24 maggio 2015

La festa a San Salvador per Romero beato

Un mare di ombrelli colorati. Non per ripararsi dalla pioggia, bensì dal sole accecante che ha illuminato la grande festa della fede a San Salvador. Un bagno di folla, le stime parlano di 260mila persone, ha partecipato alla Messa di Beatificazione di Óscar Arnulfo Romero, celebrata da cinque porporati e 1.500 sacerdoti. A presiederla, il cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per la causa dei Santi e delegato del Papa.

E’ stato quest’ultimo, come da tradizione, a leggere la lettera apostolica di Francesco: “Óscar Arnulfo Romero, arcivescovo, martire, che, sostenuto da Cristo, pietra angolare, donò la vita per la costruzione del Regno, d’ora in avanti sarà chiamato Beato”. Pochi istanti dopo, il telo azzurro è stato rimosso, scoprendo il ritratto del nuovo Beato. A quel punto l’entusiasmo della gente è esploso in un tripudio di applausi, mentre il coro intonava “Il tuo Regno è vita”.

Romero, ucciso il 24 marzo 1980 dagli scagnozzi di un regime repressivo per aver predicato il Regno di Dio, ora trascende i confini del Paese più piccolo dell’America Latina per entrare nel numero dei Beati della Chiesa universale. “E’ luce delle nazioni e sale della terra. Se i suoi persecutori sono spariti nell’ombra dell’oblio e della morte, la memoria di Romero continua ad essere viva e a dare conforto a tutti i derelitti e gli emarginati della terra”, ha detto il Prefetto per la Congregazione della causa dei Santi nell’omelia, più volte interrotta dalle grida di gioia della folla mescolate a canti spontanei tratti dalla Messa popolare salvadoregna.
L’arcidiocesi di San Salvador ha riservato oltre 1.400 posti per la celebrazione ai più poveri, i preferiti di Dio e di Monseñor, come i salvadoregni chiamano Romero. Le lacrime spontanee di questi ultimi - che hanno scandito buona parte della Messa – esprimono nel linguaggio inequivocabile degli ultimi che cosa l’arcivescovo martire abbia rappresentato e tuttora rappresenti per El Salvador. “E’ stato il primo a dirci che avevamo dei diritti perché figli di Dio”, racconta Macia.

Davvero Romero ha avuto in dono dal Signore “la capacità di vedere e ascoltare la sofferenza del suo popolo” e di orientarlo con cuore sensibile, come ha sottolineato papa Francesco nella lettera indirizzata all’attuale arcivescovo di San Salvador, José Luis Escobar Alas. Per questo, le sue parole sono il faro a cui El Salvador guarda per emanciparsi dalle catene di un passato violento e costruirsi un futuro di pace.

Lucia Capuzzi 
Avvenire, 23 maggio 2015

Un «normale» medico italiano nel Nepal del terremoto

UN OSPEDALE DA CAMPO IN UN VILLAGGIO A 90 CHILOMETRI DA KATHMANDU. L’HA APERTO UN GRUPPO DI CHIRURGHI GUIDATO DA  FEDERICO FILIDEI CHE É GIÀ STATO IN SRI LANKA E A HAITI. E QUI SPIEGA PERCHÉ IN QUESTE EMERGENZE, LE TERAPIE MIGLIORI POTREBBERO RIVELARSI LE PEGGIORI

di Silvia Bencivelli
Non si sentono eroi. Sono medici normali, lavorano nei normali ospedali italiani, sono i nostri chirurghi, anestesisti e pediatri normali, oggi chiamati a fare il proprio lavoro dove di normale non c'è niente. Come il villaggio di Satbise, a 90 chilometri da Kathmandu, cioè a dieci ore di camion su una strada sconnessa che dalla capitale del Nepal si arrampica tra i monti. Un villaggio di case distrutte dal terremoto in cui il Gruppo di Chirurgia d'urgenza, partito da Pisa con 27 medici, sei vigili del fuoco e quattro funzionari di Protezione Civile, ha gonfiato la sua sala operatoria pneumatica, montato le sue tende, issato la sua bandiera.
 
Tra loro, Federico Filidei: trentotto
anni, chirurgo all'ospedale Lutti di Puntedera, qui è deputy team leader con funzioni da direttore sanitario. Una delle prime cose che ha fatto sotto una di queste tende è stata ricucire il volto di un bambino che, a quasi due settimane dal disastro, non aveva ancora visto un disinfettante né un cerotto. «Abbiamo dovuto togliere le mosche dal viso, che impressione» racconta al telefono con un po' di fatica. Il terremoto del 25 aprile scorso e le scosse successive non hanno solo causato ottomila morti e dodicimila feriti (cifre ufficiali), valanghe sull'Himalaya e la distruzione improvvisa di città e monumenti storici. Hanno anche interrotto le vie d'accesso alle valli e ai villaggi più lontani dai grandi centri, perciò a settimane di distanza dal terremoto ci sono ancora feriti che non sono stati visitati da nessun medico. «Adesso a noi arrivano un po' alla volta, man mano che le strade si aprono e si diffonde la voce che siamo qui». Così all'inizio si sono presentati soprattutto traumi lievi e bambini e donne incinte con malattie come congiuntiviti e febbroni, perché in questi villaggi si dorme sotto tende di fortuna. «E, come sempre succede, sono arrivate anche malattie croniche di povera gente che si tiene un mal di denti per anni». Poi si sono affacciati pazienti sempre più gravi, da posti sempre più lontani. E su questi si misura la differenza tra un eroismo romantico e una professionalitá complessa e versatile: «Ieri sera ci hanno portato una ragazza con ferite tremende al volto e alla testa e una sospetta frattura alla colonna vertebrale. Noi dovevamo stabilizzarla e inviarla a un centro specializzato. Solo che qui non c'è un sistema di ambulanze. Cosi l'ambulanza abbiamo dovuto inventarcela, "travestendo" in fretta e furia una jeep e mandandola a valle di notte,
con tre dei nostri a bordo».
 
Ma il vero problema è che «stabilizzare il paziente» in un
ospedale da campo, dove gli ambulatori sono tende arredate con qualche palloncino per fare compagnia ai pazienti bambini, ha un significato diverso da quello che gli stessi chirurghi e anestesisti gli danno quando sono a casa. E non perché manchino gli strumenti, ma perché l'imperativo è chiedersi che cosa succederà una volta che il paziente sarà uscito dalla sala operatoria pneumatica e sarà tornato a essere un nepalese malato in Nepal. «In Italia, per esempio, quella ragazza l'avremmo intubata senza pensarci un secondo» spiega Filidei «mentre qui abbiamo dovuto considerare che l'ospedale dove andrà è di certo meno attrezzato della nostra tenda operatoria, e potrebbero non esserci reparti di terapia intensiva con respiratori adeguati, sistemi di monîtoraggio e così via. Lo stesso vale per gli antibiotici di ultima generazione, che sarebbero la nostra prima scelta per un bambino con la polmonite: qui è bene non usarli. Perché i nepalesi non ce li hanno e tu non puoi abbandonare un paziente con farmaci che poi i medici locali non sanno usare». In Italia quella ragazza ferita e non intubata porterebbe Filidei e colleghi in tribunale, accusati di negligenza e di imperizia. A Satbise, al contrario, la negligenza sarebbe stata quella di intervenire con gli strumenti di un medico occidentale e poi di infilare la paziente nella jeep-ambulanza trascurandone il destino. E questa imperizia si evita con una preparazione basata sul massimo rispetto possibile degli standard che garantiamo a noi stessi in Italia (dal consenso informato alla rendicontazione delle spese), «ma ricordandosi che a un certo punto devi considerare il mondo fuori dalla tua tenda. Un mondo dove non ci sono strutture di riabilitazione e medici curanti, e spesso neppure lenzuola pulite e cibo tutti i giorni». Non solo: bisogna decidere, per esempio, se allestire o meno una tendopoli per la popolazione terremotata anche se non si hanno tende per tutti, perché una tendopoli a metà potrebbe creare conflitti tra gli abitanti. Bisogna conoscere e rispettare i salari locali per non strapagare un autista tra i tanti. Infine, si deve parlare con gli altri gruppi di medici arrivati da tutto il mondo con il coordinamento delle Nazioni Unite. «Lo so che l'attenzione alla burocrazia, e le riunioni internazionali nelle quali oggi sono il referente italiano insieme a un membro della Protezione civile, sembrano lungaggini» spiega «ma sono necessarie. Ed è persino emozionante
discutere con i medici di mezzo mondo su dove reperire sangue e ossigeno o su come
smaltire i rifiuti lassù sulle valle hmalayane». Federico Filidei fa parte del Gruppo di Chirurgia d'urgenza dal 2003, quando, specializzando al primo anno, fu chiamato a sostituire un collega anziano che non poteva partire per l'Iran. «Dissi di si e nel giro di qualche ora mi trovai su un aereo militare. Non avevo addestramento e nemmeno un diploma di specializzazione. L'anno dopo andai in Sri Lanka ad assistere le popolazioni colpite dallo tsunami, poi in Cina e ad Haiti». Nel frattempo le cose sono cambiate: è cambiata l'attenzione alla preparazione del personale ed è cambiata la gestione dell'emergenza.
Anche per questo, dice, è difficile sentirsi eroi: «Da quando siamo partiti da Pratica di Mare, la notte del 29 aprile, ci sono arrivati centinaia di messaggi di incoraggiamento. Ma, tra viaggi e autorizzazioni, e poi per montare questo campo tendato, per qualche giorno non abbiamo operato. Ci sentivamo quasi traditori a stare a guardare». In un posto come Satbise si viene per spirito di servizio, non pagati (e per un medico a partita Iva non è ovvio) e con la consapevolezza di aver lasciato un ospedale italiano sulle spalle di colleghi che nessuno ringrazierà. «Non c'è senso di esaltazione» conclude Filidei, «solo voglia di lavorare, stanchezza e nostalgia di casa. A me mancano da morire le mie due bambine. E non riesco a non pensare a quando andai in Cina e la più grande, allora all'asilo, impediva piangendo che gli altri bambini buttassero giù le costruzioni. Perché aveva capito che cosa è un terremoto.
Quando tornai, girò la testa e non volle nemmeno salutarmi».
 
Silvia Bencivelli
(Il Venerdì di Repubblica-venerdi 22.05.2015)
 
 

14 maggio 2015

“Gli obiettivi? Promozione dell’Infermiere di famiglia e tutela di chi lavora contrattualmente ai limiti della decenza”

di Daniela Scherrer  (Il Ticino-venerdì. 8 maggio 2015)
Dallo scorso mese di novembre è presidente del  Collegio IPASVI di Pavia. Michele Borri, 41 anni, infermiere in un settore delicato come il Servizio di Cure Intensive Coronariche della Cardiologia del Policlinico San Matteo, coglie l’occasione dell’approssimarsi della Giornata dell’Infermiere per tracciare un bilancio dei suoi primi sei mesi alla guida del Collegio.
Presidente, questi primi sei mesi alla guida del Collegio IPASVI di Pavia sono stati in linea con quanto si aspettava? Più o meno difficili delle previsioni?
“Non credo che si possa realmente parlare di grado di difficoltà, quanto piuttosto di complessità ed eterogeneità dei vari aspetti di cui sono stato chiamato ad occuparmi: questo a partire dalle relazioni interne a quelle esterne, dall’attività programmatica istituzionale e da tutti gli aspetti ad essa correlati. Tuttavia, e di questo ne sono molto grato, il senso di responsabilità e la competenza di chi ha scelto di accompagnarmi ed appoggiarmi in questo mandato hanno reso il mio percorso meno impervio del previsto. Inoltre devo considerarmi fortunato anche per il fatto di avere a pochi metri dalla Sede del Collegio l’ufficio della dottoressa Barbara Mangiacavalli, Presidente della Federazione Nazionale Collegi IPASVI. Questo ha di certo semplificato il mio approccio alle situazioni più critiche, poiché i suoi consigli in merito sono risultati preziosi in più di una occasione. Ciò che realmente mi ha sorpreso è stato invece constatare in quanti e quali modi l’Istituzione possa diventare parte attiva del cambiamento che sta attraversando la nostra professione, sia attraverso l’azione singola che in concertazione con altri enti, istituzioni, associazioni”.
Tempo di bilanci: che cosa spera di avere portato in questi suoi mesi di presidenza e su che fronte sa di avere ancora parecchio da lavorare?
“Volendo fare un primo bilancio provvisorio rispetto a quanto fatto fino ad ora, credo di poter dire che il desiderio mio e del Consiglio Direttivo sia stato quello di valorizzare ciò che era già presente e di apportare i primi cambiamenti. La priorità è ora quella di allargare quanto più possibile la partecipazione degli iscritti all’attività dei Gruppi di Lavoro, al fine di valorizzare e canalizzare la spinta propulsiva della comunità infermieristica; proprio quest’ultima nei momenti di difficoltà  e mutamento  come quelli in cui viviamo ora può rappresentare la forza motrice per la realizzazione di attività progettuali in linea con i principi che muovono il nostro impegno istituzionale. All’orizzonte abbiamo molti obiettivi: tra questi citerei la tutela per gli iscritti, in particolare per coloro che operano a livello periferico o per chi si vede costretto ad accettare situazioni professionali al limite del demansionamento o della decenza contrattuale, la promozione dell’infermiere ed in particolare dell’infermiere di famiglia e di comunità anche attraverso progetti sperimentali, e la valorizzazione del patrimonio studentesco del corso di laurea in Scienze Infermieristiche, attraverso collaborazioni e progetti con l’Università di Pavia”.
Che cosa ne pensa un Presidente di un Collegio di Infermieri quando legge la notizia di una Infermiera soda che si laurea? Che cosa può dare questo alla vostra professione?
“In questo caso credo che ciò che pensi il Presidente sia ciò che tutti i colleghi sentono quando vengono a conoscenza di una notizia di questo genere, e che il sentimento sia semplicemente amplificato: orgoglio e speranza, perché una collega con una così grande determinazione può riuscire a produrre, in qualunque ambito lavorativo scelga di inserirsi, una spinta dall’interno in grado di contagiare anche chi, forse con troppo anticipo, accetta con rassegnazione le situazioni nel quale  è costretto a vivere. Anche quando, magari proprio in sinergia con il Collegio, è possibile trasformare le situazioni di criticità in opportunità e miglioramento. A questa collega, così come a tutti coloro che si sono laureati la scorsa settimana e che spero di poter  vedere nei prossimi giorni se sceglieranno di iscriversi all’Albo del Collegio della Provincia di Pavia, porgo l’invito a presentarsi in sede con proposte, consigli e con l’entusiasmo che è proprio del momento post-laurea”.
E che cosa pensa invece quando legge la notizia di un processo per un Infermiere che disattende la sua missione, come quelli accaduti anche recentemente?
“Partendo dal presupposto che non è corretto giudicare un professionista non conoscendo nei particolari le condizioni che hanno originato quanto contestato nello specifico, è però possibile fare alcune considerazioni di carattere generale. Quando un infermiere per una ragione o per l’altra non compie il proprio mandato – termine che ritengo più idoneo a quello di missione – deve essere consapevole che le sue azioni non verranno giudicate solo sotto l’aspetto etico e deontologico, ma che vi saranno delle conseguenze a livello giuridico. Il lungo processo di ridefinizione della figura infermieristica ha sempre messo in primo piano l’assunzione di responsabilità quale strumento per il raggiungimento dell’autonomia professionale e rimanere ancorati, anche solo concettualmente, a quel modello di operatore ausiliario sta a significare la volontà di restare adesi ad un modello anacronistico della professione. Si può solo pensare che chi svolga il proprio ruolo con tanta leggerezza lo faccia più per assenza di conoscenze e scarsa consapevolezza, piuttosto che per mancanza di affinità con gli elementi fondanti della nostra professione; vi è una tale chiarezza persino sotto il profilo etimologico – infermiere significa vicino agli infermi – che rende improprio qualunque malinteso in tal senso”.
Pensa che la nuova sede del Collegio possa diventare il fulcro di iniziative per aprirsi alla gente e per organizzare iniziative pubbliche?
“Questa è la speranza che abbiamo: una sede che possa riuscire a trascendere il proprio mandato istituzionale, ospitando corsi, convegni ed incontri a carattere professionale, e che diventi anche un punto di riferimento per la cittadinanza, magari realizzando un canale dove ottenere aiuto e sostegno per la progettazione di veri e propri piani assistenziali a 360 gradi, e non di semplici prestazioni infermieristiche delegate da un modello medico-centrico. I cittadini pavesi hanno bisogno, considerando che all’orizzonte sembra delinearsi un chiaro progetto di de-ospedalizzazione, di qualcuno che possa occuparsi dei familiari nella loro fragilità assistenziale e nella cronicità: l’unico professionista sanitario in grado di dare questo tipo di risposta è l’infermiere, e in questi anni cercheremo in ogni modo di trasmettere questo messaggio alla cittadinanza”.

6 maggio 2015

La carica dei più piccoli in tutti i quartieri della città

Ben 170 iniziative gratuite dedicate a grandi e piccoli per giocare e imparare con la musica, il disegno, la letteratura, la cucina, lo sport, la salute e l'ecologia insieme a 110 associazioni ed enti del territorio, con Ains e A Ruota Libera capofila, e sotto l'egida del Centro Servizi Volontariato di Pavia. E' la sesta edizione di BambinFestival, che dal 16 al 30 maggio tornerà ad animare il centro e i quartieri periferici di Pavia.

La rassegna è stata presentata nella sede del Csv, da Isa Cimolini (presidente Csv Pavia), Angela Gregorini (vicesindaco del Comune di Pavia), Francesco Brendolise (assessore al Volontariato e alla Cooperazione della Provincia di Pavia), Fiorenza Bertelli (coordinatore Csv Pavia) e Maria Piccio (referente Csv Pavia per Bambinfestival). «Partiamo dai più piccoli per creare una società migliore, è questa la vocazione di BambinFestival» ha detto Isa Cimolini. A confermare la bontà dell'intento è stata Angela Gregorini: «Sono mamma di tre bambini e in questa veste ho conosciuto BambinFestival, poi gli organizzatori sono diventati amici e ora, come assessore comunale, mi ritrovo a fare un altro pezzo di cammino con alcuni di loro: la sensazione è quella di aver costruito dal basso qualcosa di utile, che, partendo da oggi, farà la differenza nei grandi di domani». Realizzato in parte grazie al contributo della Fondazione Banca del Monte, BambinFestival deve molto del suo successo ai volontari delle varie associazioni, che ogni anno permettono al Csv di riempire un calendario fittissimo, con costi praticamente nulli. «Parliamo sempre di risorse economiche, ma senza il capitale umano e sociale, le risorse economiche non servono a niente – ha detto Francesco Brendolise – la forza di BambinFestival, ormai patrimonio della nostra provincia, è proprio qui: nella capacità di fare rete e nella comunità di intenti di enti e associazioni». L'inaugurazione si terrà dunque sabato 16 maggio alle 16 in Castello con lo spettacolo “Miss stupisco e i colori della città” della Compagnia Montessori&Brandao (teatro ragazzi), storia di una stravagante esploratrice che, trasportata dal vento, atterra in una città triste e grigia con un’importante missione: ritrovare i colori che un grosso nuvolone di smog ha oscurato. Prima dello spettacolo, alle 14.30 sarà inaugurata la mostra di lavori realizzati dalle scuole d'infanzia e primarie che hanno aderito al progetto “La notte - sogni e poesia, buio e luce, silenzio e paure… Un viaggio nel mondo misterioso e magico della notte”. A seguire, il tradizionale lancio dei palloncini con i messaggi scritti dai bambini (a cura di Unicef e Csv, con Leggere.Pavia). Per candidarsi volontario per dare una mano durante i giorni di BambinFestival (da 16 anni su), scrivere a volontariato@csvpavia.it. Per il programma completo: www.bambinfestival.org. (m.pizz.La Provincia Pavese, 6 maggio 2015)

2 maggio 2015

Tacco e punta: curarsi insieme a passo di tango.

Balla che ti passa” sembrerebbe il motto dell’Ospedale San Giuseppe di Milano, dove per aiutare la guarigione di determinate patologie da qualche anno si pratica la tangoterapia. Artefice di questa cura sperimentale è Marilena Patuzzo, 48 anni, caposala del reparto di Riabilitazione specialistica che, da sempre appassionata della danza argentina, ha pensato di unire le sue competenze e metterle al servizio dei pazienti. 
 

“ Era il 2005 quando ho iniziato a ballare tango, una passione che coltivo da allora con mio marito. Un genere particolare di danza, diverso perché basato non su codifiche e standard, ma sull’improvvisazione e sull’interpretazione. La soddisfazione maggiore risiede nel fatto che ognuno  può ballarli, sentirlo e interpretarlo come vuole. Il tango è come lo senti in quel momento, varia in base al partner, all’umore, a come stai. Tanto che per ogni milonga non vedrai mai ballare due coppie nella stessa maniera. Se non fosse altro perché la musica stessa cambia e ti sollecita con continui alti e bassi, stop and go”. Trasuda passione dalle parole di Marilena, la stessa che nutre per i suoi pazienti con cui ha deciso, avallata dal parere medico dei direttori del Dipartimento interaziendale di Riabilitazione specialistica/neuromotoria del Gruppo MultiMedica, Franco Cosignani e Bruno Conti, di condividere le opportunità offerte dal tango. Ed ecco allora che, due volte a settimana, solo per i degenti, per circa tre quarti d’ora Marilena , sotto al camice, sfoggia scarpette con il tacco e, accesa la musica, comincia a ballare. O meglio, a “guidare”. “Balli per come sei e per come sai. Dopo un momento di riscaldamento necessario a riattivare la muscolatura, abbracci il tuo “partner” e ti lasci guidare”. Fisioterapisti, istruiti a dovere, che hanno scelto di partecipare a un fuori routine. “ Un lavoro di équipe che parte dal medico, che valuta se il paziente è adatto a partecipare, e torna al paziente che deve essere d’accordo. Supportato dal personale”. In tanti anni, che Marilena ricordi, solo un uomo si è rifiutato di partecipare: “Un vedovo che aveva perso la moglie da poco. Mi raccontò che per tutta la vita le aveva negato di ballare; non poteva farlo proprio adesso”. Per tutti gli altri pazienti, invece, è un momento molto atteso. “Utile a recuperare mobilità, equilibrio e controllo del corpo e occasione di svago”, per ci partecipa, ma anche per chi osserva curioso la lezione. Una signora in carrozzella guarda e sospira:”Peccato che io non possa ballare…da giovane ballavo il liscio”. Iolanda, invece, classe 1930, sta cominciando ora a rialzarsi in piedi dopo una brutta caduta:”Io non ballavo con mio marito”, ricorda, “lui si che ballava bene. Adesso il tango mi serve e, al tempo stesso, mi fa compagnia”.
 
Tutti in cerchio
Sette pazienti, la caposala, due fisioterapisti: “Un bel cerchio ampio che iniziamo il riscaldamento”, dice Marilena. C’è chi ride, chi si chiede se ce la farà, chi tiene stretta la mano al fisioterapista, chi si lancia da solo. Come Lino, 82 anni, vertebre rotte e operato al cuore. “Invalido al 100 per cento”, racconta. Ma quando parte la musica, molla il bastone e abbraccia il suo partner. “MI appoggio all’altro corpo, mi lascio guidare e vado”. Eccome se va. Balla con la leggerezza e la confidenza di chi sembra non abbia fatto altro nella vita. Alla fine, confessa: “Si, ballavo anche da giovane”. Ma saperlo già fare non è un prerequisito all’attività. “Sono l’intenzionalità e la voglia di mettersi in gioco unite alla piacevolezza del momento”, spiega Marilena, “a dare frutti. A indurre la capacità di tradurre un pensiero nella pratica. La volontà in movimento, che in alcune patologie è estremamente difficile”. Così nel Parkinson, per esempio. “Ripartire dallo stop della musica ti insegna, di riflesso, a salire uno scalino”. Ma ce ne sono altre:”Come gli esiti di Ictus che lasciano una parte del corpo più debole, o i pazienti affetti da sclerosi multipla e, in generale, dai disturbi dell’equilibrio e della postura. La tangoterapia fa bene laddove c’è poca possibilità di comandare alcuni movimenti”. La parte più difficile, non a caso, è stata scegliere e adattare i passi alle diverse tipologie di situazioni e persone. “renderlo più fruibile per i pazienti” continua Marilena. “Ci abbiamo lavorato molto in fase di progettazione. Solo arrivati al dunque è stato inserito nel protocollo dell’ospedale e questo accadeva nel 2012”. Marilena ancora ricorda la prima lezione, lei che il tango lo frequentava da anni ed è caporeparto dal 1999. “Sulla carta ho unito più diplomi e incrociato delle competenze, diverse e complementari. Ma ciò non toglie che al primo giro ero emozionatissima”. Supportata da tanti studi sul tango argentino come potenzialità riabilitativa, il tempo le ha dato ragione e anche i pazienti. “C’è chi, grazie al tango, è riuscito a sopportare una degenza lunga e con i parenti lontani, perché anche il fatto di essere abbracciati faceva sentire in famiglia. E chi non ha mai ballato nella vita e mai si sarebbe aspettato di farlo in ospedale perché…glielo ordinava il medico!”.
 
di Chiara Pelizzoni
Famiglia Cristiana, N.18 -2015
 
 

È sorda, si laurea in Infermieristica

 È sorda, ma si è laureata brillantemente in Infermieristica: il suo futuro è in corsia, a contatto con i pazienti. Lisanna Grosso, 24 anni, di Vigevano ha concluso i suoi studi all'Università del Piemonte Orientale, nella sede di Novara. Con l'aiuto di speciali apparecchiature, riesce a leggere perfettamente il labiale di un interlocutore e parla molto bene, senza alterazioni del tono e dell'intensità della voce. Si è laureata con una tesi dedicata all'assistenza dei neonati sordi.

Si intitola "Le barriere comunicative nel nursing: studio sulle difficoltà comunicative tra il paziente sordo e il personale infermierstico». «Lisanna ha compiuto un ottimo percorso di studi – sottolinea Barbara Suardi, coordinatrice della didattica professionale del corso di laurea in Infermieristica – seguendo le lezioni in aula come gli altri studenti, sebbene leggere per otto ore le labbra del docente le costasse moltissima fatica». I percorsi di tirocinio di Lisanna sono stati progettati ad hoc. «Le abbiamo procurato, tramite l'azienda ospedaliera universitaria "Maggiore della Carità" di Novara, strumenti elettronici adatti a non udenti per consentirle di effettuare le attività cliniche richieste a tutti gli studenti». Una storia iniziata tre anni fa: ai test d'ingresso Lisanna prova ad entrare nel corso per tecnico di laboratorio e indica quello da infermiera come seconda scelta. Entra proprio nel corso scelto come alternativa: «Non finirò mai di ringraziare il destino per avermi portato a Infermieristica – racconta Lisanna - Ho scoperto un nuovo mondo, per me è stata una crescita interiore importante. Mi sono sentita a casa, le dottoresse Barbara Suardi e Marina De Medici e le tutor mi hanno sempre seguita attentamente». Lisanna ammette di aver incontrato dei pregiudizi: «Qualcuno ha pensato che un sordo non potesse fare l'infermiere. Ma come dice Jordan King, laureato in Psicologia e primo rettore sordo della Gallaudet, università per sordi di Washington, "i sordi tutto possono tranne sentire"». Con un pizzico di umanità e pazienza, dice Lisanna, «si possono aprire le menti». Un consiglio ai giovani disabili che vogliono studiare all'università? «La disabilità vera è quella del cuore – risponde Lisanna - Non arrendetevi mai davanti ai pregiudizi, riconoscete i vostri limiti ma nello stesso tempo le vostre potenzialità per abbattere le barriere. Siamo noi a dover fare il primo passo. Seguite le vostre passioni, le strade per avverare i sogni sono tante e non una sola. Potrà essere un percorso in salita ma con le persone giuste accanto, come è successo a me, si raggiunge la cima con soddisfazioni immense».
Sandro Barberis (La Provincia Pavese-25 aprile 2015)

Lesioni cutanee, al San Matteo di Pavia viene garantita l’eccellenza nelle cure. Intervista ad Andrea Bellingeri

Oltre due milioni di persone ne sono affette, dai diabetici a chi è costretto all’immobilità: un costo sociale e sanitario rilevante. “Bisogna introdurre la figure dell’infermiere di famiglia, che vada a domicilio e abbia come riferimento la persona, non solo la malattia”.

Ha fondato l’Associazione Infermieristica per lo Studio delle Lesioni Cutanee (AISLeC) nel 1993, quando parlare di queste tematiche era veramente avanguardistico. E negli anni la sua formazione è diventata così specializzata che oggi Andrea Bellingeri, infermiere e coordinatore dell’ambulatorio Vulnologico della Chirurgia vascolare del Policlinico San Matteo diretta da Angelo Argenteri, è uno dei massimi esperti in Italia nel trattamento delle ulcere cutanee. Le sue consulenze  sono richieste nei Collegi Professionali italiani, negli ospedali e anche al Ministero della Sanità. Anche perché le stime nazionali quantificano in oltre due milioni di utenti il numero di coloro che sono affetti da lesioni cutanee, come conseguenza di numerose patologie o condizioni cliniche che predispongono e ne favoriscono la genesi. Una di queste, forse la principale, è il diabete: i soggetti che ne soffrono possono andare incontro alla formazione di ulcere del piede, sviluppando così un quadro di “piede diabetico”. “Si tratta di un problema come anche quello delle lesioni da decubito, che ha cominciato a essere considerato a livello nazionale  con l’inserimento nel PSN e nei LEA grazie anche alle ricerche della nostra Associazione – spiega belligeri – ed è importantissimo lavorare in ambito preventivo, oltre che curativo, perché costituisce una complicanza rilevante, sia per la famiglia che per la società. Anche perché spesso il paziente è già fragile perché anziano e con numerose patologie. Basti pensare che un’ulcera che arriva a livello delle ossa impiega anche due anni a guarire e soprattutto rischia di causare la morte per sepsi. Nel trattamento delle ulcere agli arti inferiori di origine flebo statica già trent’anni fa in Germania distribuivano le calze elastiche  alle persone a rischio di complicanze  mentre da noi sono pochissime le strutture che normalmente effettuano elastocompressione e lo stato non fornisce calze elastiche a scopo preventivo.
Oggi in provincia di Pavia il San Matteo è l’unica struttura  pubblica che effettua bendaggi elastocompressivi ai pazienti con lesioni vascolari gestendo 100 pazienti a settimana attraverso una equipe infermieristica specializzata nella gestione delle ferite”. Fondamentale è anche la collaborazione multidisciplinare tra quei professionisti sanitari, coinvolti nella gestione della problematica.  Una collaborazione che latita a livello regionale, mancando Percorsi Diagnostici Terapeutici ed Assistenziali (PDTA) dedicati commenta Bellingeri – e che è migliore in altre regioni, come la Toscana e la Campania. In Europa  si fa rete da almeno dieci anni, in America la Diabetic Foot Clinic esiste da decenni”. Prevenire e curare le lesioni ulcerative è importante ovunque: in corsia, nelle strutture residenziali e anche a domicilio. Un aspetto, quest’ultimo, che sottolinea ancor più la necessità di creare una rete socio-sanitaria a streto contatto con le famiglie di questi malati. “Per tale ragione è importante la figura dell’infermiere di famiglia sul territorio – commenta belligeri – una figura intermedia come competenze, ma che abbia come focus il paziente e non la malattia. Bisogna lavorare in questa direzione, cercando di superare  una mentalità che nella nostra società è ancora prevalentemente medicocentrica”. Bellingeri conclude evidenziando anche un’altra situazione su cui riflettere: la categoria degli infermieri è destinata a diminuire  nel numero e ad invecchiare anagraficamente. “Per questo si deve decisamente investire sulla professione, altrimenti le persone malate e le loro famiglie si troveranno veramente a vivere sulla loro pelle grosse situazioni di difficoltà”.

Servizio di Daniela Scherrer
Il Ticino-venerdì, 24 aprile 2015

Belligeri è autore di un libro che costituisce un “must” per chi deve gestire le lesioni cutanee


Due edizioni cartacee andate esaurite poco dopo la pubblicazione (ora è in fase di stampa la terza edizione, come sempre edita dalla Casa del Giovane) ed anche la versione e-book accessibile da computer e tablet. “Il prontuario per la gestione delle lesioni cutanee” è veramente un “must” per i professionisti della salute che spesso si trovano davanti all’utente con lesioni cutanee o che ne sono a rischio e che hanno frequentemente difficoltà a districarsi tra gli innumerevoli prodotti che il mercato propone. Utenti che per numero e incidenza sono sempre più numerosi sia in corsia che nelle strutture residenziali e pure a domicilio (oltre 2.000.000 in Italia) e che richiedono professionisti preparati, aggiornati e con le soluzioni ed opzioni cliniche facilmente reperibili. Il volume costituisce una messa a punto sistematica e ragionata di tutti i mezzi a disposizione in ambito vulnologico (prodotti di medicazione, per il bendaggio, letti e materassi antidecubito), con ampia e dettagliata spiegazione d’impiego. La descrizione approfondita dei prodotti (oltre seicento) e delle modalità d’uso, rendono questo volume uno strumento estremamente utile anche per i farmacisti per assistere sempre meglio l’utente nell’acquisto ei prodotti.               (Daniela Scherrer,Il Ticino-24 aprile 2015)