Il regista pavese ha ottenuto il finanziamento dal ministero Presto la presentazione del suo ultimo lavoro con I Solisti
PAVIA. “Voglio far vedere un albero come se nessuno avesse mai visto un albero”, diceva il regista e produttore cinematografico tedesco Werner Herzog. Così, rendendo sua la citazione, dice anche Filippo Ticozzi, regista e produttore pavese. Tacozzi, infatti, ormai da anni lavora nel campo cinematografico con varie produzioni e ha ricevuto anche diversi riconoscimenti a livello internazionale. Ha da poco ideato un nuovo progetto: un film-documentario ambientato in Uganda ed intitolato “Moo-Ya”, prendendo il nome da una divinità indigena africana. «Il progetto è prodotto dalla casa cinematografica romana “Effendemfilm” di Federico Minetti, anche lui originario di Pavia», racconta. Ticozzi questa volta ha preferito, quindi, non servirsi della propria casa di produzione, La Città Incantata Produzioni Audiovisive, ma si è rivolto ad una più grande, specializzata in documentari. «All’inizio temevamo di non avere abbastanza fondi per realizzarlo – aggiunge – ma ad agosto, con molta gioia, siamo riusciti ad ottenere un finanziamento dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, così, massimo a fine gennaio, inizieremo le riprese». In cosa consiste esattamente questo docu-film? «In realtà non c’è una vera trama – risponde Ticozzi – Il protagonista è Opìo, un cantastorie ugandese di sessant’anni cieco che intraprende un viaggio tra le terre del suo Paese senza una motivazione apparente e senza destinazione». L’intento di Filippo Ticozzi è quello di descrivere attraverso un punto di vista nuovo dei luoghi conosciuti, dati per scontati, ma che attraverso le percezioni di un non vedente assumono significati inediti. «Opìo procede a tentoni in terre intrise di tradizioni a lui note, ma che non riesce ad afferrare fino in fondo perché gli sfuggono alla vista – spiega il ragista - Anche se io insinuo il dubbio che forse sia proprio lui a percepire qualcosa di più rispetto a tutti gli altri che vedono». La cosa interessante, inoltre, è che il protagonista del docu-film non è un personaggio fittizio: «Questo ugandese io lo conosco davvero e mi ha colpito talmente tanto che ho deciso di scrivere una sceneggiatura su di lui – rivela Ticozzi – Poi gli ho chiesto se era disposto a fare l’attore per il mio progetto e ha accettato». L’ultimo periodo è caratterizzato da grandi soddisfazioni per questo regista pavese, perché non solo grazie ai finanziamenti del MiBact potrà realizzare “Moo-Ya”, ma lunedì 21 dicembre presenterà anche al Teatro Fraschini di Pavia il suo ultimo film-documentario, questa volta meno “fuori dalle righe”; stiamo parlando del lavoro “Enrico Dindo e I Solisti di Pavia”. «È stato un grande piacere stare vicino al violoncellista Dindo per più di venti giorni, seguire i suoi concerti e ascoltare la sua musica – commenta – ma è certo che il tipo di operazione fatta è completamente diversa rispetto a quella che sarà la storia di Opìo». Comunque, anche se in maniera meno sperimentale Filippo Ticozzi in questo docu-film ha fatto un’analisi della carriera degli artisti di musica classica, attraverso una serie di interviste. «Racconto come sono nati i Solisti, dopo averli seguiti in alcune date, tra cui la tourneè in Sud America di quest’autunno e la registrazione del loro ultimo album», sottolinea. Questa volta sotto la produzione della Fondazione I Solisti di Pavia, il regista si è concentrato non tanto sugli aspetti del backstage, ma sulla musica e le prove in preparazione delle esibizioni. Un lavoro, dunque, non solo per amanti di buon cinema, ma anche della buona musica.
Gaia Curci (La Provincia Pavese, 10 dicembre 2015)
11 dicembre 2015
In Birmania il regista pavese filma il matrimonio gay
Il documentario “Irrawaddy mon amour” di Grignani, Testagrossa e Zambelli debutta alla rassegna di Amsterdam e partecipa al Torino Film Festival
PAVIA. Tre registi italiani, di cui uno pavese, raccontano uno dei primi matrimoni gay in Birmania, all’indomani della vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni legislative – le prime libere dal 1990 – dando voce a una comunità di persone per cui questa svolta democratica vale ancora di più. Sono le lesbiche, i gay, i bisessuali e transgender birmani, che finalmente possono sperare in un futuro diverso nel loro paese, e a loro è dedicato “Irrawaddy mon amour”, il film documentario di Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli e Nicola Grignani, quest'ultimo videomaker e videoattivista pavese, classe '77, con un ricco bagaglio di esperienze sulle spalle: a cominciare dalla laurea al Dams di Bologna con una tesi sul cinema cubano, passando per la fondazione del collettivo bolognese Teleimmagini nel 2002, e arrivando ad una lista di riconoscimenti in importanti docu-festival internazionali, che continua ad allungarsi.
Già autori, insieme, di “Striplife” (Italia, 2013, 64') – lungometraggio girato nella striscia di Gaza - i tre registi si preparano in questi giorni a due appuntamenti importanti per il loro “Irrawaddy mon amour”: il primo, il 22 novembre, ci sarà la premiere mondiale all'Idfa di Amsterdam (uno dei più importanti festival internazionali per il genere docu); il secondo, il 25 novembre, sarà la prima italiana al Torino Film Festival.
«Abbiamo voluto raccontare una delle prime unioni gay in Birmania e la coraggiosa scelta dei suoi protagonisti di affermare il diritto di amare, sfidando paure e rischi, in un paese in cui la libertà è stata finora una chimera – spiega Nicola Grignani – L'idea è nata da un viaggio di Valeria Testagrossa nel 2009, quando per caso, dopo essere salita su un camion che trasportava sacchi di riso, si è ritrovata in questo posto sperduto nel cuore della Birmania, un villaggio contadino che vive sull'Irrawaddy, il fiume navigabile da cui prende il nome il documentario. In mezzo a non più di 600 abitanti abita una comunità molto forte di gay, lesbiche e trans, pronti a rivendicare i loro diritti. Una cosa straordinaria, anche pensando al fatto che in quel paese non vedevano uno straniero da vent'anni. Nel 2014, con Valeria e Andrea siamo tornati lì e tra 2014 e 2015 abbiamo fatto le riprese. Adesso ci prepariamo per le due anteprime, non ci aspettavamo un successo così immediato quindi siamo, felici, ma di corsa». E’ attiva anche una campagna di crowdfunding su Indiegogo, raggiungibile digitando irrawaddymonamour.com.
Marta Pizzocaro (La Provincia Pavese, 12 novembre 2015)
PAVIA. Tre registi italiani, di cui uno pavese, raccontano uno dei primi matrimoni gay in Birmania, all’indomani della vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni legislative – le prime libere dal 1990 – dando voce a una comunità di persone per cui questa svolta democratica vale ancora di più. Sono le lesbiche, i gay, i bisessuali e transgender birmani, che finalmente possono sperare in un futuro diverso nel loro paese, e a loro è dedicato “Irrawaddy mon amour”, il film documentario di Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli e Nicola Grignani, quest'ultimo videomaker e videoattivista pavese, classe '77, con un ricco bagaglio di esperienze sulle spalle: a cominciare dalla laurea al Dams di Bologna con una tesi sul cinema cubano, passando per la fondazione del collettivo bolognese Teleimmagini nel 2002, e arrivando ad una lista di riconoscimenti in importanti docu-festival internazionali, che continua ad allungarsi.
Già autori, insieme, di “Striplife” (Italia, 2013, 64') – lungometraggio girato nella striscia di Gaza - i tre registi si preparano in questi giorni a due appuntamenti importanti per il loro “Irrawaddy mon amour”: il primo, il 22 novembre, ci sarà la premiere mondiale all'Idfa di Amsterdam (uno dei più importanti festival internazionali per il genere docu); il secondo, il 25 novembre, sarà la prima italiana al Torino Film Festival.
«Abbiamo voluto raccontare una delle prime unioni gay in Birmania e la coraggiosa scelta dei suoi protagonisti di affermare il diritto di amare, sfidando paure e rischi, in un paese in cui la libertà è stata finora una chimera – spiega Nicola Grignani – L'idea è nata da un viaggio di Valeria Testagrossa nel 2009, quando per caso, dopo essere salita su un camion che trasportava sacchi di riso, si è ritrovata in questo posto sperduto nel cuore della Birmania, un villaggio contadino che vive sull'Irrawaddy, il fiume navigabile da cui prende il nome il documentario. In mezzo a non più di 600 abitanti abita una comunità molto forte di gay, lesbiche e trans, pronti a rivendicare i loro diritti. Una cosa straordinaria, anche pensando al fatto che in quel paese non vedevano uno straniero da vent'anni. Nel 2014, con Valeria e Andrea siamo tornati lì e tra 2014 e 2015 abbiamo fatto le riprese. Adesso ci prepariamo per le due anteprime, non ci aspettavamo un successo così immediato quindi siamo, felici, ma di corsa». E’ attiva anche una campagna di crowdfunding su Indiegogo, raggiungibile digitando irrawaddymonamour.com.
Marta Pizzocaro (La Provincia Pavese, 12 novembre 2015)
15 agosto 2015
I produttori di pace. Le storie di alcune “bandiere” del commercio equo e solidale mondiale
Chi resiste in Messico, chi è sotto processo per ribellione nelle Filippine, chi patisce muri come quello frutto della “guerra di bassa intensità” condotta dallo Stato di Israele contro la Palestina e chi crea alternative alla guerra colombiana
tratto da Altreconomia n. 173
Franss Van der Hoff ha 75 anni e ha contribuito alla nascita del movimento del commercio equo e solidale quando ne aveva meno di trenta. Missionario olandese, lavora in Messico dagli anni Sessanta con UCIRI, una cooperativa che produce caffè nella regione dell’Istmo di Tehuantepec, nello Stato di Oaxaca. Nel 1988, con Nico Roozen, ha lanciato “Max Havelaar”, la prima certificazione fair trade.
Nel corso del 2015, racconta sorridendo, hanno cercato di rapirlo un paio di volte. Il suo Paese d’adozione -spiega- è una democrazia fallita, dove la violenza dilaga. Per garantirsi sicurezza e incolumità serve organizzare carovane, con auto di scorta, per raggiungere la Selva, le zone montagnose dove si produce il caffè d’altura. In America Latina, ma anche in Asia, e in Medio Oriente, il movimento del fair trade (al pari di quello della cooperazione internazionale) “vive” le guerre, ogni condizione di violenza e di tensione geopolitica, e ne rappresenta un osservatore privilegiato: chi realizza migliori condizioni di vita per una fetta della popolazione impiegata in agricoltura, nel settore della trasformazione delle materie prime o nell’artigianato, opera per trasformare quelle condizioni di disuguaglianza che spesso sono alla base dei conflitti.
Anche Ruth Salditos, come Van der Hoff, sorride quando spiega di essere a processo, nelle Filippine, accusata di ribellione: “I’m a rebel -dice-, ti senti sicuro seduto accanto a me per questa intervista?”. Poi si fa seria: “Qual è la mia unica colpa? Aver fondato PFTC”, cioè Panay Fair Trade Centre, l’organizzazione che produce e trasforma lo zucchero Mascobado, commercializzato in Italia da Altromercato. “Chi governa il Paese ha paura: PFTC, grazie alla collaborazione con i nostri partner in Europa e in Asia, sta crescendo, migliorando le condizioni di vita di chi lavora in agricoltura, e così attraverso il nostro esempio stiamo evidenziano un problema nella società filippina, che però da solo il fair trade non può risolvere. Le Filippine devono dare risposte alla povertà, alla corruzione, dovrebbero realizzare una riforma agraria genuina. Il Paese deve affrontare questi problemi, perché i suoi cittadini possano vivere meglio”. Secondo Ruth Salditos, che è anche presidente della confederazione degli esportatori filippini (Philexport) della Regione di Iloilo, “il presidente Benigno Aquino III è sempre più impopolare”, mentre il Paese non fa niente per cambiare le condizioni di chi opera nel settore agricolo: “I livelli di accesso al mercato non vengono modificati, e per la maggioranza dei contadini c’è lo spettro del dumping da parte dei Paesi del Nord. Senza alcun intervento, i filippini saranno sempre più poveri”, mentre i mercati si riempiono di merci importate.
Ruth Salditos è fuori dal carcere, in attesa di giudizio su cauzione. Nel corso del 2014 Romeo Capalla e Dionisio Garete, altri due esponenti di PFTC, sono stati invece assassinati. “Perché ci uccidono? Perché stiamo esponendo un problema. Perché portiamo avanti processi di empowerment, di presa di coscienza. Credo però che gli omicidi di Romeo e Dionisio rappresentino un danno per il governo. Perché ci ha portato a scendere in piazza. E lì restiamo. Perché tutti, nelle Filippine e non solo, devono sapere che cosa è successo. A quindici mesi dall’omicidio di Romeo, stiamo ancora attendendo i report dello special investigation team, della squadra che si dovrebbe occupare dell’inchiesta. Non c’è nessun avanzamento, e appare chiaro, lo era già durante la missione condotta dalla World Fair Trade Organization nell’estate del 2014 (vedi il reportage di Rudi Dalvai, presidente WFTO, su Ae 164), che non c’è alcuna intenzione di far luce sull’accaduto” spiega Ruth Salditos.
L’impunità è la regola, in uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i difensori dei diritti umani e dell’ambiente, secondo i report di Global Witness. “Romeo Capalla è fratello di un arcivescovo, di una personalità riconosciuta. Se hanno ucciso lui, hanno voluto darci un messaggio: possiamo colpire chiunque. Io, invece, non sono nessuno. Ho solo fondato, insieme ad altri, PFTC. Dovrei fermarmi?” conclude Ruth Salditos. La risposta, implicita, è che non ha alcune intenzione di farlo.
Le difficoltà logistiche, acuite dalla “guerra di bassa intensità” condotta dallo Stato di Israele contro la Palestina, non paiono frenare nemmeno Susan Sahori, co-fondatrice e direttrice esecutiva di Bethlehem Fair Trade Artisans. “Sono palestinese di Betlemme -inizia a raccontare-: nel 2009, ho dato vita insieme ad altri a BFTA (www.bethlehemfairtrade.org), per sostenere le donne artigiane che lavorano l’olivo e altri prodotti; per cambiare una situazione in cui i poveri, nel nostro Paese, sono sempre più poveri. Nel 2012 siamo entrati a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio equo, e questo ci ha aperto un sacco di opportunità, nel network del fair trade, nuove opportunità di export, come le ceramiche dipinte a mano da uomini e donne di Hebron, vendute in Europa” (in Italia le importano la cooperativa LiberoMondo di Roreto di Cherasco, Cuneo, e l’associazione Benkadì di Staranzano, Gorizia).
Il pagamento anticipato della metà del valore dell’ordine, permette di garantire “agli artigiani che iniziano a lavorare le risorse per acquistare le materie prime, e ad investire nello sviluppo di nuovi prodotti, ma anche in corsi di computer, di inglese: il fair trade rappresenta una grande opportunità per la Palestina” racconta Susan Sahori. WFTO, poi, fa anche altro: “Riconosce la Palestina, come Stato -spiega Sahori-. All’interno dell’Organizzazione c’è una regione del Medio Oriente, che riunisce 4 organizzazioni palestinesi, una del Libano, una giordana e una egiziana”. Nel corso del 2015, racconta Sahori, “realizzeremo un forum, invitando i ministri delle Finanze e dello Sviluppo economico, perché conoscano le potenzialità del fair trade”. Intanto, Bethlehem Fair Trade Artisans lavora per il coinvolgimento dei sindaci delle città palestinesi. Hani Abdalmasih, sindaco di Beit Sahour, fa parte del direttivo, ad esempio.
“Il 60 per cento dei cittadini di Betlemme vivono di turismo e di export dei prodotti artigiani. Ciò che sta accadendo nell’intera Regione ha portato all’assenza di turisti. Oggi non c’è più nessuno davanti alla Chiesa della natività, nessuno a cui vendere. Per quanto riguarda invece l’export, oggi ogni scambio può avvenire solo attraverso Israele. Il muro ha frenato le relazioni commerciali tra lo Stato ebraico e la Palestina. I piccoli produttori, marginalizzati da questo sistema, non hanno più modo di accedere al mercato dei souvenir shop israeliani, che prima erano riforniti principalmente da artigiani palestinesi” racconta Susan Sahori, specificando che non c’è differenza per chi lavora nel commercio equo.
“Anch’io se voglio mandare un container per l’Italia, devo far sì che passi per Haifa, attraverso un agente israeliano. Ciò significa che devo impaccare a Betlemme, portare il container a Hebron, dove c’è un ‘meeting channel’, e due camion s’incontrano, avanzando entrambi a marcia indietro, e scambiandosi il carico. Questo servizio è, ovviamente, a pagamento. Solo per arrivare al porto, così, dobbiamo affrontare un costo significativo. E questo è un ostacolo, che incide sul prezzo finale dei prodotti che trovate nelle vostre botteghe del commercio equo”.
A Milano, in occasione della conferenza biennale della World Fair Trade Organization e a Milano Fair City, c’era anche Gonzalo Tavera Cruz. Arriva dalla Colombia, un Paese che vive una guerra civile lunga cinquant’anni, ed è il coordinatore di Asoprolan, un’associazione di produttori di cacao del dipartimento di Santander. “Quando siamo nati, le famiglie associate erano 39. Oggi sono 300. Il nostro è un progetto di sviluppo alternativo. L’alternativa offerta alle famiglie è quella di passare dalla illegalità alla legalità, dalla coltivazione di coca e amapola (il papavero da oppio, ndr) al caffè, al cacao, all’apicoltura, o all’orticoltura e frutticoltura, a seconda delle vocazione della terra” spiega Tavera Cruz.
“L’unico cammino possibile per poter pacificare un conflitto è un progetto alternativo. Quando una regione vive una situazione di violenza, le istituzioni non devono arrivare con armi, ma con progetti produttivi, per calmarla. Con insegnamenti e risorse. Chi vive un territorio in conflitto non è capace di vedere oltre. La guerra è uno spazio chiuso: bisogna poter vedere che ci sono altre possibilità, ‘fuori’ dal conflitto” continua a raccontare. Nello specifico, molte comunità del dipartimento di Santander si trovano a “quattro o cinque ore di cammino da strade di collegamento, e non avrebbero, da sole, vie d’accesso a un mercato per il cacao, o per gli avocado. I narcotrafficanti, invece, co-finanziano la produzione, dalla semina alla trasformazione”. Esistono piani di sradicamento delle coltivazioni, a cui numerose comunità aderiscono volontariamente. “C’è anche la erradicaciòn forzada, ma la maggioranza delle comunità sceglie quella volontaria. Nonostante questo, in Colombia restano seminati 48mila ettari di coca” racconta Ana Lucía Uribe, che lavora per l’agenzia Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC). Per la funzionaria delle Nazioni Unite, quello di Asoprolan -che oggi esporta il proprio cacao in Italia, attraverso il circuito del fair trade in partnership con Altraqualità- è un esempio.
Nel corso del 2015, racconta sorridendo, hanno cercato di rapirlo un paio di volte. Il suo Paese d’adozione -spiega- è una democrazia fallita, dove la violenza dilaga. Per garantirsi sicurezza e incolumità serve organizzare carovane, con auto di scorta, per raggiungere la Selva, le zone montagnose dove si produce il caffè d’altura. In America Latina, ma anche in Asia, e in Medio Oriente, il movimento del fair trade (al pari di quello della cooperazione internazionale) “vive” le guerre, ogni condizione di violenza e di tensione geopolitica, e ne rappresenta un osservatore privilegiato: chi realizza migliori condizioni di vita per una fetta della popolazione impiegata in agricoltura, nel settore della trasformazione delle materie prime o nell’artigianato, opera per trasformare quelle condizioni di disuguaglianza che spesso sono alla base dei conflitti.
Anche Ruth Salditos, come Van der Hoff, sorride quando spiega di essere a processo, nelle Filippine, accusata di ribellione: “I’m a rebel -dice-, ti senti sicuro seduto accanto a me per questa intervista?”. Poi si fa seria: “Qual è la mia unica colpa? Aver fondato PFTC”, cioè Panay Fair Trade Centre, l’organizzazione che produce e trasforma lo zucchero Mascobado, commercializzato in Italia da Altromercato. “Chi governa il Paese ha paura: PFTC, grazie alla collaborazione con i nostri partner in Europa e in Asia, sta crescendo, migliorando le condizioni di vita di chi lavora in agricoltura, e così attraverso il nostro esempio stiamo evidenziano un problema nella società filippina, che però da solo il fair trade non può risolvere. Le Filippine devono dare risposte alla povertà, alla corruzione, dovrebbero realizzare una riforma agraria genuina. Il Paese deve affrontare questi problemi, perché i suoi cittadini possano vivere meglio”. Secondo Ruth Salditos, che è anche presidente della confederazione degli esportatori filippini (Philexport) della Regione di Iloilo, “il presidente Benigno Aquino III è sempre più impopolare”, mentre il Paese non fa niente per cambiare le condizioni di chi opera nel settore agricolo: “I livelli di accesso al mercato non vengono modificati, e per la maggioranza dei contadini c’è lo spettro del dumping da parte dei Paesi del Nord. Senza alcun intervento, i filippini saranno sempre più poveri”, mentre i mercati si riempiono di merci importate.
Ruth Salditos è fuori dal carcere, in attesa di giudizio su cauzione. Nel corso del 2014 Romeo Capalla e Dionisio Garete, altri due esponenti di PFTC, sono stati invece assassinati. “Perché ci uccidono? Perché stiamo esponendo un problema. Perché portiamo avanti processi di empowerment, di presa di coscienza. Credo però che gli omicidi di Romeo e Dionisio rappresentino un danno per il governo. Perché ci ha portato a scendere in piazza. E lì restiamo. Perché tutti, nelle Filippine e non solo, devono sapere che cosa è successo. A quindici mesi dall’omicidio di Romeo, stiamo ancora attendendo i report dello special investigation team, della squadra che si dovrebbe occupare dell’inchiesta. Non c’è nessun avanzamento, e appare chiaro, lo era già durante la missione condotta dalla World Fair Trade Organization nell’estate del 2014 (vedi il reportage di Rudi Dalvai, presidente WFTO, su Ae 164), che non c’è alcuna intenzione di far luce sull’accaduto” spiega Ruth Salditos.
L’impunità è la regola, in uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i difensori dei diritti umani e dell’ambiente, secondo i report di Global Witness. “Romeo Capalla è fratello di un arcivescovo, di una personalità riconosciuta. Se hanno ucciso lui, hanno voluto darci un messaggio: possiamo colpire chiunque. Io, invece, non sono nessuno. Ho solo fondato, insieme ad altri, PFTC. Dovrei fermarmi?” conclude Ruth Salditos. La risposta, implicita, è che non ha alcune intenzione di farlo.
Le difficoltà logistiche, acuite dalla “guerra di bassa intensità” condotta dallo Stato di Israele contro la Palestina, non paiono frenare nemmeno Susan Sahori, co-fondatrice e direttrice esecutiva di Bethlehem Fair Trade Artisans. “Sono palestinese di Betlemme -inizia a raccontare-: nel 2009, ho dato vita insieme ad altri a BFTA (www.bethlehemfairtrade.org), per sostenere le donne artigiane che lavorano l’olivo e altri prodotti; per cambiare una situazione in cui i poveri, nel nostro Paese, sono sempre più poveri. Nel 2012 siamo entrati a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio equo, e questo ci ha aperto un sacco di opportunità, nel network del fair trade, nuove opportunità di export, come le ceramiche dipinte a mano da uomini e donne di Hebron, vendute in Europa” (in Italia le importano la cooperativa LiberoMondo di Roreto di Cherasco, Cuneo, e l’associazione Benkadì di Staranzano, Gorizia).
Il pagamento anticipato della metà del valore dell’ordine, permette di garantire “agli artigiani che iniziano a lavorare le risorse per acquistare le materie prime, e ad investire nello sviluppo di nuovi prodotti, ma anche in corsi di computer, di inglese: il fair trade rappresenta una grande opportunità per la Palestina” racconta Susan Sahori. WFTO, poi, fa anche altro: “Riconosce la Palestina, come Stato -spiega Sahori-. All’interno dell’Organizzazione c’è una regione del Medio Oriente, che riunisce 4 organizzazioni palestinesi, una del Libano, una giordana e una egiziana”. Nel corso del 2015, racconta Sahori, “realizzeremo un forum, invitando i ministri delle Finanze e dello Sviluppo economico, perché conoscano le potenzialità del fair trade”. Intanto, Bethlehem Fair Trade Artisans lavora per il coinvolgimento dei sindaci delle città palestinesi. Hani Abdalmasih, sindaco di Beit Sahour, fa parte del direttivo, ad esempio.
“Il 60 per cento dei cittadini di Betlemme vivono di turismo e di export dei prodotti artigiani. Ciò che sta accadendo nell’intera Regione ha portato all’assenza di turisti. Oggi non c’è più nessuno davanti alla Chiesa della natività, nessuno a cui vendere. Per quanto riguarda invece l’export, oggi ogni scambio può avvenire solo attraverso Israele. Il muro ha frenato le relazioni commerciali tra lo Stato ebraico e la Palestina. I piccoli produttori, marginalizzati da questo sistema, non hanno più modo di accedere al mercato dei souvenir shop israeliani, che prima erano riforniti principalmente da artigiani palestinesi” racconta Susan Sahori, specificando che non c’è differenza per chi lavora nel commercio equo.
“Anch’io se voglio mandare un container per l’Italia, devo far sì che passi per Haifa, attraverso un agente israeliano. Ciò significa che devo impaccare a Betlemme, portare il container a Hebron, dove c’è un ‘meeting channel’, e due camion s’incontrano, avanzando entrambi a marcia indietro, e scambiandosi il carico. Questo servizio è, ovviamente, a pagamento. Solo per arrivare al porto, così, dobbiamo affrontare un costo significativo. E questo è un ostacolo, che incide sul prezzo finale dei prodotti che trovate nelle vostre botteghe del commercio equo”.
A Milano, in occasione della conferenza biennale della World Fair Trade Organization e a Milano Fair City, c’era anche Gonzalo Tavera Cruz. Arriva dalla Colombia, un Paese che vive una guerra civile lunga cinquant’anni, ed è il coordinatore di Asoprolan, un’associazione di produttori di cacao del dipartimento di Santander. “Quando siamo nati, le famiglie associate erano 39. Oggi sono 300. Il nostro è un progetto di sviluppo alternativo. L’alternativa offerta alle famiglie è quella di passare dalla illegalità alla legalità, dalla coltivazione di coca e amapola (il papavero da oppio, ndr) al caffè, al cacao, all’apicoltura, o all’orticoltura e frutticoltura, a seconda delle vocazione della terra” spiega Tavera Cruz.
“L’unico cammino possibile per poter pacificare un conflitto è un progetto alternativo. Quando una regione vive una situazione di violenza, le istituzioni non devono arrivare con armi, ma con progetti produttivi, per calmarla. Con insegnamenti e risorse. Chi vive un territorio in conflitto non è capace di vedere oltre. La guerra è uno spazio chiuso: bisogna poter vedere che ci sono altre possibilità, ‘fuori’ dal conflitto” continua a raccontare. Nello specifico, molte comunità del dipartimento di Santander si trovano a “quattro o cinque ore di cammino da strade di collegamento, e non avrebbero, da sole, vie d’accesso a un mercato per il cacao, o per gli avocado. I narcotrafficanti, invece, co-finanziano la produzione, dalla semina alla trasformazione”. Esistono piani di sradicamento delle coltivazioni, a cui numerose comunità aderiscono volontariamente. “C’è anche la erradicaciòn forzada, ma la maggioranza delle comunità sceglie quella volontaria. Nonostante questo, in Colombia restano seminati 48mila ettari di coca” racconta Ana Lucía Uribe, che lavora per l’agenzia Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC). Per la funzionaria delle Nazioni Unite, quello di Asoprolan -che oggi esporta il proprio cacao in Italia, attraverso il circuito del fair trade in partnership con Altraqualità- è un esempio.
9 agosto 2015
una storia di resistenza civile in Patagonia
«Le proteste dei poveri sono state di vitale importanza per far capire ai potenti del mondo, negli ultimi anni, che non si può continuare con la distruzione del pianeta e ignorando le loro necessità. La Chiesa cattolica vuole sentire questo grido e farne parte»: è il chiaro monito del cardinale Peter A. Turkson all’apertura del II Incontro mondiale dei Movimenti sociali che si sta svolgendo a Santa Cruz, in Bolivia e che attende papa Francesco nella giornata conclusiva di giovedì 9 luglio.
«L’accaparramento di terre, la deforestazione, l’appropriazione dell’acqua, i pesticidi inadeguati, sono alcuni dei mali che strappano l’uomo dalla sua terra natale. Una dolorosa separazione non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale» aveva detto il 28 ottobre 2014 in occasione del I Incontro dei Movimenti popolari tenutosi in Vaticano. E ora Elvira Corona, che n’è stata una delle promotrici (come di questo ora a Santa Cruz), esce in libreria per raccontare una storia di «liberazione» popolare.
Cagliaritana, master in Economia no profit e cooperazione allo sviluppo, Corona, una giornalista freelance, non è nuova a reportage sudamericani per Unimondo, ma in questo libro va oltre la cronaca di quanto accaduto con i progetti in Patagonia che avrebbero privato dell’acqua intere popolazioni.
Sebbene rappresenti «il sogno infranto del socialismo cileno», come scrive Enzo Cappucci nella prefazione, è una storia a lieto fine quella scritta con la passione di chi ha condiviso il dramma di tante famiglie la cui prospettiva sembrava essere solo l’abbandono della terra.
Ma c’è di più: è una storia che mostra ancora una volta quanto i nostri interessi economici, non siano sempre cristallini. La resistenza contro la multinazionale dell’energia Endesa era in fin dei conti contro un’azienda italiana, l’Enel che la controlla.
Un’autentica sollevazione di popolo – giovani studenti, amministratori locali, famiglie – ma nulla sarebbe accaduto senza il coinvolgimento della Chiesa cattolica locale guidata da monsignor Luis Infanti de la Mora, autore nel 2005 della lettera «Acqua e vita» e nel 2008 della lettera pastorale «Dacci oggi la nostra acqua quotidiana», la prima lettera di un vescovo interamente dedicata al tema.
Italo-cileno (provincia di Udine), religioso dei Servi di Maria, mons. Luis è vescovo dell’Aysén, la Patagonia cilena, un vicariato apostolico affidato ai Servi di Maria che giunsero là nel 1937, un territorio di montagna di 110mila chilometri quadrati per 100mila abitanti (dopo lo sterminio dei coloni inglesi). Lì dovevano sorgere cinque megadighe del «Progetto HidroAysén»; c’è molta acqua a due passi dal Polo Sud nei fiumi Pascua e Baker.
Il racconto si snoda tra ricordi personali all’interno di un territorio di rara bellezza e molti incontri (come quello con Jesús Herrero Estefanía, eco-teologo di origine basca): «Mi rendo conto di quanto interesse ci sia per le storie che arrivano dall’altra parte del mondo, dove forse ci possono essere spunti per un cambiamento della nostra società, ma prima ancora del nostro modo di ragionare e di rapportarci agli altri», scrive Corona, e oggi, con l’enciclica di Papa Bergoglio tra le mani, carica di riferimenti a vicende come questa, e con le parole già pronunciate in Ecuador i giorni scorsi, forse abbiamo un motivo in più.
Elvira Corona, L’acqua liberata. Bloccate le megadighe in Patagonia: una storia di successo. Viaggio nel Cile del cambiamento, prefazione di Enzo Cappucci, Collana Cittadini sul Pianeta diretta da Francesco Gesualdi, Editrice Missionaria Italiana, pp. 160, euro 13,00.
«L’accaparramento di terre, la deforestazione, l’appropriazione dell’acqua, i pesticidi inadeguati, sono alcuni dei mali che strappano l’uomo dalla sua terra natale. Una dolorosa separazione non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale» aveva detto il 28 ottobre 2014 in occasione del I Incontro dei Movimenti popolari tenutosi in Vaticano. E ora Elvira Corona, che n’è stata una delle promotrici (come di questo ora a Santa Cruz), esce in libreria per raccontare una storia di «liberazione» popolare.
Cagliaritana, master in Economia no profit e cooperazione allo sviluppo, Corona, una giornalista freelance, non è nuova a reportage sudamericani per Unimondo, ma in questo libro va oltre la cronaca di quanto accaduto con i progetti in Patagonia che avrebbero privato dell’acqua intere popolazioni.
Sebbene rappresenti «il sogno infranto del socialismo cileno», come scrive Enzo Cappucci nella prefazione, è una storia a lieto fine quella scritta con la passione di chi ha condiviso il dramma di tante famiglie la cui prospettiva sembrava essere solo l’abbandono della terra.
Ma c’è di più: è una storia che mostra ancora una volta quanto i nostri interessi economici, non siano sempre cristallini. La resistenza contro la multinazionale dell’energia Endesa era in fin dei conti contro un’azienda italiana, l’Enel che la controlla.
Un’autentica sollevazione di popolo – giovani studenti, amministratori locali, famiglie – ma nulla sarebbe accaduto senza il coinvolgimento della Chiesa cattolica locale guidata da monsignor Luis Infanti de la Mora, autore nel 2005 della lettera «Acqua e vita» e nel 2008 della lettera pastorale «Dacci oggi la nostra acqua quotidiana», la prima lettera di un vescovo interamente dedicata al tema.
Italo-cileno (provincia di Udine), religioso dei Servi di Maria, mons. Luis è vescovo dell’Aysén, la Patagonia cilena, un vicariato apostolico affidato ai Servi di Maria che giunsero là nel 1937, un territorio di montagna di 110mila chilometri quadrati per 100mila abitanti (dopo lo sterminio dei coloni inglesi). Lì dovevano sorgere cinque megadighe del «Progetto HidroAysén»; c’è molta acqua a due passi dal Polo Sud nei fiumi Pascua e Baker.
Il racconto si snoda tra ricordi personali all’interno di un territorio di rara bellezza e molti incontri (come quello con Jesús Herrero Estefanía, eco-teologo di origine basca): «Mi rendo conto di quanto interesse ci sia per le storie che arrivano dall’altra parte del mondo, dove forse ci possono essere spunti per un cambiamento della nostra società, ma prima ancora del nostro modo di ragionare e di rapportarci agli altri», scrive Corona, e oggi, con l’enciclica di Papa Bergoglio tra le mani, carica di riferimenti a vicende come questa, e con le parole già pronunciate in Ecuador i giorni scorsi, forse abbiamo un motivo in più.
Elvira Corona, L’acqua liberata. Bloccate le megadighe in Patagonia: una storia di successo. Viaggio nel Cile del cambiamento, prefazione di Enzo Cappucci, Collana Cittadini sul Pianeta diretta da Francesco Gesualdi, Editrice Missionaria Italiana, pp. 160, euro 13,00.
24 luglio 2015
Infermieri pavesi più vicini alla gente
Sempre più vicini alla gente e più distanti da quel concetto che li vuole professionisti esclusivamente legati alla corsia e al letto del malato. Persone capaci di farsi conoscere anche per la loro passione nell’arte, nella poesia, nel teatro… Ecco il senso di quell’apertura maggiore alla città che gli infermieri del Collegio Ipasvi di Pavia stanno cercando di attuare con le loro iniziative. L’ultima di queste è stata la presentazione ai pavesi della rivista “Infermiere a Pavia”, edita appunto dal Collegio, diretta dall’infermiera Emanuela Cattaneo e composta da una redazione di infermieri impegnati in settori molto diversi tra loro.
La rivista è stata illustrata ai numerosi presenti mercoledì presso la Libreria “Il Delfino”. A fare gli onori di casa il presidente del Collegio Michele Borri e la direttrice Emanuela Cattaneo. E nell’incontro, moderato dalla giornalista pavese Daniela Scherrer, ci sono state due testimonianze intense da parte di Rosalia Speciale, infermiera libera professionista, che ha raccontato la sua scelta di dedicarsi al counseling e di Loredana Pavesi, infermiera a Malattie Infettive del San Matteo, che ha spiegato il progetto portato avanti da anni di entrare nelle scuole superiori a parlare di sessualità e di prevenzione di Aids. Un progetto voluto e sostenuto da Milena D’Imperio, vicepresidente della Provincia e assessore all’Istruzione, anche lei presente all’incontro e chiamata in causa per ribadire l’importanza di queste iniziative.
(24 maggio 2015,http://www.noimedianetwork.it/2015/07/infermieri-pavesi-piu-vicini-alla-gente/)
19 luglio 2015
Christian Poveda La Vida Loca (2008)
Nato in Algeria da genitori spagnoli, emigrò in Francia nel 1961/2 con la sua famiglia. Venne assassinato in El Salvador durante una visita in quel Paese, nel quale aveva girato in precedenza il film La vida loca, un documentario sulla vita delle bande locali come la Mara Salvatrucha.
7 luglio 2015
Vamos por mas año
3 anni fa (il 4 luglio 2012) è iniziato il progetto “Comedor Infanti-Casa 4 luglio” a Santa Gertrudis, una baraccopoli di 700 persone a 90 km da Città del Guatemala. Grazie a tutti coloro che hanno collaborato durante tutto questo tempo per la crescita integrale delle bambine e dei bambini di questo villaggio, delle loro mamme e degli anziani. Grazie a tutti i sostenitori e agli amici di AINS ONLUS che lavorano duramente perché le attività che si svolgono al suo interno, siano per creare opportunità di sviluppo alla comunità.Continuiamo a lavorare per dare sostegno a tutti coloro che hanno bisogno di una mano amica.
Ecco il messaggio che Alvaro ci ha mandato
Hace 3 años inició en Santa Gertrudis el Comedor Infantil. Gracias a todos los que han colaborado durante todo este tiempo para que el crecimiento integral de los niños y las niñas de esta aldea sea posible, especialmente a nuestros amigos de AINS, Italia, que trabajan arduamente para que esta actividad en beneficio de la comunidad sea posible. Seguiremos trabajando para dar apoyo a todos los que necesiten de una mano amiga.
Alvaro Aguilar Aldana
19 giugno 2015
Anche il ballo riabilita
Marilena Patuzzo ha 48, dal 1999 è la coordinatrice infermieristica in ambito riabilitativo dell'ospedale San Giuseppe di Milano, docente di infermieristica clinica presso l'Università degli Studi di Milano, ed è anche insegnante di tango, con tanto di diploma nazionale e internazionale. Unendo le sue competenze, tre anni fa ha messo a punto il metodo “Riabilitango”, un progetto di tangoterapia che affianca la riabilitazione tradizionale, in particolare su due tipologie di pazienti: quelli affetti dal morbo di Parkinson (e affini) e quelli affetti da patologie cardiorespiratorie croniche.
Marilena racconta la sua esperienza al pubblico pavese in occasione dell'incontro “Tacco e punta. Curarsi insieme a passo di tango”, volto a promuovere le buone pratiche infermieristiche e organizzato da Ains onlus con Il mondo gira e Presi nella Rete. «L'esperienza è iniziata nel 2012 all'ospedale San Giuseppe di Milano, con due sedute a settimana di 45 minuti ciascuna – racconta Marilena Patuzzo –. Siamo stati tra i primi centri in Italia a proporre la tangoterapia ai nostri pazienti ricoverati». La seduta funziona come una normale lezione di tango? «Più o meno sì. Ci sono passi, figure, esercizi di tecnica e musica di tango argentino (le note struggenti di Astor Piazzolla in primis, ndr) che vengono scelti e combinati tra loro in base alla specifica problematica da migliorare e alle reali capacità e potenzialità degli utenti. E dato l'obiettivo specifico del metodo, è prevista la presenza di professionisti in campo sanitario, quindi il medico, il fisioterapista, l'infermiere, lo psicoterapeuta, e di insegnanti di tango argentino.
E' un lavoro di équipe». Quali sono gli effetti benefici del tango argentino sui pazienti? «Il miglioramento dell'equilibrio, della postura, del controllo e della qualità del movimento oltre al tono dell'umore. Tutto questo, con il passare del tempo e l’esercizio ballando, si traduce in una maggior sicurezza e scioltezza nel compiere i movimenti». I pazienti come reagiscono? «Sono contenti, aspettano la seduta con ansia. C’è chi, grazie al tango, è riuscito a sopportare una degenza lunga e con i parenti lontani, perché anche il fatto di essere abbracciati faceva sentire in famiglia». A chi è rivolto il “riabilitango”? «Per la sfera fisica, è indicato per persone affette da problemi di equilibrio e del controllo del movimento, come nel Morbo di Parkinson, esiti di ictus, sclerosi multipla o come esercizio moderato di riallenamento graduale allo sforzo, per esempio nelle patologie respiratorie». E per la sfera psicologica? «Per le persone insicure, negli stati d'ansia o di stress, in chi manifesta difficoltà di relazione e di comunicazione. Perché il tango argentino è caratterizzato da un preciso gioco di ruoli uomo-donna, di comunicazione non verbale, interpretazione e improvvisazione, tutte cose che permettono la massima libertà nell'espressione della propria personalità». Oggi, l'esperienza a che punto è? «Purtroppo, per motivi organizzativi del reparto, il servizio è stato sospeso. Speriamo che in un futuro possa riprendere». Nel frattempo cosa rimane di “riabilitango”? «La certezza dell'efficacia del metodo e un'esperienza valida durata felicemente per tre anni consecutivi, dal 2012 al 2015, che ha provato che il tango può funzionare all'interno di un reparto d'ospedale. Ma può avere benefici anche al di fuori di questo contesto. Considero il tango argentino un vero “strumento di benessere” e consiglio a tutti coloro che vi si vogliono accostare di farlo con la visione più “olistica” possibile: non solo per imparare a ballarlo, ma per conoscere meglio se stessi».
Marta Pizzocaro-La provincia >Pavese, 18 giugno 2015
Marilena racconta la sua esperienza al pubblico pavese in occasione dell'incontro “Tacco e punta. Curarsi insieme a passo di tango”, volto a promuovere le buone pratiche infermieristiche e organizzato da Ains onlus con Il mondo gira e Presi nella Rete. «L'esperienza è iniziata nel 2012 all'ospedale San Giuseppe di Milano, con due sedute a settimana di 45 minuti ciascuna – racconta Marilena Patuzzo –. Siamo stati tra i primi centri in Italia a proporre la tangoterapia ai nostri pazienti ricoverati». La seduta funziona come una normale lezione di tango? «Più o meno sì. Ci sono passi, figure, esercizi di tecnica e musica di tango argentino (le note struggenti di Astor Piazzolla in primis, ndr) che vengono scelti e combinati tra loro in base alla specifica problematica da migliorare e alle reali capacità e potenzialità degli utenti. E dato l'obiettivo specifico del metodo, è prevista la presenza di professionisti in campo sanitario, quindi il medico, il fisioterapista, l'infermiere, lo psicoterapeuta, e di insegnanti di tango argentino.
Marta Pizzocaro-La provincia >Pavese, 18 giugno 2015
17 giugno 2015
Giovane infermiera biellese in missione nell'inferno del Nepal

Jessica si è laureata nel 2006 in Scienze infermieristiche all'Università di Novara. Dal 2007 lavora in ospedale, prima nel reparto di cardiochirurgia, ora nel reparto di rianimazione d'urgenza. Nel 2011 ha conseguito un master di specializzazione primo livello in Area critica e Medicina d'urgenza. "Quando mi ha detto di voler partire - prosegue la madre -, mi sono messa a piangere. La prima reazione è stata tremenda, poi è intervenuta lei, con la sua solita determinazione, dicendomi - mamma, io sono forte come un leone, vado e faccio quello che sento di dover fare -. A quel punto non me la sono più sentita di contrastarla. Per lei aiutare gli altri è una vera e propria missione, vive soltanto per quello. Sapevo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato, ma non credevo così presto. Sono molto preoccupata. Il suo aereo ha sorvolato Paesi dove c'è la guerra e in Nepal la situazione è molto drammatica. L'unica nota che mi rende un po’ tranquilla è averla vista sicura di sé e davvero felice".
Jessica, oltre al lavoro in ospedale, dà lezioni come docente all'Università, è impegnata come tutor per studenti laureandi, partecipa a diversi congressi in giro per il mondo, di cui l'ultimo in Olanda, e studia per un'altra specializzazione.
"Nel 2011 - spiega l'amica Elena Rossi - ha superato i corsi di preparazione del Gruppo di chirurgia d’urgenza di Pisa di cui è entrata a far parte e per il quale frequenta ogni anno i workshop di aggiornamento. Ora l'hanno chiamata per la missione umanitaria in Nepal. Jessica è il nostro angioletto biellese; siamo tutti molto orgogliosi di lei. Lo so da sempre che è una ragazza speciale, ma questo suo ultimo gesto mi apre veramente il cuore".
Anna Arietti
La Nuova Provincia d iBiella.it (www.laprovinciadibiella.it)
16 giugno 2015
18 giugno 2015. INCONTRO "Tacco e punta: curarsi insieme a passo di tango"

ha pensato di unire le sue competenze e metterle al servizio dei pazienti....
Potete leggere l'articolo che Famiglia Cristiana gli ha dedicato, all'indirizzo
http://ainsonlus.blogspot.it/2015/05/tacco-e-punta-curarsi-insieme-passo-di.html
Vi invitiamo a partecipare alla serata per conoscere un buona pratica inferrmieristica
http://ainsonlus.blogspot.it/2015/05/tacco-e-punta-curarsi-insieme-passo-di.html
Vi invitiamo a partecipare alla serata per conoscere un buona pratica inferrmieristica
24 maggio 2015
La festa a San Salvador per Romero beato

E’ stato quest’ultimo, come da tradizione, a leggere la lettera apostolica di Francesco: “Óscar Arnulfo Romero, arcivescovo, martire, che, sostenuto da Cristo, pietra angolare, donò la vita per la costruzione del Regno, d’ora in avanti sarà chiamato Beato”. Pochi istanti dopo, il telo azzurro è stato rimosso, scoprendo il ritratto del nuovo Beato. A quel punto l’entusiasmo della gente è esploso in un tripudio di applausi, mentre il coro intonava “Il tuo Regno è vita”.
Romero, ucciso il 24 marzo 1980 dagli scagnozzi di un regime repressivo per aver predicato il Regno di Dio, ora trascende i confini del Paese più piccolo dell’America Latina per entrare nel numero dei Beati della Chiesa universale. “E’ luce delle nazioni e sale della terra. Se i suoi persecutori sono spariti nell’ombra dell’oblio e della morte, la memoria di Romero continua ad essere viva e a dare conforto a tutti i derelitti e gli emarginati della terra”, ha detto il Prefetto per la Congregazione della causa dei Santi nell’omelia, più volte interrotta dalle grida di gioia della folla mescolate a canti spontanei tratti dalla Messa popolare salvadoregna.
L’arcidiocesi di San Salvador ha riservato oltre 1.400 posti per la celebrazione ai più poveri, i preferiti di Dio e di Monseñor, come i salvadoregni chiamano Romero. Le lacrime spontanee di questi ultimi - che hanno scandito buona parte della Messa – esprimono nel linguaggio inequivocabile degli ultimi che cosa l’arcivescovo martire abbia rappresentato e tuttora rappresenti per El Salvador. “E’ stato il primo a dirci che avevamo dei diritti perché figli di Dio”, racconta Macia.
Davvero Romero ha avuto in dono dal Signore “la capacità di vedere e ascoltare la sofferenza del suo popolo” e di orientarlo con cuore sensibile, come ha sottolineato papa Francesco nella lettera indirizzata all’attuale arcivescovo di San Salvador, José Luis Escobar Alas. Per questo, le sue parole sono il faro a cui El Salvador guarda per emanciparsi dalle catene di un passato violento e costruirsi un futuro di pace.
Lucia Capuzzi
Avvenire, 23 maggio 2015
Un «normale» medico italiano nel Nepal del terremoto
UN OSPEDALE DA CAMPO IN UN VILLAGGIO A 90 CHILOMETRI DA KATHMANDU. L’HA APERTO UN GRUPPO DI CHIRURGHI GUIDATO DA FEDERICO FILIDEI CHE É GIÀ STATO IN SRI LANKA E A HAITI. E QUI SPIEGA PERCHÉ IN QUESTE EMERGENZE, LE TERAPIE MIGLIORI POTREBBERO RIVELARSI LE PEGGIORI
di Silvia Bencivelli
Non si sentono eroi. Sono medici normali, lavorano nei normali ospedali italiani, sono i nostri chirurghi, anestesisti e pediatri normali, oggi chiamati a fare il proprio lavoro dove di normale non c'è niente. Come il villaggio di Satbise, a 90 chilometri da Kathmandu, cioè a dieci ore di camion su una strada sconnessa che dalla capitale del Nepal si arrampica tra i monti. Un villaggio di case distrutte dal terremoto in cui il Gruppo di Chirurgia d'urgenza, partito da Pisa con 27 medici, sei vigili del fuoco e quattro funzionari di Protezione Civile, ha gonfiato la sua sala operatoria pneumatica, montato le sue tende, issato la sua bandiera.
Tra loro, Federico Filidei: trentotto
anni, chirurgo all'ospedale Lutti di Puntedera, qui è deputy team leader con funzioni da direttore sanitario. Una delle prime cose che ha fatto sotto una di queste tende è stata ricucire il volto di un bambino che, a quasi due settimane dal disastro, non aveva ancora visto un disinfettante né un cerotto. «Abbiamo dovuto togliere le mosche dal viso, che impressione» racconta al telefono con un po' di fatica. Il terremoto del 25 aprile scorso e le scosse successive non hanno solo causato ottomila morti e dodicimila feriti (cifre ufficiali), valanghe sull'Himalaya e la distruzione improvvisa di città e monumenti storici. Hanno anche interrotto le vie d'accesso alle valli e ai villaggi più lontani dai grandi centri, perciò a settimane di distanza dal terremoto ci sono ancora feriti che non sono stati visitati da nessun medico. «Adesso a noi arrivano un po' alla volta, man mano che le strade si aprono e si diffonde la voce che siamo qui». Così all'inizio si sono presentati soprattutto traumi lievi e bambini e donne incinte con malattie come congiuntiviti e febbroni, perché in questi villaggi si dorme sotto tende di fortuna. «E, come sempre succede, sono arrivate anche malattie croniche di povera gente che si tiene un mal di denti per anni». Poi si sono affacciati pazienti sempre più gravi, da posti sempre più lontani. E su questi si misura la differenza tra un eroismo romantico e una professionalitá complessa e versatile: «Ieri sera ci hanno portato una ragazza con ferite tremende al volto e alla testa e una sospetta frattura alla colonna vertebrale. Noi dovevamo stabilizzarla e inviarla a un centro specializzato. Solo che qui non c'è un sistema di ambulanze. Cosi l'ambulanza abbiamo dovuto inventarcela, "travestendo" in fretta e furia una jeep e mandandola a valle di notte,
con tre dei nostri a bordo».
Ma il vero problema è che «stabilizzare il paziente» in un
ospedale da campo, dove gli ambulatori sono tende arredate con qualche palloncino per fare compagnia ai pazienti bambini, ha un significato diverso da quello che gli stessi chirurghi e anestesisti gli danno quando sono a casa. E non perché manchino gli strumenti, ma perché l'imperativo è chiedersi che cosa succederà una volta che il paziente sarà uscito dalla sala operatoria pneumatica e sarà tornato a essere un nepalese malato in Nepal. «In Italia, per esempio, quella ragazza l'avremmo intubata senza pensarci un secondo» spiega Filidei «mentre qui abbiamo dovuto considerare che l'ospedale dove andrà è di certo meno attrezzato della nostra tenda operatoria, e potrebbero non esserci reparti di terapia intensiva con respiratori adeguati, sistemi di monîtoraggio e così via. Lo stesso vale per gli antibiotici di ultima generazione, che sarebbero la nostra prima scelta per un bambino con la polmonite: qui è bene non usarli. Perché i nepalesi non ce li hanno e tu non puoi abbandonare un paziente con farmaci che poi i medici locali non sanno usare». In Italia quella ragazza ferita e non intubata porterebbe Filidei e colleghi in tribunale, accusati di negligenza e di imperizia. A Satbise, al contrario, la negligenza sarebbe stata quella di intervenire con gli strumenti di un medico occidentale e poi di infilare la paziente nella jeep-ambulanza trascurandone il destino. E questa imperizia si evita con una preparazione basata sul massimo rispetto possibile degli standard che garantiamo a noi stessi in Italia (dal consenso informato alla rendicontazione delle spese), «ma ricordandosi che a un certo punto devi considerare il mondo fuori dalla tua tenda. Un mondo dove non ci sono strutture di riabilitazione e medici curanti, e spesso neppure lenzuola pulite e cibo tutti i giorni». Non solo: bisogna decidere, per esempio, se allestire o meno una tendopoli per la popolazione terremotata anche se non si hanno tende per tutti, perché una tendopoli a metà potrebbe creare conflitti tra gli abitanti. Bisogna conoscere e rispettare i salari locali per non strapagare un autista tra i tanti. Infine, si deve parlare con gli altri gruppi di medici arrivati da tutto il mondo con il coordinamento delle Nazioni Unite. «Lo so che l'attenzione alla burocrazia, e le riunioni internazionali nelle quali oggi sono il referente italiano insieme a un membro della Protezione civile, sembrano lungaggini» spiega «ma sono necessarie. Ed è persino emozionante
discutere con i medici di mezzo mondo su dove reperire sangue e ossigeno o su come
smaltire i rifiuti lassù sulle valle hmalayane». Federico Filidei fa parte del Gruppo di Chirurgia d'urgenza dal 2003, quando, specializzando al primo anno, fu chiamato a sostituire un collega anziano che non poteva partire per l'Iran. «Dissi di si e nel giro di qualche ora mi trovai su un aereo militare. Non avevo addestramento e nemmeno un diploma di specializzazione. L'anno dopo andai in Sri Lanka ad assistere le popolazioni colpite dallo tsunami, poi in Cina e ad Haiti». Nel frattempo le cose sono cambiate: è cambiata l'attenzione alla preparazione del personale ed è cambiata la gestione dell'emergenza.
Anche per questo, dice, è difficile sentirsi eroi: «Da quando siamo partiti da Pratica di Mare, la notte del 29 aprile, ci sono arrivati centinaia di messaggi di incoraggiamento. Ma, tra viaggi e autorizzazioni, e poi per montare questo campo tendato, per qualche giorno non abbiamo operato. Ci sentivamo quasi traditori a stare a guardare». In un posto come Satbise si viene per spirito di servizio, non pagati (e per un medico a partita Iva non è ovvio) e con la consapevolezza di aver lasciato un ospedale italiano sulle spalle di colleghi che nessuno ringrazierà. «Non c'è senso di esaltazione» conclude Filidei, «solo voglia di lavorare, stanchezza e nostalgia di casa. A me mancano da morire le mie due bambine. E non riesco a non pensare a quando andai in Cina e la più grande, allora all'asilo, impediva piangendo che gli altri bambini buttassero giù le costruzioni. Perché aveva capito che cosa è un terremoto.
Quando tornai, girò la testa e non volle nemmeno salutarmi».
Silvia Bencivelli
(Il Venerdì di Repubblica-venerdi 22.05.2015)
14 maggio 2015
“Gli obiettivi? Promozione dell’Infermiere di famiglia e tutela di chi lavora contrattualmente ai limiti della decenza”
di Daniela Scherrer (Il Ticino-venerdì. 8 maggio 2015)
Dallo scorso mese di novembre è presidente del Collegio IPASVI di Pavia. Michele Borri, 41 anni, infermiere in un settore delicato come il Servizio di Cure Intensive Coronariche della Cardiologia del Policlinico San Matteo, coglie l’occasione dell’approssimarsi della Giornata dell’Infermiere per tracciare un bilancio dei suoi primi sei mesi alla guida del Collegio.
Presidente, questi primi sei mesi alla guida del Collegio IPASVI di Pavia sono stati in linea con quanto si aspettava? Più o meno difficili delle previsioni?
“Non credo che si possa realmente parlare di grado di difficoltà, quanto piuttosto di complessità ed eterogeneità dei vari aspetti di cui sono stato chiamato ad occuparmi: questo a partire dalle relazioni interne a quelle esterne, dall’attività programmatica istituzionale e da tutti gli aspetti ad essa correlati. Tuttavia, e di questo ne sono molto grato, il senso di responsabilità e la competenza di chi ha scelto di accompagnarmi ed appoggiarmi in questo mandato hanno reso il mio percorso meno impervio del previsto. Inoltre devo considerarmi fortunato anche per il fatto di avere a pochi metri dalla Sede del Collegio l’ufficio della dottoressa Barbara Mangiacavalli, Presidente della Federazione Nazionale Collegi IPASVI. Questo ha di certo semplificato il mio approccio alle situazioni più critiche, poiché i suoi consigli in merito sono risultati preziosi in più di una occasione. Ciò che realmente mi ha sorpreso è stato invece constatare in quanti e quali modi l’Istituzione possa diventare parte attiva del cambiamento che sta attraversando la nostra professione, sia attraverso l’azione singola che in concertazione con altri enti, istituzioni, associazioni”.
Tempo di bilanci: che cosa spera di avere portato in questi suoi mesi di presidenza e su che fronte sa di avere ancora parecchio da lavorare?
“Volendo fare un primo bilancio provvisorio rispetto a quanto fatto fino ad ora, credo di poter dire che il desiderio mio e del Consiglio Direttivo sia stato quello di valorizzare ciò che era già presente e di apportare i primi cambiamenti. La priorità è ora quella di allargare quanto più possibile la partecipazione degli iscritti all’attività dei Gruppi di Lavoro, al fine di valorizzare e canalizzare la spinta propulsiva della comunità infermieristica; proprio quest’ultima nei momenti di difficoltà e mutamento come quelli in cui viviamo ora può rappresentare la forza motrice per la realizzazione di attività progettuali in linea con i principi che muovono il nostro impegno istituzionale. All’orizzonte abbiamo molti obiettivi: tra questi citerei la tutela per gli iscritti, in particolare per coloro che operano a livello periferico o per chi si vede costretto ad accettare situazioni professionali al limite del demansionamento o della decenza contrattuale, la promozione dell’infermiere ed in particolare dell’infermiere di famiglia e di comunità anche attraverso progetti sperimentali, e la valorizzazione del patrimonio studentesco del corso di laurea in Scienze Infermieristiche, attraverso collaborazioni e progetti con l’Università di Pavia”.
Che cosa ne pensa un Presidente di un Collegio di Infermieri quando legge la notizia di una Infermiera soda che si laurea? Che cosa può dare questo alla vostra professione?
“In questo caso credo che ciò che pensi il Presidente sia ciò che tutti i colleghi sentono quando vengono a conoscenza di una notizia di questo genere, e che il sentimento sia semplicemente amplificato: orgoglio e speranza, perché una collega con una così grande determinazione può riuscire a produrre, in qualunque ambito lavorativo scelga di inserirsi, una spinta dall’interno in grado di contagiare anche chi, forse con troppo anticipo, accetta con rassegnazione le situazioni nel quale è costretto a vivere. Anche quando, magari proprio in sinergia con il Collegio, è possibile trasformare le situazioni di criticità in opportunità e miglioramento. A questa collega, così come a tutti coloro che si sono laureati la scorsa settimana e che spero di poter vedere nei prossimi giorni se sceglieranno di iscriversi all’Albo del Collegio della Provincia di Pavia, porgo l’invito a presentarsi in sede con proposte, consigli e con l’entusiasmo che è proprio del momento post-laurea”.
E che cosa pensa invece quando legge la notizia di un processo per un Infermiere che disattende la sua missione, come quelli accaduti anche recentemente?
“Partendo dal presupposto che non è corretto giudicare un professionista non conoscendo nei particolari le condizioni che hanno originato quanto contestato nello specifico, è però possibile fare alcune considerazioni di carattere generale. Quando un infermiere per una ragione o per l’altra non compie il proprio mandato – termine che ritengo più idoneo a quello di missione – deve essere consapevole che le sue azioni non verranno giudicate solo sotto l’aspetto etico e deontologico, ma che vi saranno delle conseguenze a livello giuridico. Il lungo processo di ridefinizione della figura infermieristica ha sempre messo in primo piano l’assunzione di responsabilità quale strumento per il raggiungimento dell’autonomia professionale e rimanere ancorati, anche solo concettualmente, a quel modello di operatore ausiliario sta a significare la volontà di restare adesi ad un modello anacronistico della professione. Si può solo pensare che chi svolga il proprio ruolo con tanta leggerezza lo faccia più per assenza di conoscenze e scarsa consapevolezza, piuttosto che per mancanza di affinità con gli elementi fondanti della nostra professione; vi è una tale chiarezza persino sotto il profilo etimologico – infermiere significa vicino agli infermi – che rende improprio qualunque malinteso in tal senso”.
Pensa che la nuova sede del Collegio possa diventare il fulcro di iniziative per aprirsi alla gente e per organizzare iniziative pubbliche?
“Questa è la speranza che abbiamo: una sede che possa riuscire a trascendere il proprio mandato istituzionale, ospitando corsi, convegni ed incontri a carattere professionale, e che diventi anche un punto di riferimento per la cittadinanza, magari realizzando un canale dove ottenere aiuto e sostegno per la progettazione di veri e propri piani assistenziali a 360 gradi, e non di semplici prestazioni infermieristiche delegate da un modello medico-centrico. I cittadini pavesi hanno bisogno, considerando che all’orizzonte sembra delinearsi un chiaro progetto di de-ospedalizzazione, di qualcuno che possa occuparsi dei familiari nella loro fragilità assistenziale e nella cronicità: l’unico professionista sanitario in grado di dare questo tipo di risposta è l’infermiere, e in questi anni cercheremo in ogni modo di trasmettere questo messaggio alla cittadinanza”.
6 maggio 2015
La carica dei più piccoli in tutti i quartieri della città
Ben 170 iniziative gratuite dedicate a grandi e piccoli per giocare e imparare con la musica, il disegno, la letteratura, la cucina, lo sport, la salute e l'ecologia insieme a 110 associazioni ed enti del territorio, con Ains e A Ruota Libera capofila, e sotto l'egida del Centro Servizi Volontariato di Pavia. E' la sesta edizione di BambinFestival, che dal 16 al 30 maggio tornerà ad animare il centro e i quartieri periferici di Pavia.
La rassegna è stata presentata nella sede del Csv, da Isa Cimolini (presidente Csv Pavia), Angela Gregorini (vicesindaco del Comune di Pavia), Francesco Brendolise (assessore al Volontariato e alla Cooperazione della Provincia di Pavia), Fiorenza Bertelli (coordinatore Csv Pavia) e Maria Piccio (referente Csv Pavia per Bambinfestival). «Partiamo dai più piccoli per creare una società migliore, è questa la vocazione di BambinFestival» ha detto Isa Cimolini. A confermare la bontà dell'intento è stata Angela Gregorini: «Sono mamma di tre bambini e in questa veste ho conosciuto BambinFestival, poi gli organizzatori sono diventati amici e ora, come assessore comunale, mi ritrovo a fare un altro pezzo di cammino con alcuni di loro: la sensazione è quella di aver costruito dal basso qualcosa di utile, che, partendo da oggi, farà la differenza nei grandi di domani». Realizzato in parte grazie al contributo della Fondazione Banca del Monte, BambinFestival deve molto del suo successo ai volontari delle varie associazioni, che ogni anno permettono al Csv di riempire un calendario fittissimo, con costi praticamente nulli. «Parliamo sempre di risorse economiche, ma senza il capitale umano e sociale, le risorse economiche non servono a niente – ha detto Francesco Brendolise – la forza di BambinFestival, ormai patrimonio della nostra provincia, è proprio qui: nella capacità di fare rete e nella comunità di intenti di enti e associazioni». L'inaugurazione si terrà dunque sabato 16 maggio alle 16 in Castello con lo spettacolo “Miss stupisco e i colori della città” della Compagnia Montessori&Brandao (teatro ragazzi), storia di una stravagante esploratrice che, trasportata dal vento, atterra in una città triste e grigia con un’importante missione: ritrovare i colori che un grosso nuvolone di smog ha oscurato. Prima dello spettacolo, alle 14.30 sarà inaugurata la mostra di lavori realizzati dalle scuole d'infanzia e primarie che hanno aderito al progetto “La notte - sogni e poesia, buio e luce, silenzio e paure… Un viaggio nel mondo misterioso e magico della notte”. A seguire, il tradizionale lancio dei palloncini con i messaggi scritti dai bambini (a cura di Unicef e Csv, con Leggere.Pavia). Per candidarsi volontario per dare una mano durante i giorni di BambinFestival (da 16 anni su), scrivere a volontariato@csvpavia.it. Per il programma completo: www.bambinfestival.org. (m.pizz.La Provincia Pavese, 6 maggio 2015)
La rassegna è stata presentata nella sede del Csv, da Isa Cimolini (presidente Csv Pavia), Angela Gregorini (vicesindaco del Comune di Pavia), Francesco Brendolise (assessore al Volontariato e alla Cooperazione della Provincia di Pavia), Fiorenza Bertelli (coordinatore Csv Pavia) e Maria Piccio (referente Csv Pavia per Bambinfestival). «Partiamo dai più piccoli per creare una società migliore, è questa la vocazione di BambinFestival» ha detto Isa Cimolini. A confermare la bontà dell'intento è stata Angela Gregorini: «Sono mamma di tre bambini e in questa veste ho conosciuto BambinFestival, poi gli organizzatori sono diventati amici e ora, come assessore comunale, mi ritrovo a fare un altro pezzo di cammino con alcuni di loro: la sensazione è quella di aver costruito dal basso qualcosa di utile, che, partendo da oggi, farà la differenza nei grandi di domani». Realizzato in parte grazie al contributo della Fondazione Banca del Monte, BambinFestival deve molto del suo successo ai volontari delle varie associazioni, che ogni anno permettono al Csv di riempire un calendario fittissimo, con costi praticamente nulli. «Parliamo sempre di risorse economiche, ma senza il capitale umano e sociale, le risorse economiche non servono a niente – ha detto Francesco Brendolise – la forza di BambinFestival, ormai patrimonio della nostra provincia, è proprio qui: nella capacità di fare rete e nella comunità di intenti di enti e associazioni». L'inaugurazione si terrà dunque sabato 16 maggio alle 16 in Castello con lo spettacolo “Miss stupisco e i colori della città” della Compagnia Montessori&Brandao (teatro ragazzi), storia di una stravagante esploratrice che, trasportata dal vento, atterra in una città triste e grigia con un’importante missione: ritrovare i colori che un grosso nuvolone di smog ha oscurato. Prima dello spettacolo, alle 14.30 sarà inaugurata la mostra di lavori realizzati dalle scuole d'infanzia e primarie che hanno aderito al progetto “La notte - sogni e poesia, buio e luce, silenzio e paure… Un viaggio nel mondo misterioso e magico della notte”. A seguire, il tradizionale lancio dei palloncini con i messaggi scritti dai bambini (a cura di Unicef e Csv, con Leggere.Pavia). Per candidarsi volontario per dare una mano durante i giorni di BambinFestival (da 16 anni su), scrivere a volontariato@csvpavia.it. Per il programma completo: www.bambinfestival.org. (m.pizz.La Provincia Pavese, 6 maggio 2015)
2 maggio 2015
Tacco e punta: curarsi insieme a passo di tango.
“Balla che ti passa” sembrerebbe il motto dell’Ospedale San Giuseppe di Milano, dove per aiutare la guarigione di determinate patologie da qualche anno si pratica la tangoterapia. Artefice di questa cura sperimentale è Marilena Patuzzo, 48 anni, caposala del reparto di Riabilitazione specialistica che, da sempre appassionata della danza argentina, ha pensato di unire le sue competenze e metterle al servizio dei pazienti.
“ Era il 2005 quando ho iniziato a ballare tango, una passione che coltivo da allora con mio marito. Un genere particolare di danza, diverso perché basato non su codifiche e standard, ma sull’improvvisazione e sull’interpretazione. La soddisfazione maggiore risiede nel fatto che ognuno può ballarli, sentirlo e interpretarlo come vuole. Il tango è come lo senti in quel momento, varia in base al partner, all’umore, a come stai. Tanto che per ogni milonga non vedrai mai ballare due coppie nella stessa maniera. Se non fosse altro perché la musica stessa cambia e ti sollecita con continui alti e bassi, stop and go”. Trasuda passione dalle parole di Marilena, la stessa che nutre per i suoi pazienti con cui ha deciso, avallata dal parere medico dei direttori del Dipartimento interaziendale di Riabilitazione specialistica/neuromotoria del Gruppo MultiMedica, Franco Cosignani e Bruno Conti, di condividere le opportunità offerte dal tango. Ed ecco allora che, due volte a settimana, solo per i degenti, per circa tre quarti d’ora Marilena , sotto al camice, sfoggia scarpette con il tacco e, accesa la musica, comincia a ballare. O meglio, a “guidare”. “Balli per come sei e per come sai. Dopo un momento di riscaldamento necessario a riattivare la muscolatura, abbracci il tuo “partner” e ti lasci guidare”. Fisioterapisti, istruiti a dovere, che hanno scelto di partecipare a un fuori routine. “ Un lavoro di équipe che parte dal medico, che valuta se il paziente è adatto a partecipare, e torna al paziente che deve essere d’accordo. Supportato dal personale”. In tanti anni, che Marilena ricordi, solo un uomo si è rifiutato di partecipare: “Un vedovo che aveva perso la moglie da poco. Mi raccontò che per tutta la vita le aveva negato di ballare; non poteva farlo proprio adesso”. Per tutti gli altri pazienti, invece, è un momento molto atteso. “Utile a recuperare mobilità, equilibrio e controllo del corpo e occasione di svago”, per ci partecipa, ma anche per chi osserva curioso la lezione. Una signora in carrozzella guarda e sospira:”Peccato che io non possa ballare…da giovane ballavo il liscio”. Iolanda, invece, classe 1930, sta cominciando ora a rialzarsi in piedi dopo una brutta caduta:”Io non ballavo con mio marito”, ricorda, “lui si che ballava bene. Adesso il tango mi serve e, al tempo stesso, mi fa compagnia”.
Tutti in cerchio
Sette pazienti, la caposala, due fisioterapisti: “Un bel cerchio ampio che iniziamo il riscaldamento”, dice Marilena. C’è chi ride, chi si chiede se ce la farà, chi tiene stretta la mano al fisioterapista, chi si lancia da solo. Come Lino, 82 anni, vertebre rotte e operato al cuore. “Invalido al 100 per cento”, racconta. Ma quando parte la musica, molla il bastone e abbraccia il suo partner. “MI appoggio all’altro corpo, mi lascio guidare e vado”. Eccome se va. Balla con la leggerezza e la confidenza di chi sembra non abbia fatto altro nella vita. Alla fine, confessa: “Si, ballavo anche da giovane”. Ma saperlo già fare non è un prerequisito all’attività. “Sono l’intenzionalità e la voglia di mettersi in gioco unite alla piacevolezza del momento”, spiega Marilena, “a dare frutti. A indurre la capacità di tradurre un pensiero nella pratica. La volontà in movimento, che in alcune patologie è estremamente difficile”. Così nel Parkinson, per esempio. “Ripartire dallo stop della musica ti insegna, di riflesso, a salire uno scalino”. Ma ce ne sono altre:”Come gli esiti di Ictus che lasciano una parte del corpo più debole, o i pazienti affetti da sclerosi multipla e, in generale, dai disturbi dell’equilibrio e della postura. La tangoterapia fa bene laddove c’è poca possibilità di comandare alcuni movimenti”. La parte più difficile, non a caso, è stata scegliere e adattare i passi alle diverse tipologie di situazioni e persone. “renderlo più fruibile per i pazienti” continua Marilena. “Ci abbiamo lavorato molto in fase di progettazione. Solo arrivati al dunque è stato inserito nel protocollo dell’ospedale e questo accadeva nel 2012”. Marilena ancora ricorda la prima lezione, lei che il tango lo frequentava da anni ed è caporeparto dal 1999. “Sulla carta ho unito più diplomi e incrociato delle competenze, diverse e complementari. Ma ciò non toglie che al primo giro ero emozionatissima”. Supportata da tanti studi sul tango argentino come potenzialità riabilitativa, il tempo le ha dato ragione e anche i pazienti. “C’è chi, grazie al tango, è riuscito a sopportare una degenza lunga e con i parenti lontani, perché anche il fatto di essere abbracciati faceva sentire in famiglia. E chi non ha mai ballato nella vita e mai si sarebbe aspettato di farlo in ospedale perché…glielo ordinava il medico!”.
di Chiara Pelizzoni
Famiglia Cristiana, N.18 -2015
È sorda, si laurea in Infermieristica
È sorda, ma si è laureata brillantemente in Infermieristica: il suo futuro è in corsia, a contatto con i pazienti. Lisanna Grosso, 24 anni, di Vigevano ha concluso i suoi studi all'Università del Piemonte Orientale, nella sede di Novara. Con l'aiuto di speciali apparecchiature, riesce a leggere perfettamente il labiale di un interlocutore e parla molto bene, senza alterazioni del tono e dell'intensità della voce. Si è laureata con una tesi dedicata all'assistenza dei neonati sordi.
Si intitola "Le barriere comunicative nel nursing: studio sulle difficoltà comunicative tra il paziente sordo e il personale infermierstico». «Lisanna ha compiuto un ottimo percorso di studi – sottolinea Barbara Suardi, coordinatrice della didattica professionale del corso di laurea in Infermieristica – seguendo le lezioni in aula come gli altri studenti, sebbene leggere per otto ore le labbra del docente le costasse moltissima fatica». I percorsi di tirocinio di Lisanna sono stati progettati ad hoc. «Le abbiamo procurato, tramite l'azienda ospedaliera universitaria "Maggiore della Carità" di Novara, strumenti elettronici adatti a non udenti per consentirle di effettuare le attività cliniche richieste a tutti gli studenti». Una storia iniziata tre anni fa: ai test d'ingresso Lisanna prova ad entrare nel corso per tecnico di laboratorio e indica quello da infermiera come seconda scelta. Entra proprio nel corso scelto come alternativa: «Non finirò mai di ringraziare il destino per avermi portato a Infermieristica – racconta Lisanna - Ho scoperto un nuovo mondo, per me è stata una crescita interiore importante. Mi sono sentita a casa, le dottoresse Barbara Suardi e Marina De Medici e le tutor mi hanno sempre seguita attentamente». Lisanna ammette di aver incontrato dei pregiudizi: «Qualcuno ha pensato che un sordo non potesse fare l'infermiere. Ma come dice Jordan King, laureato in Psicologia e primo rettore sordo della Gallaudet, università per sordi di Washington, "i sordi tutto possono tranne sentire"». Con un pizzico di umanità e pazienza, dice Lisanna, «si possono aprire le menti». Un consiglio ai giovani disabili che vogliono studiare all'università? «La disabilità vera è quella del cuore – risponde Lisanna - Non arrendetevi mai davanti ai pregiudizi, riconoscete i vostri limiti ma nello stesso tempo le vostre potenzialità per abbattere le barriere. Siamo noi a dover fare il primo passo. Seguite le vostre passioni, le strade per avverare i sogni sono tante e non una sola. Potrà essere un percorso in salita ma con le persone giuste accanto, come è successo a me, si raggiunge la cima con soddisfazioni immense».
Sandro Barberis (La Provincia Pavese-25 aprile 2015)

Sandro Barberis (La Provincia Pavese-25 aprile 2015)
Lesioni cutanee, al San Matteo di Pavia viene garantita l’eccellenza nelle cure. Intervista ad Andrea Bellingeri
Oltre due milioni di
persone ne sono affette, dai diabetici a chi è costretto all’immobilità: un
costo sociale e sanitario rilevante. “Bisogna introdurre la figure
dell’infermiere di famiglia, che vada a domicilio e abbia come riferimento la
persona, non solo la malattia”.
Ha fondato
l’Associazione Infermieristica per lo Studio delle Lesioni Cutanee (AISLeC) nel
1993, quando parlare di queste tematiche era veramente avanguardistico. E negli
anni la sua formazione è diventata così specializzata che oggi Andrea
Bellingeri, infermiere e coordinatore dell’ambulatorio Vulnologico della
Chirurgia vascolare del Policlinico San Matteo diretta da Angelo Argenteri, è
uno dei massimi esperti in Italia nel trattamento delle ulcere cutanee. Le sue
consulenze sono richieste nei Collegi
Professionali italiani, negli ospedali e anche al Ministero della Sanità. Anche
perché le stime nazionali quantificano in oltre due milioni di utenti il numero
di coloro che sono affetti da lesioni cutanee, come conseguenza di numerose
patologie o condizioni cliniche che predispongono e ne favoriscono la genesi.
Una di queste, forse la principale, è il diabete: i soggetti che ne soffrono
possono andare incontro alla formazione di ulcere del piede, sviluppando così
un quadro di “piede diabetico”. “Si tratta di un problema come anche quello
delle lesioni da decubito, che ha cominciato a essere considerato a livello
nazionale con l’inserimento nel PSN e
nei LEA grazie anche alle ricerche della nostra Associazione – spiega belligeri
– ed è importantissimo lavorare in ambito preventivo, oltre che curativo,
perché costituisce una complicanza rilevante, sia per la famiglia che per la
società. Anche perché spesso il paziente è già fragile perché anziano e con
numerose patologie. Basti pensare che un’ulcera che arriva a livello delle ossa
impiega anche due anni a guarire e soprattutto rischia di causare la morte per
sepsi. Nel trattamento delle ulcere agli arti inferiori di origine flebo
statica già trent’anni fa in Germania distribuivano le calze elastiche alle persone a rischio di complicanze mentre da noi sono pochissime le strutture
che normalmente effettuano elastocompressione e lo stato non fornisce calze
elastiche a scopo preventivo.
Oggi in provincia di Pavia il San Matteo è
l’unica struttura pubblica che effettua
bendaggi elastocompressivi ai pazienti con lesioni vascolari gestendo 100
pazienti a settimana attraverso una equipe infermieristica specializzata nella
gestione delle ferite”. Fondamentale è anche la collaborazione
multidisciplinare tra quei professionisti sanitari, coinvolti nella gestione
della problematica. “Una collaborazione
che latita a livello regionale, mancando Percorsi Diagnostici Terapeutici ed
Assistenziali (PDTA) dedicati commenta Bellingeri – e che è migliore in altre
regioni, come la Toscana e la Campania. In Europa si fa rete da almeno dieci anni, in America
la Diabetic Foot Clinic esiste da decenni”. Prevenire e curare le lesioni
ulcerative è importante ovunque: in corsia, nelle strutture residenziali e
anche a domicilio. Un aspetto, quest’ultimo, che sottolinea ancor più la
necessità di creare una rete socio-sanitaria a streto contatto con le famiglie
di questi malati. “Per tale ragione è importante la figura dell’infermiere di
famiglia sul territorio – commenta belligeri – una figura intermedia come
competenze, ma che abbia come focus il paziente e non la malattia. Bisogna
lavorare in questa direzione, cercando di superare una mentalità che nella nostra società è
ancora prevalentemente medicocentrica”. Bellingeri conclude evidenziando anche
un’altra situazione su cui riflettere: la categoria degli infermieri è
destinata a diminuire nel numero e ad
invecchiare anagraficamente. “Per questo si deve decisamente investire sulla
professione, altrimenti le persone malate e le loro famiglie si troveranno
veramente a vivere sulla loro pelle grosse situazioni di difficoltà”.
Servizio di Daniela
Scherrer
Il Ticino-venerdì, 24
aprile 2015 Belligeri è autore di un libro che costituisce un “must” per chi deve gestire le lesioni cutanee
Due edizioni cartacee
andate esaurite poco dopo la pubblicazione (ora è in fase di stampa la terza
edizione, come sempre edita dalla Casa del Giovane) ed anche la versione e-book
accessibile da computer e tablet. “Il prontuario per la gestione delle lesioni
cutanee” è veramente un “must” per i professionisti della salute che spesso si
trovano davanti all’utente con lesioni cutanee o che ne sono a rischio e che
hanno frequentemente difficoltà a districarsi tra gli innumerevoli prodotti che
il mercato propone. Utenti che per numero e incidenza sono sempre più numerosi
sia in corsia che nelle strutture residenziali e pure a domicilio (oltre
2.000.000 in Italia) e che richiedono professionisti preparati, aggiornati e
con le soluzioni ed opzioni cliniche facilmente reperibili. Il volume
costituisce una messa a punto sistematica e ragionata di tutti i mezzi a
disposizione in ambito vulnologico (prodotti di medicazione, per il bendaggio,
letti e materassi antidecubito), con ampia e dettagliata spiegazione d’impiego.
La descrizione approfondita dei prodotti (oltre seicento) e delle modalità
d’uso, rendono questo volume uno strumento estremamente utile anche per i
farmacisti per assistere sempre meglio l’utente nell’acquisto ei prodotti. (Daniela Scherrer,Il Ticino-24 aprile 2015)
28 aprile 2015
27 aprile 2015
L’ultimo respiro di bellezza prima di morire
C’è qualcosa di inattuale, forse, in un ultimo desiderio tanto piccolo e dimesso. Quando, anche per gioco, buttiamo giù la lista di ciò che vorremmo fare prima di morire – come Jack Nicholson e Morgan Freeman in un film di qualche anno fa, «Non è mai troppo tardi» – tendiamo a esagerare: imprese spericolate, desideri sopra le righe, sollazzi nel lusso. La signora di Amsterdam, invece, ha scelto una cosa da niente, che non ha bisogno di paracadute, di portafoglio, di azzardo. Bastano gli occhi, e una certa attitudine per la bellezza. Di più: una certa confidenza con la bellezza.
L’episodio sembra la versione dal vero di una storia raccontata da Proust nella sua sterminata Recherche. Un vecchio scrittore, Bergotte, si accorge che sta per morire. Prima di lasciare il mondo, vuole tornare davanti a un quadro di Vermeer, la «Veduta di Delft». Riavere davanti agli occhi per qualche istante quel «piccolo lembo di muro giallo» dipinto così bene, scrive Proust, da sembrare una preziosa opera d’arte cinese, «di una bellezza che sarebbe bastata a sé stessa». Poi Bergotte muore: «Morto per sempre? Chi può dirlo?» aggiunge Proust. E si avventura in una riflessione sull’arte che coglie e fissa l’«eterno segreto di ognuno», che sottrae – forse – un po’ di potere alla morte. Nella scelta della signora di Amsterdam c’è una verità che dimentichiamo ogni giorno, antica come questo pianeta: da qui, non porteremo via niente. Non una valigia, non un ruolo, non il conto depositato nel frattempo in Svizzera. Non c’è «quantitative easing» che migliori i nostri conti con la morte. O forse sì, e ha a che vedere con la bellezza. Con tutto ciò che di bello abbiamo visto, ascoltato, studiato, capito, sentito. La bellezza non ha salvato né salverà il mondo, e la signora di Amsterdam lo sa. Non salverà nemmeno lei. Tanto vale, allora, metterla in salvo noi. Correre a vedere di nuovo Rembrandt, riascoltare questa musica, questa canzone, rileggere questo libro, ancora un po’. Ancora un po’ di bellezza.
paolo di paolo (la stampa,6 marzo 2015)
L’episodio sembra la versione dal vero di una storia raccontata da Proust nella sua sterminata Recherche. Un vecchio scrittore, Bergotte, si accorge che sta per morire. Prima di lasciare il mondo, vuole tornare davanti a un quadro di Vermeer, la «Veduta di Delft». Riavere davanti agli occhi per qualche istante quel «piccolo lembo di muro giallo» dipinto così bene, scrive Proust, da sembrare una preziosa opera d’arte cinese, «di una bellezza che sarebbe bastata a sé stessa». Poi Bergotte muore: «Morto per sempre? Chi può dirlo?» aggiunge Proust. E si avventura in una riflessione sull’arte che coglie e fissa l’«eterno segreto di ognuno», che sottrae – forse – un po’ di potere alla morte. Nella scelta della signora di Amsterdam c’è una verità che dimentichiamo ogni giorno, antica come questo pianeta: da qui, non porteremo via niente. Non una valigia, non un ruolo, non il conto depositato nel frattempo in Svizzera. Non c’è «quantitative easing» che migliori i nostri conti con la morte. O forse sì, e ha a che vedere con la bellezza. Con tutto ciò che di bello abbiamo visto, ascoltato, studiato, capito, sentito. La bellezza non ha salvato né salverà il mondo, e la signora di Amsterdam lo sa. Non salverà nemmeno lei. Tanto vale, allora, metterla in salvo noi. Correre a vedere di nuovo Rembrandt, riascoltare questa musica, questa canzone, rileggere questo libro, ancora un po’. Ancora un po’ di bellezza.
paolo di paolo (la stampa,6 marzo 2015)
23 aprile 2015
#ioleggoperchè!
Giovedì 23 aprile anche noi aderiremo alla giornata mondiale del libro e del diritto d'autore #ioleggoperchè!
Dalle 12 alle 12,10 ci concederemo 10 minuti di "sospensione" da dedicare al grande scrittore guatemalteco Dante Liano...chissà quale suo libro troverete in negozio?
"Le ho dedicato i miei libri, le ho espresso la mia gratitudine nei prologhi, nelle prefazioni, nelle note di ringraziamento.
L'ho anche resa protagonista di un paio di racconti fortunati.
Si chiama Marjorie, mi ha accompagnato d'ovunque con la mia stessa ostinazione, è la mia compagna di vita e questo romanzo non avrebbe nessun valore se non riconoscessi che Marjorie è stata fondamentale per scriverlo."
[Il mistero di San Andrés - Dante Liano]
Dalle 12 alle 12,10 ci concederemo 10 minuti di "sospensione" da dedicare al grande scrittore guatemalteco Dante Liano...chissà quale suo libro troverete in negozio?
"Le ho dedicato i miei libri, le ho espresso la mia gratitudine nei prologhi, nelle prefazioni, nelle note di ringraziamento.
L'ho anche resa protagonista di un paio di racconti fortunati.
Si chiama Marjorie, mi ha accompagnato d'ovunque con la mia stessa ostinazione, è la mia compagna di vita e questo romanzo non avrebbe nessun valore se non riconoscessi che Marjorie è stata fondamentale per scriverlo."
[Il mistero di San Andrés - Dante Liano]
21 aprile 2015
Joana e la forza di credere nei sogni
Negli occhi verdi di Joana si leggono
la forza e la dignità di una donna che è riuscita a realizzare il sogno della
sua vita senza mai scendere a compromessi. Quei compromessi assurdi a cui
spesso sono soggette le ragazze giovani e belle come lei, che vengono da un Paese
povero come la Romania e per le quali dietro a illusioni di una vita migliore alcuni
connazionali senza scrupoli nascondono le insidie della strada. Oggi Joana ha
ventinove anni, è una Operatrice Socio Sanitaria (OSS) alla Clinica Ortopedica
del Policlinico San Matteo, mentre alcune sue amiche sono finite a prostituirsi
in Italia o in Francia ed altre sono ancora in Romania a lavorare nei campi.
Cosa che ha fatto anche lei, prima di decidere che la sua vita valeva molto di
più.
A tredici anni raccoglieva le mele per finire quella scuola media dove era bravissima (ha chiuso con 9.13 di media generale), ma studiare era troppo costoso per una famiglia in cui il padre era alcolizzato e mamma doveva sfamare cinque bocche. Joana ha imparato presto che la realtà è diversa dai sogni, ma ha imparato anche a lottare forte per quei sogni. Voleva indossare un camice bianco per aiutare gli altri e, passando per dieci anni di battaglie, ce l’ha fatta. Aveva diciotto anni quando, nel 2004, dopo avere rifiutato “avances” e proposte poco nitide che non le interessavano decide di partire per la Spagna in cerca di fortuna; inizia come bracciante, poi frequenta un corso di assistenza per anziani e diventa badante. Joanna lotta e soffre, si innamora di uno spagnolo che ha il doppio dei suoi anni e che presto se ne va colpito da un tumore al cervello. Lei, che nonostante le notti in ospedale accanto all’uomo era stata sempre malvista dalla madre perché considerata come un’approfittatrice in cerca di documenti, viene cacciata via in malo modo con trecento euro in tasca. Torna in Romania, ma capisce subito che quella non può più essere la sua vita e riparte per l’Italia. Destinazione Villanterio, dove sua mamma lavora come badante. E’ la fine del 2006. Non parla una parola di italiano, cerca disperatamente un lavoro, accetta la proposta di un mese e mezzo a Madonna di Campiglio per accudire i figli di una famiglia benestante e impegnata tra alberghi e ristoranti (presso cui si trova benissimo), poi torna a Villanterio e si scontra con la burocrazia: per avere la carta di identità italiana ci vuole il permesso di soggiorno, per avere il permesso di soggiorno ci vuole un lavoro ma il lavoro nessuno te lo dà se non hai il documento di identità. E’ la solita storia del gatto che si morde la coda.
A tredici anni raccoglieva le mele per finire quella scuola media dove era bravissima (ha chiuso con 9.13 di media generale), ma studiare era troppo costoso per una famiglia in cui il padre era alcolizzato e mamma doveva sfamare cinque bocche. Joana ha imparato presto che la realtà è diversa dai sogni, ma ha imparato anche a lottare forte per quei sogni. Voleva indossare un camice bianco per aiutare gli altri e, passando per dieci anni di battaglie, ce l’ha fatta. Aveva diciotto anni quando, nel 2004, dopo avere rifiutato “avances” e proposte poco nitide che non le interessavano decide di partire per la Spagna in cerca di fortuna; inizia come bracciante, poi frequenta un corso di assistenza per anziani e diventa badante. Joanna lotta e soffre, si innamora di uno spagnolo che ha il doppio dei suoi anni e che presto se ne va colpito da un tumore al cervello. Lei, che nonostante le notti in ospedale accanto all’uomo era stata sempre malvista dalla madre perché considerata come un’approfittatrice in cerca di documenti, viene cacciata via in malo modo con trecento euro in tasca. Torna in Romania, ma capisce subito che quella non può più essere la sua vita e riparte per l’Italia. Destinazione Villanterio, dove sua mamma lavora come badante. E’ la fine del 2006. Non parla una parola di italiano, cerca disperatamente un lavoro, accetta la proposta di un mese e mezzo a Madonna di Campiglio per accudire i figli di una famiglia benestante e impegnata tra alberghi e ristoranti (presso cui si trova benissimo), poi torna a Villanterio e si scontra con la burocrazia: per avere la carta di identità italiana ci vuole il permesso di soggiorno, per avere il permesso di soggiorno ci vuole un lavoro ma il lavoro nessuno te lo dà se non hai il documento di identità. E’ la solita storia del gatto che si morde la coda.
Ecco allora che, nel momento più buio
in cui Joana si sente solo una mantenuta che vive con i soldi faticosamente
guadagnati dalla mamma, arriva un raggio di sole: si chiama Luciano,
inizialmente è il vicino di casa con cui confidarsi ma ben presto tra i due
scoppia l’amore che ancora oggi è ben vivo. Luciano assume temporaneamente
Joana come colf e questo le consente finalmente di ottenere la carta di
identità italiana. La situazione lavorativa può sbloccarsi,
anche se resta difficile. Joana viene assunta dalla Cooperativa Meridional, che
ha l’appalto per le pulizie al San Matteo: quelle Cliniche che sogna di servire
come infermiera può solo per il momento tenerle pulite, ma almeno è un primo
contatto. Tre ore al giorno, uno stipendio modesto ma Joana ha imparato nelle
difficoltà a trovare in tutto qualcosa di positivo: “Ero sfruttata e non
considerata da nessuno, ma in qualche modo avevo fatto il mio ingresso nel
mondo sanitario. Quando fai le pulizie non conti nulla, ma mentre lavavo mi
veniva spontaneo ascoltare, imparare, interessarmi a tutto quel che dicevano
gli infermieri perché ero attratta da quel lavoro”. E così qualcuno nota quella
ragazza dalla mente fervida e spigliata. E’ una infermiera che la incoraggia a
provare a crescere professionalmente, la sprona a fare la patente (che prende
nel 2009), le presta il denaro per acquistare una piccola macchina. Joana
diventa prima Asa dopo ottocento ore di lezione, poi si riqualifica con altre
quattrocento ore e corona il suo sogno: diventare OSS. Siamo nell’ottobre 2010.
Abbandona lo spazzolone, si licenzia dalla Meridional e, tramite la Temporary,
viene richiesta da più parti: si succedono le esperienze all’Intra Moenia del
San Matteo, poi in una Casa di Cura milanese e in un’altra a Pieve Porto
Morone, prima di iniziare lo scorso agosto al Policlinico, con contratto da
trentasei ore, tempo pieno. Un mese in Chirurgia Vascolare e poi la Clinica
Ortopedica, nel settore femminile. “Un ambiente caotico, dove spesso come
altrove si fatica per la carenza di organico –spiega Joana- ma mi trovo
benissimo, sia con le colleghe (tutte donne) che con le pazienti. In questi sei
mesi ho imparato molto anche perché è possibile la collaborazione tra
infermieri e Oss. Il contratto scadrà ad agosto, poi non so dove andrò ma va
bene tutto. Anzi mi piace cambiare ambito perché consente di crescere
umanamente e professionalmente”.
La voglia di crescere è una costante
della vita di Joana. Lo ha sempre desiderato e, caparbiamente, è riuscita. “Ora
mi piacerebbe che progressivamente il ruolo dell’OSS venisse riconosciuto
maggiormente e che potessimo fare ciò che in realtà già sappiamo fare.
L’Operatore socio sanitario non è solo una figura legata all’igiene del
paziente, è la prima interfaccia tra la persona ricoverata e la struttura di
degenza. L’Oss è colui che per primo osserva il malato e deve capire se sta
bene o male: dalle sue parole, dal volto, dal colore delle urine… Ecco perché penso
che sarebbero utili corsi di aggiornamento anche per noi”. Negli occhi verdi di Joana si legge
l’amore per il suo lavoro, la passione per la vita nonostante il percorso
tortuoso. “Sono stata fortunata, ringrazio Dio perché penso che ogni cosa che
mi sia accaduta abbia avuto un senso –conclude- tutte le esperienze, anche le
più negative, mi sono servite a capire la gente. Ho visto la morte in faccia,
ho perso tante persone care. Ma in Italia sto benissimo e gli italiani sono
persone meravigliose”. Si adombra solo quando parliamo di una sua eventuale
maternità, a conferma che il passato comunque lascia segni indelebili. “Per
adesso non ne voglio sentire parlare. Ho paura di mettere al mondo un figlio,
soprattutto una figlia. Non vorrei mai che dovesse un giorno passare tutto
quello che ho passato io”.
Daniela Scherrer-IL TICINO, 17 aprile 2015
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