D.O.N.G. Dannate organizzazioni non governative


L'antropolgo Alberto Salza accusa. E spiega il fallimento della cooperazione internazionale in Africa. Dove con gli aiuti arrivano ignoranza, arroganza, stupidità. E amore. Il nemico peggiore


Lo sai perché non abbiamo lo sviluppo economico, in Africa?". La domanda è di Ater, ragazzo dinka del Sud Sudan sopravvissuto alla guerra civile, ogni giorno della sua vita. Gli rispondo, da paternalista: "Dimmelo tu". "Ascolta e non fare battute", dice lui, severo come chi è cresciuto temendo il suono di ogni aeroplano. "Il fatto è che noi africani dividiamo tutto. Voi siete fortunati: avete l'egoismo su cui costruire la ricchezza". Nelle chiese di Lalibela, in Etiopia, avevo incontrato gli eremiti, che ancora oggi si acquattano sulle membra semimummificate di chi li ha preceduti in fetidi buchi delle pareti, come piccioni. Qualcuno porta loro da mangiare. Qualcun altro riceve qualcosa. "Non è così difficile moltiplicare pane e pesci", avevo detto a me stesso, "è molto più complicato dividerli". Come ha scritto Seyyed Hossein Nasr in Ideali e realtà dell'Islam: "La carità materiale oggi in auge riduce l'uomo a una bestia: gli dà cibo e vestiti, ma lo priva di protezione. Gli insegna a camminare, ma gli toglie la vista, la sola che potrebbe indicargli dove andare". Tra gli esperti, l'Indice di Povertà Umana (HPI, misura di deprivazione) sostituisce l'obsoleto Indice di Sviluppo Umano (HDI, misura di progresso). Quest'ultimo si basava su: aspettativa di vita, istruzione e livello di sopravvivenza. L'HPI analizza le stesse componenti, ma con il cannocchiale a rovescio: assenza di longevità ("Ce la farò o no a superare i quarant'anni?"), educazione ("Qual è il mio livello di analfabetismo?") e benessere ("Quanto posso contare su acqua pulita e servizi sanitari? Quanti dei miei bambini sotto i cinque anni sono sottopeso?"). Su 108 Paesi in via di sviluppo, la CIA (proprio loro: cia.gov/library/publications/the-world-factbook/rankorder/) stila una classifica. La miseria assoluta è privilegio dell'Africa: 1) Ciad; 2) Mali; 3) Burkina Faso; 4) Etiopia; 5) Niger; 6) Guinea; 7) Sierra Leone; 8) Mozambico; 9) Benin; 10) Guinea Bissau. E allora diamo il via ai quattro cavalieri dell'apocalisse degli aiuti all'Africa: Ignoranza, Arroganza, Stupidità e Amore, in volo sui candidi aerei del-l'Humanitarian Air Service delle Nazioni Unite. L'ignoranza costa un sacco di soldi. Nel nord del Kenya, per esempio, una ong ha costruito un impianto per la lavorazione della carne bovina: tre milioni di euro spesi. I turkana della zona, però, si rifiutano di vendere le vacche. A me è stato chiesto di organizzare un'importazione clandestina di bestiame oppure di capirci qualcosa. "Vedi, noi abbiamo un proverbio", mi ha detto un turkana grattandosi l'acconciatura di fango blu che nasconde un osso dell'antenato. "Il sentiero delle capre va al mercato; quello delle vacche incontra il sentiero delle capre, ma al mercato non ci va". Le vacche, per i turkana, sono capitale sociale: servono per matrimoni e cerimonie. Non si possono vendere vecchie amiche cornute a un mattatoio dipinto di bianco. Bastava chiedere. L'arroganza parte da lontano. Come scrive Yasunari Kawabata, in La casa delle belle addormentate: "Qualunque vita, per quanto inumana, con l'assuefazione diventa umana". Ma noi addetti all'aiuto umanitario, la settima industria al mondo, non ci crediamo. Così in Ogaden, al confine tra Etiopia e Somalia, ho chiesto quale fosse il quantitativo minimo di vita. Alcune risposte: "Mangiare una volta ogni due giorni e una pillola medicinale al mese". "Avere dieci pecore, undici figli e vivere sull'altopiano desertico: la mia, di vita". "Una vita che ti lasci vivere". "Non te lo dico. Tu non sei uno di noi". Allora ho permesso che le Special Forces americane, in Ogaden per l'invasione della Somalia, lasciassero per un giorno intero i malati dell'ospedale di Gode sotto il sole rovente ("Così imbianchiamo le corsie, che fanno schifo"), e che poi vaccinassero i cammelli puntando le mitragliatrici sui pastori (dialogo urlato: "Ci volete avvelenare le bestie!"; "È per il vostro bene, ignoranti!"). Dato che siamo come soldati in guerra contro miseria e ingiustizia, nel nostro lavoro ci vorrebbe una disciplina assoluta. E invece lasciamo che gli operatori dello sviluppo appaiano agli occhi degli africani come ricconi su costosissime fuoristrada bianche, con una fama meritata di ubriaconi e puttanieri, oppure come poveri diavoli che non sanno bene quello che fanno, se non beccarsi un lauto stipendio e i benefit per la famiglia. Un giorno, in Ogaden, aspettavamo gli ispettori del World Food Programme che dovevano decidere gli aiuti alimentari dopo una carestia. Avevamo allineato i pastori somali a fianco della pista sterrata. Se ne stavano ritti nel vento, sottili come tagli di Fontana. Atterrò l'aereo. Sulla scaletta apparvero tre donne bianche, così obese che a malapena riuscirono a scendere. Guardai i somali affamati. Nella calura, le loro linee tremolavano. Stavano ridendo. La stupidità uccide. La mania igienica dell'Occidente ammazza gli africani. Oggi è di moda la latrina. Ne edifichiamo dappertutto, con esiti comici. In Sud Sudan, una ong ha costruito gabinetti in muratura in mezzo alle praterie. I dinka si sono rifiutati di entrarci. Spiegazione di uno di loro: "Quella è una casa molto più bella delle nostre capanne. Noi non cachiamo dentro le case". In realtà la latrina può concentrare e proteggere la materia fecale dove il sole distruggerebbe i batteri, che così arrivano alla falda acquifera. Sul lago Turkana, in Kenya, due epidemie di colera coincisero con la costruzione di due latrine, a distanza di dieci anni. Le capanne di sterco e fango dei samburu impressionarono una dottoressa svizzera, inviata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità in Kenya. La accompagnavo, durante la carestia del 1984, a visitare i villaggi abbandonati dai pastori. Le mosche erano dappertutto. La signora arricciava il naso e criticava l'igiene intima dei samburu, gente che mette le vacche in casa per sentirsi bene con il mondo. A un certo punto trovammo un villaggio senza mosche. Le coperture delle capanne erano di plastica, ricavate dai teloni blu e gialli degli aiuti umanitari. "Vede che se si impegnano riescono a tenersi puliti? Niente mosche qui", disse la dottoressa. "Mi stia a sentire", risposi "niente mosche significa niente merda; niente merda indica che le vacche sono morte; niente vacche, niente latte. Niente latte, tutti morti. Io preferisco la merda e le mosche, signora". Ma è l'amore il nemico peggiore. Per anni ci siamo fatti prendere il cuore dai bambini africani. Avevano gli occhi grandi e umidi, con le ciglia da fanciulla. Sono i sintomi del kwashiorkor, una grave forma di malnutrizione infantile per cui la crescita è ritardata, lo stomaco si gonfia e gli steroidi non vengono interamente eliminati, creando un'azione femminilizzante: viso tondo, ciglia lunghe, occhi languidi. Un giorno venni mandato a discutere d'amore con un assassino d'Africa. Se ne stava appoggiato alla sua "tecnica", il camioncino dotato di mitragliatrice pesante che fa parte del paesaggio in Somalia. Aveva bandoliere e cartucce dappertutto. Era così magro che mi venne da pensare: "Sono i proiettili a tenerlo in piedi". In qualità di antropologo embedded, avevo l'incarico di scoprire perché i signori della guerra si fregassero, tra i rifugiati, tutto il cibo destinato a vecchi e bambini. Non è facile parlare a uno così. Non è il fatto che giochi con il kalashnikov a rendermi nervoso. È che è sicuro di sé, al cento per cento. È impossibile guardarlo negli occhi: non ci tieni a vedere il tuo volto riflesso, come un bersaglio. Comunque, ci sono sofisticate tecniche di approccio verbale e gestuale, in questi casi. "Ma che cazzo credete di fare?", dissi spostandogli la canna del mitragliatore verso terra. "Non dovete rubare il mangiare di vecchi e bambini. Siete uomini adulti, guerrieri!". Invocai la maledizione di Allah: qualche volta funziona, qualche volta non funziona. Sorrise. "Vedo che hai capito", disse. Mi feci guardingo: i somali fregano chiunque. "Capito cosa?", mormorai. "Che gli adulti hanno bisogno di mangiare, per combattere", disse. "Il fucile mangia i proiettili. Senza proiettili, il fucile è solo acciaio di ferro (proprio così, in italiano). E non serve a niente", concluse sputando il bolo anfetaminico del qat. "I vecchi e i bambini sono vittime collaterali", disse dolcemente il miliziano. < "I bambini hanno capacità riproduttiva, ma niente cultura. Se moriamo, i nostri bambini saranno allevati come americani". Sputò di nuovo. "I vecchi hanno la cultura, ma non la capacità riproduttiva. Se rimangono vivi solamente loro, il nostro popolo sparirà. Ecco perché noi lasciamo morire di fame i vecchi e i bambini, mangiando il loro cibo. Questa è la tattica. La strategia è che così facendo possiamo salvare il futuro. Dai da mangiare ai vivi, non ai morti". Per ragionare così duro, ci vuole un amore totale, un amore così puro per la propria gente da amputarne la parte che non serve. "Se non capiamo questo amore, è meglio che restiamo a casa", scrissi nel rapporto. (Alcuni degli episodi qui descritti sono citati dal libro di Alberto Salza Niente. Antropologia della miseria estrema in uscita per Sperling & Kupfer).

Alberto Salza


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