La Chiesa in Guatemala

IL VANGELO DELLA TERRA
di Mauro Castagnaro

La riforma agraria, la lotta alla povertà, all’ingiustizia e all’emarginazione delle popolazioni indigene: queste le grandi questioni che dovrebbero essere nell’agenda del governo, secondo monsignor Alvaro Ramazzini, vescovo di una delle diocesi più povere del Guatemala. Perché la fede è anche lotta per l’uomo.

Monsignor Alvaro Ramazzini, vescovo di San Marcos, in Guatemala, e presidente del Segretariato episcopale dell’America centrale (Sedac), è da anni in prima linea nella difesa dei diritti dei braccianti senza terra. Ciò lo ha reso più volte oggetto di intimidazioni e minacce di morte. La sua diocesi ha un’estensione di circa 4 mila chilometri quadrati con 800 mila abitanti, di cui il 60 per cento indigeni mames e sipacapenses, anche se una quota non trascurabile è in via di ladinizzazione, cioè ha perso la propria identità e non parla più la lingua né usa gli abiti tradizionali. Essendo una zona per lo più rurale, la maggioranza della popolazione è contadina e ci sono grandi latifondi in cui si coltivava il caffè, ma ora la crisi ha portato all’abbandono di molte piantagioni, con la crescita della disoccupazione. A ciò si aggiungono i problemi che derivano dal trovarsi vicino al confine col Messico, terra di passaggio degli emigranti provenienti soprattutto dal Salvador e dall’America del Sud.


Come giudica la situazione del Guatemala?

«Il nuovo governo, insediatosi il 14 gennaio, è formato soprattutto da esponenti delle classi agiate, in particolare imprenditori e uomini d’affari. D’altro canto nelle ultime elezioni le alternative non erano molto buone: il generale Efrain Rios Montt, leader del Fronte repubblicano guatemalteco (Frg), grazie alla maggioranza di cui disponeva in Parlamento, era riuscito a far convalidare la sua candidatura, nonostante violasse la Costituzione, che vieta di presentarsi a persone responsabili di colpi di Stato. Tuttavia l’ex dittatore ha perso la corsa alla presidenza e per il ballottaggio l’Frg ha stipulato un’alleanza occulta con l’Unione nazionale della speranza che candidava Alvaro Colom. Le forze di sinistra erano divise e non hanno raccolto molti voti. Il presidente Berger ha assunto la guida di un Paese che conosce un crescente impoverimento, dove non calano gli indici di violenza e insicurezza, con una forte presenza del narcotraffico e problemi strutturali non risolti. Come vescovi abbiamo sempre criticato le carenze del sistema giudiziario, denunciato la corruzione di cui stanno emergendo casi incredibili, e rilevato come la povertà cresca, soprattutto nelle regioni dell’interno. La crisi economica è forte e un chiaro indicatore ne è l’incremento dell’emigrazione, specie verso gli Stati Uniti».


Quali sono i nodi strutturali?

«C’è prima di tutto la persistente emarginazione dei popoli indigeni e dei contadini nello sviluppo sociale. Poi c’è il problema della terra: in Guatemala non è mai stata realizzata una riforma agraria, anzi parlarne è ancora oggi pericoloso. Il modello agricolo del Guatemala si fonda sull’esportazione di banane, zucchero e caffè, i tre grandi prodotti tradizionali del Paese. Ciò richiede latifondi, che occupano tutta la zona costiera, la più fertile. Nelle aree montagnose, dove vivono le popolazioni indigene, prevale invece il minifondo. Il modello agroesportatore, invece di creare ricchezza per tutto il Paese, ha generato povertà e conflittualità, tanto che in questo momento sono molte le aziende occupate da organizzazioni contadine, che vogliono accedere alla terra. Al di là della realtà schiavista che si registra nelle grandi aziende agricole, esiste il problema di non aver creato nuove fonti di lavoro per la grande maggioranza dei contadini del Paese. E per di più, il 70 per cento dei guatemaltechi ha meno di 23 anni».


Tutti questi giovani che prospettive hanno?

«Continuano a fare quello che facevano i loro padri e i loro nonni, cioè i braccianti, e allora molti cercano di emigrare negli Stati Uniti. Quando parliamo di riforma agraria non ci riferiamo comunque semplicemente a una ripartizione delle terre, ma come Commissione di pastorale della terra della Conferenza episcopale abbiamo presentato una proposta di "sviluppo rurale", che implica anche la trasformazione e commercializzazione dei prodotti, l’accesso al credito, ecc. In sostanza in Guatemala c’è povertà perché vige un modello agroesportatore che non genera ricchezza per tutti, ma anche perché è mancato un piano di sviluppo nazionale a lungo termine, che desse uguali opportunità a tutti. Gli interventi sono sempre molto parziali, legati al partito che vince le elezioni e non basati su una politica di Stato, su un progetto di Paese. L’altra causa strutturale è la concentrazione della ricchezza in poche mani».


Il Guatemala è considerato il Paese più povero dell’America centrale. Quali le ragioni?

«Perché la produzione del reddito è insufficiente e la sua distribuzione è la più ingiusta della regione. La maggioranza della popolazione non può accedere a un’istruzione di alta qualità. Gli imprenditori ripetono che il Guatemala deve essere più produttivo e competitivo, ma come può esserlo se lo Stato non adempie l’obbligo di offrire educazione di buon livello a tutti? La scorsa settimana ero in una comunità nei pressi di una grande azienda di produzione del caffè e ho chiesto dove fosse la scuola. Non c’era, ma 35 bambini ricevevano lezioni in un capanno molto caldo, poco illuminato, con la lavagna logora e dove il maestro senza contratto col governo deve insegnare contemporaneamente ad alunni di prima, seconda e terza elementare. Gli ho chiesto come facesse. "Io comincio a dare un compito al primo gruppo", mi ha risposto, "poi, mentre questi lo stanno eseguendo, ne do un altro al secondo, e poi al terzo". È assurdo! Ma questa è da sempre la situazione in Guatemala, dall’epoca coloniale non è cambiato nulla in questo settore, anche se girando alcune zone della capitale si ha l’impressione di vivere in un altro Paese. In Guatemala ci sono collegi privati che hanno rette mensili di 3 mila quetzales, mentre nell’interno del Paese un maestro quando inizia a lavorare ha un salario che non arriva a 2.500. In Guatemala i ricchi hanno accesso a un’istruzione ottima e naturalmente sono poi loro che gestiscono l’economia nazionale, in collegamento con la politica economica degli Stati Uniti».


Che fate di fronte a questa situazione?

«Nella nostra diocesi abbiamo un programma di appoggio ai contadini, ne sosteniamo le organizzazioni, forniamo loro consulenza giuridica nei conflitti sindacali, cerchiamo di aiutarli a trovare la terra, ma possiamo fare ben poco. Per esempio, ci scontriamo col fatto che l’amministrazione della giustizia non funziona: stiamo ora accompagnando sette gruppi di famiglie contadine in lotta per i loro diritti, ma da quattro anni attendiamo una sentenza, e nel frattempo queste persone non possono lasciare l’azienda agricola per cercare lavoro altrove, perché perderebbero il diritto che stanno rivendicando. Ma i conflitti sindacali sono solo un aspetto del problema, servono mutamenti strutturali».

Com’è la situazione nella sua diocesi?

«C’è molta fame, sta aumentando la denutrizione e la gente vive in condizioni penose. Povertà e mancanza di legalità favoriscono la crescita della criminalità organizzata, la diffusione delle bande giovanili, una pratica religiosa alienante. Per me questa è una delle principali spiegazioni dell’incremento dei gruppi cristiani pentecostali fondamentalisti: la gente che si barcamena ogni giorno per sopravvivere vuole almeno avere qualche spazio di sicurezza e rifiuta una proposta religiosa che chiami alla lotta per la trasformazione della società».


Che può dirci dell’assassinio, nel dicembre 2003, di padre José Maria Furlan, il sacerdote che aveva duramente criticato il precedente governo di destra del presidente Alfonso Portillo per le ripetute violazioni dei diritti umani?

«Le ragioni di quell’omicidio non sono ancora state chiarite. Padre "Chemita" era una persona molto controversa. Nella prima metà degli anni ’70 aveva assunto una posizione conflittuale nei confronti dell’allora arcivescovo di Città del Guatemala, il cardinale Mario Casariego, quindi si era candidato a sindaco della capitale, dicendo che la vittoria gli era stata scippata con i brogli. Negli ultimi anni la sua visibilità pubblica si era però ridotta: si era dedicato soprattutto a organizzare viaggi in Terrasanta, partecipando poi ad alcuni progetti di costruzione di case popolari. Era un uomo che aiutava molto i poveri, ma era coinvolto anche nel mondo degli affari e aveva un paio di alberghi. Perciò la sua uccisione ha sorpreso un po’ tutti: qualcuno dice che sia stato ammazzato da una persona che gli doveva del denaro o a cui aveva negato un prestito, qualcun altro parla di un terreno della parrocchia che egli avrebbe prestato e poi chiesto indietro. Tutto resta molto oscuro».

Come mai Rios Montt, l’ex dittatore del Guatemala durante gli anni ’80, non è riuscito ad arrivare neppure al ballottaggio?

«Penso che a un certo punto la gente abbia aperto gli occhi e si sia resa conto che non era una buona scelta. Ci sono anche state molte prese di posizione contro di lui e ha influito quanto avvenuto lo scorso anno, quando il Frg, per sostenere la sua candidatura, ha spinto i propri militanti a scendere in piazza e occupare le strade con la violenza. Senza contare che sono emersi casi di corruzione che coinvolgevano esponenti del governo uscente. Inoltre essi contavano molto sugli ex membri delle Pattuglie di autodifesa civile, ma tale appoggio si fondava sul denaro che avevano loro promesso a titolo di indennizzo per l’attività prestata durante la guerra civile e quando il governo non ha mantenuto l’impegno, dando solo un terzo di quanto promesso, molti non hanno votato Rios Montt».


Come accompagnate le lotte contadine, soprattutto quando le leggi non vengono rispettate o gli avversari sono molto potenti, senza cadere in un puro assistenzialismo economico o in un intervento limitato a risolvere situazioni particolari?

«Abbiamo l’appoggio di organismi internazionali, ecclesiali e non, come la fondazione For the right to feed oneself (Fian), che promuove le riforme agrarie. Questi esercitano pressioni sul nostro governo. Riceviamo un grande sostegno anche dall’Ufficio delle relazioni internazionali della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, che attualmente sta realizzando a Washington una campagna di pressione su deputati e senatori a proposito del Trattato di libero commercio tra Usa e America centrale (Cafta), con particolare riferimento all’eliminazione dei sussidi all’agricoltura».

Questo a livello internazionale. E sul piano interno come siete organizzati?

«C’è la Piattaforma agraria, che riunisce varie realtà, tra cui la Pastorale della terra della Conferenza episcopale, i sindacati contadini, l’Associazione per il progresso delle scienze sociali (Avancso) e il Centro di azione legale sui diritti umani (Caldh). Da due anni la Piattaforma agraria ha iniziato un negoziato col governo per risolvere la crisi sociale determinata dalla caduta del prezzo del caffè e proporre un piano di sviluppo rurale. Con le nuove autorità abbiamo avviato la discussione sulla questione agraria. Ci sono però alcuni problemi specifici da risolvere, come le occupazioni di terre, che continuano, gli ordini di sgombero che si vogliono mettere in atto, i mandati di cattura per i dirigenti contadini. Ci stiamo poi sforzando di organizzare i piccoli produttori, soprattutto di caffè, per favorire il loro ingresso nel circuito del commercio equo».


Rigoberta Menchù ha sempre chiesto che vengano processati i responsabili del genocidio della popolazione indigena, ma anche l’attuale Esecutivo non sembra interessato a questo. Come si giustifica allora la presenza di Rigoberta Menchù nel governo?

«Rigoberta ha detto di voler essere una "ambasciatrice di buona volontà" di fronte al resto del mondo, sostenendo che tale incarico le era stato affidato dall’Unesco. È stata anche molto chiara nel dire che non fa parte del governo, il che presuppone la libertà di continuare a chiedere giustizia».

In Guatemala dagli anni ’80 il movimento popolare non è mai stato molto forte, perché la paura era tale da impedirne la crescita. Qual è la situazione oggi?

«Il movimento popolare resta molto debole. C’è un’estrema disgregazione. Ci sono proteste, ma non si ottengono risultati. Uno dei segnali per me più chiari della mancanza di partecipazione della società civile è l’assenza di rappresentanti delle organizzazioni popolari nei negoziati per il Trattato di libero commercio; né ci sono state pressioni per esigere tale presenza. Bisogna rafforzare il movimento popolare per farne una forza di critica all’attuale governo».


I latifondisti l’hanno molto criticata per il suo impegno a favore dei contadini e lei è stato anche minacciato di morte nel 1996 e poi nel 2002.

«Negli ultimi due anni non ho più ricevuto minacce. Ci sono stati momenti molto difficili, ma la situazione ora è tranquilla».


Come giudica la Santa Sede il vostro lavoro e il vostro impegno?

«Le autorità vaticane non ci hanno mai fatto particolari osservazioni. Quando è stato ucciso monsignor Gerardi abbiamo ricevuto un grande appoggio da Roma. D’altro canto, non stiamo facendo nulla che sia al di fuori dell’insegnamento della Chiesa. I nostri punti di riferimento sono il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa, per cui non ci si può accusare di seguire una strada sbagliata».

Vuol dire che Roma vede la realtà nel vostro stesso modo?

«Una cosa è essere direttamente a contatto con la sofferenza e l’ingiustizia, un’altra osservarla da lontano. Ciò influisce sul modo di essere e agire. Quando ero prete a Città del Guatemala, pensavo di conoscere bene la realtà guatemalteca e di operare in modo coerente col Vangelo. Ma quando sono arrivato a San Marcos, mi sono reso conto che non avevo una comprensione sufficiente né il mio impegno era abbastanza profondo. Per cui è vero che c’è differenza. D’altro canto anche qui ci sono molti cattolici cui non si può neppure parlare di unire fede e impegno sociale. Nella stessa San Marcos ci sono praticanti che non conoscono la realtà dei poveri. La Chiesa guatemalteca ha compiuto un’opzione chiara a favore dei poveri e degli indigeni, ma quando si tratta di tradurla nella pratica ci sono livelli diversi di impegno, tra i vescovi, tra i sacerdoti e le religiose, e tra i laici».


In questa realtà che influenza hanno le comunità di base?

«Abbiamo perso molto questa presenza di comunità di base, soprattutto perché negli anni del conflitto armato era molto pericoloso formare gruppi e questo ha fatto sì che esse rimanessero un po’ ai margini. Tuttavia ora stiamo tornando a parlare di piccole comunità, cioè nuclei in cui si vivano veramente i valori del Vangelo. Non si deve comunque dimenticare che nelle zone indigene questo modello non attecchisce, perché gli indigeni hanno una mentalità che mette l’accento sull’organizzazione comunitaria ampia. Nei paesini la gente si conosce, tutti sanno i problemi e i difetti altrui, e la grande maggioranza delle diocesi riunisce villaggi di piccole dimensioni. Invece a Città del Guatemala, che ha una grande periferia povera, le comunità di base funzionano meglio».

Dopo la fine della guerra, la Chiesa guatemalteca, che aveva svolto un ruolo profetico, è parsa faticare ad adeguare il proprio ruolo al nuovo momento storico. Che ne pensa?

«L’incisività della Conferenza episcopale si è effettivamente ridotta, forse per stanchezza, forse per il timore di favorire il ritorno a situazioni di violenza come quelle vissute durante la guerra civile, forse perché dovremmo rinnovare le nostre opzioni, nel senso di essere più coerenti con quanto abbiamo detto e scritto. Per esempio, qualche anno fa, come Conferenza episcopale si era pensato di scrivere una nuova lettera sul problema agrario, per dare seguito a quella del 1987, ma alla fine non siamo riusciti a metterci d’accordo. Non tutti i vescovi vivono la stessa realtà né le necessità della gente delle diverse diocesi sono parimenti pressanti, e questo influisce al momento di prendere decisioni, che dovrebbero essere più nette. C’è solidarietà tra i vescovi, ma su alcuni temi non abbiamo tutti la stessa opinione, soprattutto sulla questione agraria o su come affrontare la povertà».


A sei anni dalla pubblicazione del rapporto Guatemala: mai più, il processo di "recupero della memoria storica" prosegue?

«Solo cinque diocesi sono andate avanti. A San Marcos stiamo preparando la pubblicazione del nostro rapporto locale, che inquadra i risultati della ricerca nel contesto storico e sociale del dipartimento. È un modo per restituirlo alle comunità. Ci stiamo sforzando di unire su questo tutte le diocesi, ma non è facile».

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