«Io nell’inferno dell’Afghanistan»

Bresciani, perché è andato in Afghanistan?
«Per curiosità: quando mia figlia ha accettato un lavoro in una organizzazione non governativa afgana ho deciso di accompagnarla e poi sono rimasto tre mesi. Tre mesi trascorsi con la sensazione di essere invisibile, per quanto sia impossibile esserlo in un paese in guerra, in cui sono passato per pazzo e per agente segreto del Sisde perché non avevo credenziali e tutela e perché alla Franesina non c'erano faldoni a mio nome. Ho vissuto nelle case degli afgani e, libero da ogni vincolo, mi sono mosso dappertutto, molto più di quanto possano vedere giornalisti e funzionari aggregati alla colonna militare».
Per esempio?
«Mi sono fatto accompagnare nel carcere della morte, sono entrato in una moschea di venerdì pomeriggio durante la preghiera e ho fatto un pic nic in un territorio controllato dai talebani, perché ero al seguito di un signore della guerra. In Afghanistan ho imparato che il fattore sorpresa è destabilizzante, ho capito che gli afgani fanno più attenzione a chi è particolarmente protetto, ma per loro trovarsi di fronte un occidentale che passeggia liberamente per le strade di Kabul, spesso vestito da afgano, non era motivo di preoccupazione. Anche se non è stata una passeggiata: ho subito due attentati e sono stato arrestato».
Di chi ha avuto più paura?
«Dei militari americani. Mentre i nostri militari hanno l'ordine di sparare solo dopo essere stati attaccati e mai prima di un colpo di avvertimento, americani e inglesi girano per le strade con le armi spianate e il colpo in canna, con l'ordine si sparare al minino sospetto di pericolo. Questo causa migliaia di morti civili innocenti. Noi italiani non siamo esenti da accordi e baratti con i signori della guerra, ma tra gli “occupanti” siamo di sicuro quelli che si comportano meglio: abbiamo costruito strade, scuole e rifugi per le donne e per questo gli afgani, anche se non ci amano, ci rispettano».
Marta Pizzocaro
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