione delle bande giovanili, una pratica religiosa alienante. Per me questa è una delle principali spiegazioni dell’incremento dei gruppi cristiani pentecostali fondamentalisti: la gente che si barcamena ogni giorno per sopravvivere vuole almeno avere qualche spazio di sicurezza e rifiuta una proposta religiosa che chiami alla lotta per la trasformazione della società».


Che può dirci dell’assassinio, nel dicembre 2003, di padre José Maria Furlan, il sacerdote che aveva duramente criticato il precedente governo di destra del presidente Alfonso Portillo per le ripetute violazioni dei diritti umani?

«Le ragioni di quell’omicidio non sono ancora state chiarite. Padre "Chemita" era una persona molto controversa. Nella prima metà degli anni ’70 aveva assunto una posizione conflittuale nei confronti dell’allora arcivescovo di Città del Guatemala, il cardinale Mario Casariego, quindi si era candidato a sindaco della capitale, dicendo che la vittoria gli era stata scippata con i brogli. Negli ultimi anni la sua visibilità pubblica si era però ridotta: si era dedicato soprattutto a organizzare viaggi in Terrasanta, partecipando poi ad alcuni progetti di costruzione di case popolari. Era un uomo che aiutava molto i poveri, ma era coinvolto anche nel mondo degli affari e aveva un paio di alberghi. Perciò la sua uccisione ha sorpreso un po’ tutti: qualcuno dice che sia stato ammazzato da una persona che gli doveva del denaro o a cui aveva negato un prestito, qualcun altro parla di un terreno della parrocchia che egli avrebbe prestato e poi chiesto indietro. Tutto resta molto oscuro».

Come mai Rios Montt, l’ex dittatore del Guatemala durante gli anni ’80, non è riuscito ad arrivare neppure al ballottaggio?

«Penso che a un certo punto la gente abbia aperto gli occhi e si sia resa conto che non era una buona scelta. Ci sono anche state molte prese di posizione contro di lui e ha influito quanto avvenuto lo scorso anno, quando il Frg, per sostenere la sua candidatura, ha spinto i propri militanti a scendere in piazza e occupare le strade con la violenza. Senza contare che sono emersi casi di corruzione che coinvolgevano esponenti del governo uscente. Inoltre essi contavano molto sugli ex membri delle Pattuglie di autodifesa civile, ma tale appoggio si fondava sul denaro che avevano loro promesso a titolo di indennizzo per l’attività prestata durante la guerra civile e quando il governo non ha mantenuto l’impegno, dando solo un terzo di quanto promesso, molti non hanno votato Rios Montt».


Come accompagnate le lotte contadine, soprattutto quando le leggi non vengono rispettate o gli avversari sono molto potenti, senza cadere in un puro assistenzialismo economico o in un intervento limitato a risolvere situazioni particolari?

«Abbiamo l’appoggio di organismi internazionali, ecclesiali e non, come la fondazione For the right to feed oneself (Fian), che promuove le riforme agrarie. Questi esercitano pressioni sul nostro governo. Riceviamo un grande sostegno anche dall’Ufficio delle relazioni internazionali della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, che attualmente sta realizzando a Washington una campagna di pressione su deputati e senatori a proposito del Trattato di libero commercio tra Usa e America centrale (Cafta), con particolare riferimento all’eliminazione dei sussidi all’agricoltura».

Questo a livello internazionale. E sul piano interno come siete organizzati?

«C’è la Piattaforma agraria, che riunisce varie realtà, tra cui la Pastorale della terra della Conferenza episcopale, i sindacati contadini, l’Associazione per il progresso delle scienze sociali (Avancso) e il Centro di azione legale sui diritti umani (Caldh). Da due anni la Piattaforma agraria ha iniziato un negoziato col governo per risolvere la crisi sociale determinata dalla caduta del prezzo del caffè e proporre un piano di sviluppo rurale. Con le nuove autorità abbiamo avviato la discussione sulla questione agraria. Ci sono però alcuni problemi specifici da risolvere, come le occupazioni di terre, che continuano, gli ordini di sgombero che si vogliono mettere in atto, i mandati di cattura per i dirigenti contadini. Ci stiamo poi sforzando di organizzare i piccoli produttori, soprattutto di caffè, per favorire il loro ingresso nel circuito del commercio equo».


Rigoberta Menchù ha sempre chiesto che vengano processati i responsabili del genocidio della popolazione indigena, ma anche l’attuale Esecutivo non sembra interessato a questo. Come si giustifica allora la presenza di Rigoberta Menchù nel governo?

«Rigoberta ha detto di voler essere una "ambasciatrice di buona volontà" di fronte al resto del mondo, sostenendo che tale incarico le era stato affidato dall’Unesco. È stata anche molto chiara nel dire che non fa parte del governo, il che presuppone la libertà di continuare a chiedere giustizia».

In Guatemala dagli anni ’80 il movimento popolare non è mai stato molto forte, perché la paura era tale da impedirne la crescita. Qual è la situazione oggi?

«Il movimento popolare resta molto debole. C’è un’estrema disgregazione. Ci sono proteste, ma non si ottengono risultati. Uno dei segnali per me più chiari della mancanza di partecipazione della società civile è l’assenza di rappresentanti delle organizzazioni popolari nei negoziati per il Trattato di libero commercio; né ci sono state pressioni per esigere tale presenza. Bisogna rafforzare il movimento popolare per farne una forza di critica all’attuale governo».


I latifondisti l’hanno molto criticata per il suo impegno a favore dei contadini e lei è stato anche minacciato di morte nel 1996 e poi nel 2002.

«Negli ultimi due anni non ho più ricevuto minacce. Ci sono stati momenti molto difficili, ma la situazione ora è tranquilla».


Come giudica la Santa Sede il vostro lavoro e il vostro impegno?

«Le autorità vaticane non ci hanno mai fatto particolari osservazioni. Quando è stato ucciso monsignor Gerardi abbiamo ricevuto un grande appoggio da Roma. D’altro canto, non stiamo facendo nulla che sia al di fuori dell’insegnamento della Chiesa. I nostri punti di riferimento sono il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa, per cui non ci si può accusare di seguire una strada sbagliata».

Vuol dire che Roma vede la realtà nel vostro stesso modo?

«Una cosa è essere direttamente a contatto con la sofferenza e l’ingiustizia, un’altra osservarla da lontano. Ciò influisce sul modo di essere e agire. Quando ero prete a Città del Guatemala, pensavo di conoscere bene la realtà guatemalteca e di operare in modo coerente col Vangelo. Ma quando sono arrivato a San Marcos, mi sono reso conto che non avevo una comprensione sufficiente né il mio impegno era abbastanza profondo. Per cui è vero che c’è differenza. D’altro canto anche qui ci sono molti cattolici cui non si può neppure parlare di unire fede e impegno sociale. Nella stessa San Marcos ci sono praticanti che non conoscono la realtà dei poveri. La Chiesa guatemalteca ha compiuto un’opzione chiara a favore dei poveri e degli indigeni, ma quando si tratta di tradurla nella pratica ci sono livelli diversi di impegno, tra i vescovi, tra i sacerdoti e le religiose, e tra i laici».


In questa realtà che influenza hanno le comunità di base?

«Abbiamo perso molto questa presenza di comunità di base, soprattutto perché negli anni del conflitto armato era molto pericoloso formare gruppi e questo ha fatto sì che esse rimanessero un po’ ai margini. Tuttavia ora stiamo tornando a parlare di piccole comunità, cioè nuclei in cui si vivano veramente i valori del Vangelo. Non si deve comunque dimenticare che nelle zone indigene questo modello non attecchisce, perché gli indigeni hanno una mentalità che mette l’accento sull’organizzazione comunitaria ampia. Nei paesini la gente si conosce, tutti sanno i problemi e i difetti altrui, e la grande maggioranza delle diocesi riunisce villaggi di piccole dimensioni. Invece a Città del Guatemala, che ha una grande periferia povera, le comunità di base funzionano meglio».

Dopo la fine della guerra, la Chiesa guatemalteca, che aveva svolto un ruolo profetico, è parsa faticare ad adeguare il proprio ruolo al nuovo momento storico. Che ne pensa?

«L’incisività della Conferenza episcopale si è effettivamente ridotta, forse per stanchezza, forse per il timore di favorire il ritorno a situazioni di violenza come quelle vissute durante la guerra civile, forse perché dovremmo rinnovare le nostre opzioni, nel senso di essere più coerenti con quanto abbiamo detto e scritto. Per esempio, qualche anno fa, come Conferenza episcopale si era pensato di scrivere una nuova lettera sul problema agrario, per dare seguito a quella del 1987, ma alla fine non siamo riusciti a metterci d’accordo. Non tutti i vescovi vivono la stessa realtà né le necessità della gente delle diverse diocesi sono parimenti pressanti, e questo influisce al momento di prendere decisioni, che dovrebbero essere più nette. C’è solidarietà tra i vescovi, ma su alcuni temi non abbiamo tutti la stessa opinione, soprattutto sulla questione agraria o su come affrontare la povertà».


A sei anni dalla pubblicazione del rapporto Guatemala: mai più, il processo di "recupero della memoria storica" prosegue?

«Solo cinque diocesi sono andate avanti. A San Marcos stiamo preparando la pubblicazione del nostro rapporto locale, che inquadra i risultati della ricerca nel contesto storico e sociale del dipartimento. È un modo per restituirlo alle comunità. Ci stiamo sforzando di unire su questo tutte le diocesi, ma non è facile».

APPELLO AI SOLDATI - LLAMADO A LOS SOLDADOS

"Vorrei fare un richiamo speciale agli uomini delle forze armate, in modo particolare della guardia nazionale, della polizia, delle caserme.

Fratelli, sono del nostro stesso popolo! uccidete i vostri stessi fratelli contadini. Di fronte ad un ordine di uccidere che dà un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice:

NON UCCIDERE!

Nessun soldato è obbligato ad obbedire a un ordine contrario alla legge di Dio, una legge immorale che nessuno deve seguire, è ormai tempo di recuperare la coscienza, e di obbedire prima alla propria coscienza, che all'ordine del peccato!

La chiesa difensora dei diritti di Dio, della legge di Dio, della dignità umana, della persona,

Non può tacere di fronte a tanta ignominia vogliamo che il governo* agisca sul serio, perchè a nulla servono le riforme se sono sporche di così tanto sangue!

In nome di Dio dunque, in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono in cielo ogni giorno più tumultuosi Vi prego, vi supplico, vi ordino in nome di Dio!

¡CESSATE LA REPRESSIONE!”


Parole d'Oscar Romero, Arcivescovo di El Salvador,fu assassinato il 24 marzo 1980, dopo aver fatto quest’appello ai soldati delle forze armate per fermare la repressione contro i contadini nel paese centroamericano. * Governo dell'epoca e fa riferimento a una giunta civica e militare del 1980.

Lo spirito è tra i poveri

di Jon Sobrino

Il 16 novembre 1989 uno squadrone della morte irrompeva nell’Università Centroamericana (Uca) e massacrava otto persone: sei gesuiti, tra cui il noto teologo Ignacio Ellacuría, e due donne che lavoravano per loro. A distanza di vent’anni, quell’eccidio è ricordato dal libro di Emanuele Maspoli Ignacio Ellacuría e i martiri di San Salvador (Paoline). Anticipiamo la prefazione di padre Jon Sobrino, scampato per caso all’eccidio perché in quei giorni all’estero. Il religioso, anche lui sulla lista nera dei militari salvadoregni responsabili del massacro, riassume i punti fondamentali del pensiero di Ellacuría, e spiega perché qualsiasi riscatto non può che partire dai poveri.

Sono passati venti anni dal martirio dei gesuiti dell’Uca, l’Università centroamericana in Salvador: Ignacio Ellacuría, Segundo Montes, Ignacio Martín Baró, Juan Ramón Moreno e Joachín López y López. Con loro furono assassinate due donne semplici che lavoravano con i gesuiti: Julia Elba e Celina, madre e figlia. Sono simbolo di molte altre migliaia di donne e bambini che sono morti e muoiono innocenti e indifesi. Non possiamo dimenticare ciò che è accaduto. E con la memoria coltiviamo la speranza che si possa umanizzare questo nostro mondo, che continua a produrre martiri e vittime.
Per comprendere il significato di quelle morti occorre partire dal pensiero di padre Ellacuría, il rettore dell’Uca. Il gesuita insisteva particolarmente, nella sua riflessione, su tre punti nodali. Punti, che bisogna riportare nella coscienza collettiva, nel mondo della cultura e nelle chiese. Dimenticarli significherebbe impoverire la realtà che viviamo, nella società e nella Chiesa, e rendere ancora più difficile il compito più importante del nostro tempo, così come lui lo vedeva: «Invertire la storia, sovvertirla e lanciarla in un’altra direzione».
Il pensiero di Ellacuría parte innanzitutto dal concetto di popolo crocefisso, un tema che si dimentica con facilità. Nel 1981, durante il suo secondo esilio a Madrid, Ellacuría scrisse un testo vigoroso. In esso ricorda che «tra tanti segni che come sempre si danno, alcuni vistosi e altri appena percepibili, in ogni tempo ce n’è uno che è il principale, sotto la cui luce si devono discernere e interpretare tutti gli altri. Tale segno è sempre il popolo storicamente crocefisso, che unisce alla sua permanenza la sempre distinta forma storica della sua crocifissione. Questo popolo è la continuazione storica del servo di Jahvé, al quale il peccato del mondo persiste nel togliere l’umanità, che i poteri di questo mondo continuano a spogliare di tutto, strappandogli persino la vita, soprattutto la vita».

Il testo è facile da leggere, ma dice cose difficili da accettare, anche da parte delle teologie progressiste e delle politiche di sinistra. Esso dice che il «segno», quello in cui si concentra la realtà, sono «i popoli», le immense maggioranze che vengono private, ingiustamente, della loro umanità e a cui viene data la morte con crudeltà comparabile a quella della crocifissione. Questa è la verità più profonda della realtà. È strutturale. Divide e contrappone gli esseri umani in minoranze del Primo mondo e maggioranze del Terzo mondo. Ha alle sue spalle secoli di storia e continua a essere vigente.
In effetti, la parola più audace e più interpellante del testo, scritto più di venti anni fa, è il «sempre» del popolo crocifisso. La tesi del «sempre» di solito non è accettata. Alcuni, infatti, pensano che già viviamo in un mondo sufficientemente umano, nascondendo e fingendo di non vedere l’orrore che si continua a produrre. Non è così. Persino istituzioni ufficiali sono obbligate ad ammettere il «sempre». Secondo il rapporto del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) del 2007-2008, il 20% dei più ricchi assorbe l’82,4% della ricchezza mondiale, mentre il 20% dei più poveri deve accontentarsi dell’1,6%. Ciò significa che una piccolissima minoranza monopolizza il consumo su scala mondiale e le immense maggioranze sono gettate nella miseria. Jean Ziegler, nel suo rapporto per le Nazioni Unite, afferma che nel mondo ci sono più di 900 milioni di affamati e che ogni quattro secondi un essere umano muore di fame. E la tragedia ecologica non è minore.

Si cerca d’ignorare o alleggerire il peso del «sempre», ma il dato resta. E s’ignora pure – ed è comprensibile in una società civile ma non dovrebbe essere altrettanto nelle Chiese – che questo popolo crocefisso è il «segno della presenza di Dio». Ed è la continuazione storica del servo di Jahvé. Su questo Ellacuría insistette fino alla fine.

Un altro punto importante è il concetto della civiltà della povertà. Su questo tema Ellacuría cominciò a scrivere nel 1982 e vi insistette fino alla fine della sua vita. Era convinto che la nostra società fosse gravemente malata e che la colpa fosse dell’imperante civiltà della ricchezza, che a volte chiamava pure «civiltà del capitale». Tale civiltà offre sviluppo e felicità. Propone come motore della storia l’accumulazione privata del maggior capitale possibile e come principio di umanizzazione la partecipazione e il godimento della ricchezza. In questa civiltà vive oggi il Primo mondo, glorificandosene, con pochi che beneficiano dei suoi successi e le maggioranze che soffrono le conseguenze del suo egoismo.
Senza cadere in semplificazioni, né negare i benefici che ha prodotto, bisogna ricordare che un tale progetto non è percorribile perché non ci sono le risorse affinché tutti gli esseri umani possano vivere così. Citando Kant, Ellacuría ricordava che ciò che non è universalizzabile non può essere morale, né umano. E anche se fosse realizzabile, non sarebbe desiderabile, perché ha condotto con sé grandi mali e i meccanismi stessi di autocorrezione non sono né efficaci né sufficienti per invertire il suo corso distruttore. Il peggiore dei suoi mali è che non soddisfa le necessità fondamentali di tutti. Un altro grande male, sul quale Ellacuría insistette ogni giorno con più forza, è che esso non genera «spirito», non genera valori che umanizzino le persone e le società.

A tale civiltà egli contrappose la civiltà della povertà. In questa visione il motore della storia è il soddisfacimento universale delle necessità fondamentali e il principio di umanizzazione è la crescita della solidarietà condivisa. La civiltà della povertà è «uno stato universale di cose in cui è garantito il soddisfacimento delle necessità fondamentali, la libertà delle opzioni personali e un ambito di creatività personale e comunitaria che permetta l’apparizione di nuove forme di vita e cultura, nuove relazioni con la natura, con gli altri uomini, con se stessi e con Dio». Alla base della civiltà della povertà c’è la tradizione biblico-cristologica. In tutto l’Antico e Nuovo Testamento si afferma che è dai poveri che proviene la salvezza. E, scandalosamente, anche dalle vittime. Su questo insisteva Ellacuría: il servo sofferente di Jahvé porta alla salvezza.
In forma programmatica, nel contesto della 34ª Congregazione generale dei gesuiti, scriveva: «Questa povertà è quanto dà realmente spazio allo spirito, che non si vedrà più soffocato per l’ansia di avere sempre più degli altri, per l’ansia concupiscente di ottenere ogni sorta di bene superfluo, quando invece alla maggior parte dell’umanità manca il necessario. Potrà allora fiorire lo spirito, l’immensa ricchezza spirituale e umana dei poveri e dei popoli del Terzo mondo, oggi spenta dalla miseria e dall’imposizione di modelli culturali più sviluppati in alcuni aspetti, ma non per questo più pienamente umani».

Sono parole importanti raramente pronunciate. Parlare dell’immensa «ricchezza spirituale e umana dei poveri e dei popoli del Terzo mondo» non significa nascondersi i mali che genera la povertà. Ma è un fatto riconosciuto che coloro che hanno vissuto e lavorato in Paesi in via di sviluppo, che hanno conosciuto la sua gente, che hanno gioito e sofferto con essa, riconoscono con gratitudine di aver incontrato "qualcosa" che non avevano trovato nel mondo della ricchezza. Questo "qualcosa" può essere l’aver trovato un modo di vivere con speranza e senza arroganza, con misericordia e senza egoismo, con forza fino alla fine e senza tentativi ed esperienze sempre provvisori. Può essere smettere di provare vergogna di far parte di questa crudele specie umana attuale.
Questo è «spirito». Per Ellacuría i suoi depositari diretti sono i poveri «con spirito», e coloro che solidarizzano con essi. Con tutti loro è possibile costruire una «civiltà della povertà».


Infine il pensiero di Ellacuría non prescinde dalla figura di monsignor Romero. Con lui «Dio passò da El Salvador», disse nell’omelia della Messa che celebrammo nell’Uca pochi giorni dopo l’assassinio dell’arcivescovo. Sono parole profonde, piene di gratitudine e affetto. Ma esse mostrano pure cos’era per Ellacuría il Dio misterioso. In termini più astratti, come egli spiegava la trascendenza. A partire da Gesù, vide nella fede o credette di vedere che la trascendenza si fece trans-discendenza per giungere a essere con-discendenza. E ciò si concretizzò e attualizzò in monsignor Romero.
La fede in un Dio disceso tra gli uomini può umanizzare e, anche quando non si espliciti religiosamente, può indicare quanto nella storia e nella vita c’è del mistero. Personalmente non credo che quanto ci viene offerto oggi umanizzi molto. La democrazia, la libertà e l’umanesimo sono senza dubbio positivi e posseggono valori se si vivono bene. Ma non è facile vedere solo in essi un potenziale di umanizzazione. E quando in altri lari si ricorre a un qualche tipo di trascendenza, non la si suole presentare come trans-discendenza e con-discendenza fino alla croce.
Per Ellacuría – che ripensava a Dio in corsi di filosofia con Xavier Zubiri, e al Dio di Gesù nei corsi di teologia con Karl Rahner – monsignor Romero era fondamentale per ripensare e leggere Dio nella vita reale e per essere introdotto al mistero. Monsignor Romero si poneva su un piano differente da quello di Zubiri o Karl Rahner, i suoi amati e ammirati maestri.

Lo stesso Ellacuría spiegava questo rapporto e cosa intendeva per trascendenza dicendo che «monsignor Romero non si stancò mai di ripetere che i processi politici, anche quando siano purissimi e sommamente idealisti, non sono sufficienti per condurre l’uomo alla liberazione integrale. Intendeva perfettamente quel detto di Sant’Agostino che per essere uomo si deve essere "più" che uomo. Per lui, la storia che si presentasse solo come umana, che pretendesse d’essere soltanto umana, presto avrebbe smesso di esserlo. Né l’uomo né la storia bastano a se stessi. Per questo non smetteva di richiamare alla trascendenza. In quasi tutte le sue omelie usciva questo tema: è la parola di Dio, l’azione di Dio a rompere i limiti dell’umano. Una trascendenza che mai si presentava come abbandono dell’umano, come fuga dall’uomo, quanto piuttosto come il suo superamento e perfezionamento. Un più in là che non abbandonava il più in qua, ma che lo apriva e lo spingeva più avanti».

Dio non lasciò mai in pace Ellacuría. E lo sollecitò soprattutto attraverso monsignor Romero. L’arcivescovo fu di fondamentale importanza per la fede stessa del padre Ellacuría. Siamo di fronte al mistero ultimo di ogni essere umano, nel quale si può entrare soltanto in punta di piedi. Ma io credo che in monsignor Romero egli vide un uomo di Dio e vide Dio in quell’uomo.
Romero divenne il volto di Dio, un volto, in definitiva, più fascinans che tremens. Ellacuría, al quale in quasi tutte le altre cose toccava d’essere il primo e di condurre dietro di sé gli altri, nella fede sentiva di dover essere condotto da altri: dai poveri di questo mondo e certamente da monsignor Romero. Egli era il pedagogo e il mystagogo, invito permanente a mettersi di fronte al mistero ultimo, a lottare con Dio come fece Giacobbe, e a camminare umilmente con Lui, come chiede Michea.
Ancora oggi, a distanza di tanti anni, il popolo crocifisso continua a essere il segno dei tempi per tutti, credenti e non credenti. La civiltà della povertà continua a essere la formulazione più azzeccata dell’utopia umana, forse più comprensibile per i credenti della tradizione biblico-gesuanica. Vedere il passaggio di Dio nella storia in monsignor Romero, e in molte vittime e martiri, può essere possibile a partire da un umanesimo intriso di spirito di purezza, e può essere reale a partire da una fede che si sia lasciata permeare da Gesù di Nazaret.
Jon

1 ottobre 2009

In memoria di Poveda

Il fotografo e documentarista francese Christian Poveda, ucciso per il suo lavoro di denuncia in Salvador, ricordato attraverso il suo lavoro

Il 3 settembre scorso all'età di 54 anni veniva ucciso in El Salvador il noto fotoreporter francese Christian Poveda.

L'uomo da qualche tempo aveva terminato di realizzare il suo ultimo lavoro: un documentario sulle Maras, potenti e violente bande giovanili presenti nel piccolo paese centroamericano. Poveda da qualche anno aveva trasferito la sua residenza proprio a El Salvador. Il 30 settembre prossimo uscirà nelle sale cinematografiche francesi il suo ultimo lavoro, "La vida loca", un film documentario sulla quotidianità dei giovani appartenenti alla Maras 18 , la più famosa e pericolosa band del Paese. Poveda è stato ritrovato senza vita a bordo della sua auto in uno dei quartieri periferici della capitale salvdoreña. Evidenti sulla testa del fotoreporter i segni dei colpi di pistola che i killer hanno sparato. La polizia nel frattempo è riuscita a arrestare i presunti autori dell'omicidio. Si tratta di quattro persone, fra loro anche un agente della polizia locale. Secondo gli inquirenti l'omicidio sarebbe stato commissionato da Nelson Lazo Rivera un noto bosso della malavita rinchiuso da tempo nelle galere salvadoreñe. Un sito ne ricorda il lavoro. Anche PeaceReporter.

America Latina, di corsa verso il riarmo

Miliardi di dollari spesi dai governi della regione per ampliare l'arsenale militare. Nella zona del mondo più pacifica.

Armamenti di tutti i tipi stanno invadendo il continente più pacifico del pianeta, quello americano. Non tanto perchè nell'area non sono mai state combatture guerre, anzi, ma perchè in questo periodo storico le relazioni fra stati a parte piccoli screzi riconducibili all'esuberanza di certi presidenti, sono buone e di possibili conlitti all'orizzonte proprio non se ne vede nemmeno l'ombra. Miliardi di dollari spesi ogni anno dai governi dei paesi dell'area vanno a rimpinguare le casse delle case produttrici di armi. E inevitabilmente a fomentare la violenza. Paesi economicamente forti in questo momento come Venezuela e Cile fanno annualmente una corsa al riarmo del tutto inutile in un'area che non vede conflitti.In ogni caso le nazioni sudamericane corrono ai ripari. Vendono e comprano armamenti come se il rischio di una guerra fosse dietro l'angolo. L'ultimo caso riguarda il Venezuela del presidente Hugo Chavez che ha deciso l'acquisto di un ingente numero di armamenti. Nel corso dell'ultimo anno, inoltre, Caracas ha stretto accordi con la Russia per l'acquisto di tecnologie militari. Non solo. Per poter ampliare maggiormente l'arsenale militare ha avuto accesso a un finanziamento di Mosca pari a due miliardi di dollari. Soldoni che serviranno a mettere negli hangar dell'esercito venezuelano almeno 90 carri armati di ultima generazione, armi automatiche Ak-103 e sistemi di difesa antimissile di produzione russa.Prestito e riarmo che non è affatto piaciuto all'amministrazione statunitense preoccupata dall'aumento senza controllo delle armi nei paesi che maggiormente sono distanti dalle sue posizioni politiche. Inoltre, da sempre gli Usa hanno accusato il presidente Chavez di fornire armi ai vari gruppi guerriglieri che si muovono in America Latina, soprattutto in Colombia.Ed è stata proprio la Colombia negli ultimi anni a allargare in modo esponenziale il suo arsenale. La lotta contro il traffico internazionale di sostanze stupefacenti e la guerriglia interna per debellare le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), il gruppo d'ispirazione marxista che combatte da oltre 40 anni contro il governo centrale, sono stati i motivi che hanno spinto Bogotà a riarmarsi e Washington a mettersi di fianco finanziando l'acquisto di armi e di qualsiasi strumento militare che consentisse di combattere la guerra contro narcos e guerriglieri.Una voce importante nel bilancio colombiano quella dell'acquisto di armi. Una spesa complessiva che nell'ultimo anno ha superato i 5,5 miliardi di dollari e che aumenta ogni anno sempre più.Ma anche Cile e Brasile non si possono nascondere dietro a un dito. Brasilia aveva messo nel preventivo 2008 spese militari per oltre 3 miliardi di euro, interamente utilizzabili per lo sviluppo dell'industria bellica nazionale. E soprattutto per eliminare una volta per tutte la dipendenza da altri paesi anche se ancora per un anno acquisterà equipaggiamenti e tecnologie di difesa dalla Francia. Una bella cifra quella stanziata che non comprende , però, gli emolumenti per gli operatori del settore che sarebbero più di 300 mila. Non solo. Nel progetto di riarmo voluto dal governo Lula è stata prevista anche la produzione interna di velivoli militari destinati al pattugliamento dei cieli nazionali, veicoli. Basi militari lungo i confini amazzonici e dispiegamento di militari completano le voci del preventivo brasiliano.Il Cile non è da meno. Con i suoi 5.300 milioni di dollari messi a budget è il terzo paese dell'America Latina per spese militari. Inoltre è anche uno dei paesi che organizza esercitazioni militari.In ogni caso la tendenza degli ultimi due anni nel Cono Sur è stata quella della corsa al riarmo tanto che le nazioni dell'area avrebbero messo in preventivo spese per il 2008 pari a 50 miliardi di dollari contro i quasi 40 dell'anno precedente. E probabilmente con la decisione presa nell'ultima riunione dell'Unasur, svolta proprio in Brasile, in cui i paesi aderenti hanno dato parere favorevole per la costruzione di un Consiglio di Sicurezza regionale, le spese aumenteranno ancora.

Alessandro Grandi

Hélder Câmara:Un ricordo che apre al futuro

Autore: Graziano Zoni (curatore)
Con interventi di: Roger Etchefaray, Bartolomeo Sorge, Luigi Bettazzi, Giancarlo Zizola, Sabina Siniscalchi, Lorenzo Caselli, Renato Kizito Sesana, Luigi Muratori.

Dom Hélder Câmara è un protagonista dell'epoca più recente della storia della Chiesa, quella iniziata con il Concilio Vaticano II (1962-1965). Brasiliano, arcivescovo di Recife, per più di trent'anni ha visitato molti paesi promuovendo la giustizia e la pace.Dom Hélder è tra i "profeti" di una Chiesa che non solo è disposta ad accogliere, ma va incontro a tutti gli uomini e le donne del mondo. Come vescovo latinoamericano ha sostenuto la scelta di partire sempre dai più poveri per portare avanti la costruzione del Regno di Dio. La sua immagine lieta e sorridente è un'indimenticabile testimonianza della gioia del Vangelo.Questo libro presenta, nella prima parte, una serie di interventi pronunciati al Convegno Internazionale "La forza delle idee" tenutosi all'Università Cattolica di Milano il 14 febbraio 2009, in occasione del centenario della nascita di Don Hélder Câmara, a cura del Centro Internazionale Hélder Câmara e della Facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica.La seconda parte contiene il testo della "Sinfonia dei due mondi", l'opera in cui Dom Hélder canta con entusiasmo gli eventi fondamentali della storia sacra: la creazione e la redenzione.

pagg. 128
euro 9,00
editrice missionaria italiana

volontariato a Pavia

E’ difficile quantificare il numero di volontari che operano, spesso silenziosamente, nel nostro Paese. Le cifre per la verità spaziano notevolmente: c’è chi dice che sia una “popolazione” di cinquecentomila persone, altri invece arrivano a contarne addirittura un milione. Al di là degli zeri scomodati per inquadrare l’ampiezza del mondo del volontariato, ciò che davvero preme sottolineare è che se per un giorno soltanto tutte queste persone si astenessero dalle proprie incombenze, portate quasi sempre avanti col sorriso di chi nasconde il sacrificio, probabilmente la società intera subirebbe uno scossone non indifferente. Soprattutto le fasce più deboli, quelle che beneficiano dell’opera dei volontari impegnati con spirito di gratuità a tamponare le falle delle istituzioni ai vari livelli.
Gli stessi rappresentanti delle amministrazioni locali più volte hanno avuto l’onestà intellettuale di ammetterlo. Viene in mente il presidente della Provincia, Vittorio Poma, quando alla festa annuale dell’Agal fece presente che i volontari di quell’associazione arrivano dove l’amministrazione non riesce ad arrivare. Oppure l’allora commissario straordinario del San Matteo Giovanni Azzaretti che, nel giorno della presentazione del progetto della Residenza Barbara Fanny Facchera, si rivolse al presidente dell’Aep Tullio Facchera riconoscendo che loro tempistiche di intervento erano qualcosa di inavvicinabile dal settore pubblico.
Eppure, nonostante questi e tanti altri attestati di stima, forbici e lente di ingrandimento sono sempre pronti a colpire il mondo del volontariato: forbici che tagliano i finanziamenti pubblici e lente dell’Agenzia delle Entrate che va a frugare in conti e bilanci dell’universo del no profit per scovare chissà quali profitti illeciti. Intendiamoci, il mondo del volontariato ha il dovere di agire nella massima trasparenza -e su questo non ci piove- ma a volte pare di assistere a una sorta di accanimento -non terapeutico- che forse sarebbe più proficuo dirottare su altri mondi dove l’evasione fiscale è presumibilmente più evidente.
Ecco che il Terzo Settore, poco abituato per sua natura ad alzare la voce, adesso non ci sta più e ha indetto per giovedì 1° ottobre una manifestazione nazionale di protesta a Roma, in piazza Montecitorio.
Martedì abbiamo incontrato i rappresentanti del Centro Servizi Volontariato di Pavia: il presidente Giampietro Viazzoli, il direttore Nicoletta Marni, i consiglieri del direttivo Pinuccia Balzamo e Ruggero Rizzini.
Il clima che si respira è di forte preoccupazione e non potrebbe essere diversamente. Il 5 per mille relativo all’anno 2006-2007 non è ancora arrivato nelle casse, le Fondazioni hanno tagliato del 25% i finanziamenti già in questo anno 2009 e quasi sicuramente un altro 25% sarà sfrondato nel 2010. C’è una forte incertezza per quanto riguarda il futuro e questa ha pesanti riflessi sulla programmazione delle attività.
“Come ci muoveremo? Innanzitutto da qui alla fine dell’anno cercheremo di ridurre il più possibile le spese generali di gestione -spiega il direttore del Csv Nicoletta Marni- chiaramente non ci sentiamo di assumere nuovi impegni di spesa e sono sospesi tutti gli avvisi di selezione. Inoltre abbiamo tagliato alcuni progetti su attività di consulenza collaterale alle attività istituzionali del Centro”. Al Csv lavorano quattro dipendenti a tempo pieno e due part-time. La salvaguardia del posto di lavoro passerà inevitabilmente per una rimodulazione dell’attività del Centro, che comincerà a proporre servizi che vadano oltre quelli strettamente rivolto al volontariato. Per esempio alcuni tipi di consulenza. La sopravvivenza del Csv è fondamentale per il cammino del mondo del volontariato e, come detto, per la società intera su cui si riflette l’operosità dei volontari.
“Ciò che è davvero importante sottolineare -ribadisce infatti Viazzoli- è che sarà proprio la gente, e i più deboli in particolare, a rimetterci da questi tagli. Oggi gran parte dello stato sociale viene gestito dalle associazioni di volontariato. Tradisco la mia provenienza (sindacale) dicendo che se domani mattina decidessimo di fermare con uno sciopero il mondo del volontariato la società pagherebbe un prezzo pesantissimo e la gente forse si accorgerebbe di quello che i volontari fanno realmente ogni giorno”.
In una provincia come Pavia, dove si conta percentualmente il maggior numero di associazioni in tutta la Regione (che a sua volta è leader a livello nazionale), il problema spesso è la comunicazione: tra un’associazione e l’altra e anche all’interno dei soci di quella stessa associazione.
“E’ vero, le associazioni della nostra provincia sono molte e quasi sempre piccole -rileva Viazzoli- spesso per il Centro l’unico momento per comunicare con loro è costituito dalle assemblee dei soci. Generalmente a presenziare ad esse è il presidente e capita che successivamente il passaggio delle informazioni agli altri soci dell’associazione non sia perfetto. Per questo l’intenzione, nonostante la scarsità di disponibilità economiche, è quella di portare avanti un progetto sulla comunicazione, che verrà sottoposto al giudizio del direttivo il prossimo 5 ottobre”.
Facciamo rilevare al presidente che qualche associazione ha evidenziato come, in tempo di ristrettezze, forse sarebbe più conveniente preferire altri investimenti più concreti rispetto al Festival dei Diritti, che ha un ritorno solo in termini di immagine. Rispondono insieme Viazzoli e Marni: “Il Festival dei Diritti è nato nel 2008 per celebrare il decennale del Csv. Poi abbiamo deciso di mantenerlo, seppur adeguatamente ridimensionato, perchè non lo consideriamo una mera forma di immagine ma di vera e propria educazione al rispetto dei diritti e di promozione per intercettare un target di gente differente rispetto a chi già frequenta il mondo del volontariato”.
Ci sarà insomma da stringere i cordoni della borsa, ma il mondo del volontariato tiene duro in forza della missione a cui deve adempiere. Con orecchie e occhi ben aperti sul mondo e, probabilmente, con la consapevolezza che bisogna anche cominciare ad alzare la voce. Anche perchè, come ha ricordato Pinuccia Balzamo, fioccano le notizie di convenzioni con cooperative sociali non rinnovate e di cooperative di tipo B costrette a chiedere la cassa integrazione per i propri lavoratori. Anche se magari svolgevano servizi utilissimi come la pulizia dei parchi giochi e il recupero di materiali ingombranti.

daniela scherrer, il ticino

IL GOLPE IN HONDURAS E L’IPOCRISIA USA

Ramon Mantovani

Il ritorno del Presidente Manuel Zelaya in Honduras e l'ospitalità concessa dall'Ambasciata del Brasile, con gli onori dovuti ad un Capo di Stato in carica, hanno forse definitivamente messo fine alle diverse manovre in atto per legittimare, di fatto, gli effetti del golpe militare di Micheletti. La presenza del Presidente legittimo sul suolo hondureño, a dispetto delle misure straordinarie messe in atto dai golpisti per impedirlo, mette tutti di fronte alle proprie responsabilità. Ora non è più possibile che qualcuno lavori senza smascherarsi per finte soluzioni, tipo nuove elezioni senza Zelaya o accordi di mediazione (come l'Accordo di San Josè prodotto dal governo del Costa Rica), che comunque legittimerebbero la defenestrazione di Zelaya per mano dei militari. Da una parte c'è un possente Fronte Nazionale di Resistenza (cresciuto nonostante le violente repressioni e il coprifuoco) e diversi governi latino americani, che si stringono intorno a Zelaya ed assediano politicamente i militari che assediano fisicamente l'Ambasciata brasiliana a Tegucigalpa. Dall'altra i golpisti e i loro alleati più o meno occulti. Sono ore decisive. Per l'Honduras e per l'America Latina.All'Onu, intanto, dalla tribuna dell'Assemblea Generale, i governi si sono schierati. Oltre alle dichiarazioni in favore di Zelaya del Brasile, del Venezuela, dell'Uruguay, dell'Argentina ed altri ci sono le ambigue posizioni dei governi socialisti del Cile e della Spagna, che chiedono l'attuazione degli Accordi di San Josè o non meglio precisate azioni diplomatiche di mediazione. Come a dire che Micheletti se ne deve andare ma che bisogna tornare a prima di Zelaya. Questi governi, insieme a quello USA di Obama, non possono tollerare che un altro paese dell'area intraprenda azioni contro le multinazionali, contro il Fondo Monetario e si incammini sulla strada dell'anticapitalismo. Basti pensare al fatto che le misure "antigolpe" degli USA prevedono l'interruzione dei rapporti commerciali ma non, guarda caso, il funzionamento del fondo "per la democrazia" con il quale si finanziano tutt'ora i golpisti venezuelani. Ora si vedrà in cosa consiste il "cambio" di atteggiamento promesso dall'Amministrazione Obama nei confronti dell'America Latina.
Ciò che si è visto finora è esattamente il contrario di quello che molti illusi speravano.Nessuno può credere che l'esercito hondureño si muova senza che il governo Usa sappia e voglia. Solo degli inguaribili strabici possono far finta di non vedere il collegamento fra la recrudescenza della guerra civile in Colombia, le nuove sette basi militari Usa in quel paese e il nuovo dispiegamento della IV Flotta al largo delle coste brasiliane e venezuelane. Solo dei finti ingenui possono pensare davvero che tutto questo sia "lotta al narcotraffico".Si tratta del tentativo di destabilizzare permanentemente l'area, di trasformare la Colombia in una sorta di Israele della zona, e di indurre ogni governo Latino Americano alla "prudenza" nei confronti degli interessi sensibili delle multinazionali, degli USA e dei paesi europei. Chi sperava che Zelaya fosse neutralizzato con lo status di esule in Nicaragua o in un altro paese è servito!Chi sperava che fosse possibile coniugare la condanna del golpe alla subdola realizzazione degli obiettivi dei golpisti è servito!Il coraggio di Zelaya toglie spazio, oggi, a una dittatura militare o a una normalizzazione fondata sulla sua estromissione dal potere e un ritorno al sistema oligarchico mascherato da democrazia. Già nelle prime 48 ore di presenza presso l'Ambasciata brasiliana si recano da Zelaya esponenti della società civile e della politica hondureña, compresi emissari del governo golpista. A questi ultimi, che hanno proposto le dimissioni di Micheletti e la scelta concordata di un terzo presidente, Zelaya ha risposto: "Sarebbe un altro golpe! Ne hanno fatto uno e ne vogliono fare un altro!".Nelle prossime ore ci saranno sicuramente ulteriori sviluppi. Bisogna seguirli con attenzione. Questa partita non finirà con un pareggio. Se Zelaya tornerà al suo posto sarà un'inequivocabile vittoria popolare. Se non ci tornerà sarà la vittoria di chi vuole fare dell'Honduras il precedente per normalizzare tutto il continente americano. In mezzo non si può stare.

Liberazione 26/09/2009