L'eroe nella polvere

Storia del corridore Mateo Flores e degli onori che gli tributarono perché aveva vinto una maratona a Boston. Ma anche della sfortuna che lo colpì dopo costringendolo a diventare spazzino nello stadio a cui, nei giorni di gloria, era stato dato il suo nome.
Sono nato in Guatemala, un paese negato per lo sport. Posso elencare tutti i rami dell’atletismo, posso parlare di lotta libera, di pugilato, di nuoto, di schermo. Posso ricordare persino la grande passione latinoamericana per il calcio. Posso dire che i guatemaltechi hanno rappresentanti di ogni genere nelle attività sportive. Ma devo ammettere, senza passione, che veniamo battuti regolarmente persino dai nostri colleghi centroamericani, che non se la passano molto meglio di noi. Esiste un’eccezione, come sempre. Infatti, ho scoperto che i “ciapines”, come veniamo chiamati, eccelliamo tragicamente in una cosa soltanto: nel tiro al bersaglio.Il Guatemala è l’unico paese ad aver sviluppato proprio lo sport che gli s’addiceva. Il tiro al bersaglio! Niente male per un paese che ha appena finito una guerra interna durata quaranta anni. Speriamo che con l’arrivo della pace i nostri campioni non comincino a decadere.
di Dante Liano

Escopeta. Eppure, in questo panorama di sconfitte senza sosta, ogni tanto la bravura di qualcuno ci ha riscattato dalla depressione. Negli anni Settanta, chissà per quale miracolo, la nazionale di calcio battè il Messico, per la prima e ultima volta nella storia, grazie a un raptus in zona Cesarini del nostro cannoniere Manuel “Escopeta” Recinos. A pochi secondi dalla fine (e dall’eliminazione), “Escopeta” ricevette un passaggio casuale, si voltò e si vide da solo nel corridoio sinistro, corse come un disperato verso la porta avversaria, e nel momento in cui il difensore messicano cadeva ai suoi piedi con le gambe a forbici, sparò una cannonata micidiale che finì nell’angolino destro, mentre lo stadio esplodeva in un grido di incredulità e di gioia. Gridava pure, dai microfoni della radio nazionale, il grande Mario Ferretti, un italiano finito nel Guatemala chissà come, e che era diventato il principe dei cronisti sportivi del paese. (Un altro giorno vi racconterò la storia di «Escopeta». Vi dico soltanto che fu incoronato idolo nazionale, che sposò una cantante, fu tradito, divorziò, lasciò il calcio, si convertì al buddismo, fondò una scuola di meditazione trascendentale e divenne capo di una setta spirituale che ancora esiste).

Surqué. Un altro eroe nazionale dello sport si chiama Jorge Surqué. Questo era un ciclista che abitava nella periferia della città. Ogni giorno si recava al lavoro in bicicletta, e la cosa non sorprende a chi abita in pianura, ma può meravigliare se consideriamo il fatto che la capitale del Guatemala si trova a 1900 metri di altezza, in mezzo alle montagne, e che il paese di periferia si trovava un pochino più in alto. Sicché Surqué macinava chilometri in salita, in una strada piena di pericolose curve. Qualcuno lo convinse di passare allo sport. E così, Jorge Surqué vinse la Vuelta ciclistica del Guatemala, ed è stato il primo guatemalteco a vincerla. Erano sempre i colombiani o i messicani a portarsi via la maglia “Quetzal”. Per una stagione indimenticabile, Jorge Surqué riscattò l’onore del nostro ciclismo. Poi si perse fra le macchine, nel suo andirivieni da casa al lavoro. Oggi nessuno sa dove abita né cosa fa. Qualche mese fa, la squadra guatemalteca di calcio si coprì improvvisamente di gloria. In un quadrangolare realizzato a Miami, dovette giocare contro il Brasile. La partita si trascinava, noiosa, coi brasiliani che facevano i giocolieri e i nostri che facevano i brocchi quando, verso la fine, ci fu un tiro d’angolo. Cross al centro, testolina di guatemalteco che incorna la palla e questa che va a finire nella rete avversaria. Gol. Ma la cosa straordinaria non è questa. La cosa straordinaria è che lo speaker della televisione guatemalteca, invece di gridare «gooooooooooool!» per 45 minuti come fanno i brasiliani, gridò «Miracolo! Miracolo!», e nel paese, la stessa cosa gridavano i tifosi mentre festeggiavano la prima, unica e ultima vittoria riportata dal Guatemala sul Brasile.
Flores. Ma il primo di tutti è stato un gran maratoneta, negli anni Cinquanta. Si chiamava Mateo Flores, era un indio piccolo così, che correva a piedi nudi come un’autentica lepre, anche se le lepri sono scarse nel Guatemala. A vedere bene, il paragone dovrebbe essere fatto con qualche animale nostrano, tipo il gatto selvatico o il puma, il leone della selva tropicale. Lepre, gatto o puma, Mateo Flores correva come un indiavolato e così, l’unica volta che ci siamo permessi (o abbiamo avuto il permesso) di avere una democrazia in tutto il Novecento, e cioè fra il ’44 e il ’54, il governo finanziò il piccolo indio perché andasse a correre nella celebre maratona di Boston. Qualcuno lo mise sull’aereo, gli raccomandò di comportarsi bene, e lo spedì all’incontro di una delle tante sconfitte con cui l’atletismo guatemalteco onorava il barone de Coubertin: l’importante era andare a fare un giro a Boston, mica vincere. Invece, le prime pagine dei giornali si riempirono di caratteri cubitali quella primavera guatemalteca: Mateo Flores era arrivato primo nella maratona di Boston! Lui, il piccolo indio denutrito, ossuto e oscuro, di scarse parole e flebile voce, aveva cominciato non molto bene, ma, a misura che si avvicinava la meta, cominciò a scartare un avversario dopo l’altro, fino a restare da solo al comando, e resistette agli attacchi di quelli che tiravano fuori tutto il fiato del primo mondo, del poderoso, bianco, biondo, muscoloso primo mondo, e tagliò il traguardo quasi dando l’anima al creatore, fiero di sé, Mateo Flores, piccolo, indio, oscuro, e guatemalteco. Il ritorno a città di Guatemala fu trionfale, tanto quanto discreta era stata la sua partenza. Le interviste si molteplicarono (non c’era la televisione, e giornali e radio non pagavano per questo) e Mateo Flores fu famoso e onorato. Ricevette tutte le medaglie possibili. Poi, i riflettori si spensero (anche perché non vinse più nien
te: l’anno successivo tornò a Boston e arrivò ottantesimo), e il nostro ridiventò piccolo, ossuto, insignificante. Nonostante tutto, il governo, quando inaugurò il nuovo stadio di calcio, gli attribuì il suo nome. E così, anni dopo, ad esempio nel periodo in cui «Escopeta» Recinos sparò la sua gran cannonata contro il Messico, nessuno si ricordava più perché quello stadio si chiamava Mateo Flores.
Polvere. Si scoprì con una tragedia. L’anno scorso, in quello stadio, 70 persone morirono travolte dalla moltitudine che spingeva per entrare a vedere una partita fra le nazionali del Guatemala e del Costa Rica. Il giorno dopo, i giornalisti trovarono un anziano che spazzava via i resti della tragedia. Era uno dei pochi addetti alla pulizia dello stadio. Hanno voluto intervistarlo, per tirare fuori qualche testimonianza sulla strage. Quando gli chiesero il nome, rispose: «Mateo Flores». I giornalisti allora si misero a ridere. «No, non ti chiediamo il nome dello stadio, ma il tuo». E l’omino rispose: «Mi chiamo Mateo Flores. Questo stadio porta il mio nome».
Sfortuna. Infatti, Mateo Flores, la gloria nazionale, era finito così. Dopo il secondo tentativo fallito, a Boston, Flores si trovò senza lavoro e dimenticato. Allora tentò la fortuna aprendo un piccolo spaccio di genere alimentari, e fallì. Poi trovò un lavoro di fattorino, ma si perdeva nella capitale disordinata e piena di scritte che lui non riusciva a decifrare.
In seguito, fu anche giardiniere in casa di ricchi, ma fu licenziato senza spiegazioni il giorno che uccise una pianta per eccesso di annaffiatura. Poi restò definitivamente dissocupato. Allora, riunendo tutte le sue forze e vincendo la paura ancestrale che lo dominava, stretto dai debiti e dalle necessità dei numerosi figli, si rivolse alla Confederazione Sportiva e gli disse: «Sono Mateo Flores, quello che vinse la Maratona di Boston. Datemi qualcosa».
E i signori dello sport gli trovarono un lavoro: addetto alla spazzatura del “suo” stadio. C’era da essere malinconici: il grande maratoneta, quello per cui i nostri genitori erano felici di essere guatemaltechi, lavorava in mezzo alla spazzatura! Ma i dirigenti dello sport calmarono la coscienza di tutti con una spiegazione lapidaria: «Cosa volete, no sa far null’altro che correre, e ora è anziano, piccolo, oscuro, insignificante». Certamente. Era un perfetto sportivo guatemalteco.


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Dante Liano è nato nel dipartimento di Chimaltenango (Guatemala) nel 1948. Si è laureato in letteratura all'Univesità di San Carlos di Guatemala nel 1973 e nel 1977 ha completato il dottorato presso l'Università di Firenze. Risiede in Italia dai primi degli anni '80 e attualmente ricopre la qualifica di professore ordinario di Lingua e Letterature Ispano-americane presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere della Facoltà di Scienze Linguistiche eLetterature Straniere dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Narratore e critico letterario, è uno dei più importanti autori centroamericani contemporanei.

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